20 Dicembre 2017

Un Paese di re e di vigliacchi. Quel giorno del 1943 in cui Vittorio Emanuele III scappò lasciando l’Italia ai tedeschi… buon Natale Repubblica Italiana!

In questi giorni di fine d’anno sono rispuntati i Savoia, tra salme da riseppellire ed eredi ballerini che cercano un nuovo barlume di visibilità. Sarebbe da sorridere alla richiesta di mettere le spoglie di Vittorio Emanuele III nel Pantheon, se non fosse che la nostra classe politica è talmente cialtrona e/o impegnata in questioni private che un giorno potrebbe anche accettare. Così, come augurio per un 2018 migliore per (quasi) tutti noi italiani, vale la pena ricordare una storia tremenda, che racconta uno dei momenti più bassi di sempre del nostro straordinario Paese. Forse, per certi versi, il più basso in assoluto. È la cronaca di una resa infame e di una fuga ignobile. Riguarda degli uomini di enorme potere, inadeguati e vigliacchi. È una storia che non ricorda più nessuno. E racconta una sconfitta che ha segnato il nostro inizio, nel bene e nel male. Siamo a Roma. È l’8 settembre del 1943 e Winston Churchill aveva già definito l’Italia “il ventre molle d’Europa”. Per radio, alle 19 e 45, viene proclamato l’armistizio dal generale Badoglio, il maresciallo d’Italia. Nelle sue parole non è previsto alcun attacco contro i nazisti presenti attorno a Roma e sul territorio nazionale. “Ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane – conclude Badoglio – deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. La Wehrmacht è schierata a sud e a nord della capitale e subito dà il via all’operazione voluta da Hitler, nel caso, appunto, della molto probabile e imminente defezione italiana. Le divisioni del Regio esercito possono contare su un numero molto favorevole – per un rapporto di circa 20 a 4 – rispetto a quelle tedesche dislocate intorno a Roma.

Alle 5 e 10 del nove, il Re d’Italia Vittorio Emanuele III (quello che vorrebbero mettere nel Pantheon) e la regina Elena, Badoglio, i capi di Stato maggiore Ambrosio e Roatta e i ministri militari scappano di nascosto e in modo precipitoso a Brindisi, senza lasciare nessuna disposizione al Paese e, di fatto, rinunciando a ogni genere di difesa, per una delle pagine più umilianti e meschine della nostra storia. Con il sospetto che Vittorio Emanuele III – che secondo Indro Montanelli aveva cospicui depositi di denaro in Gran Bretagna – avesse negoziato la sua fuga con la resa di Roma. Mentre Badoglio pare che fin dai primi di settembre avesse fatto trasferire la moglie e la figlia in Svizzera, al sicuro. Così, tra la notte dell’8 e il 10, le avanguardie naziste entrano a Roma e diverse divisioni del Regio esercito si fanno catturare senza sparare un colpo. A contrastare l’avanzata ci sono solo iniziative del tutto spontanee, come quella della 21esima divisione dei Granatieri di Sardegna, comandata dal generale Gioacchino Solinas, insieme a centinaia di cittadini armati. I nostri, tra personale senso del dovere e puro eroismo, capitolano a metà pomeriggio del 10. È la resa definitiva, che comporta in poco tempo l’agevole occupazione tedesca di oltre due terzi del territorio nazionale e quasi seicentomila militari italiani catturati.

In quei giorni, a Roma, muoiono oltre un migliaio di italiani, tra militari e civili. Quel giorno è considerato come la prima scintilla della Resistenza italiana. Il resto è storia. Nonostante i vertici di uno Stato assente, la Repubblica, almeno un po’, è nata quel 10 settembre del 1943. Dal basso. Dai militari. Dalla gente, nonostante tutto quello schifo attorno – altolocato e vile – che fuggiva dalle proprie responsabilità. Buon 2018 Repubblica Italiana.

Michele Mengoli

www.mengoli.it

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