14 Agosto 2019

Il nostro Philip Roth è Umberto Saba. Leggere per credere

Saba è l’intoccabile. Il poeta minimo, quello della “poesia onesta” e umile, per non dire umiliata. Resterà lui. Passeranno gli epigrammi in trincea di Giuseppe Ungaretti (passato, poi, a ruminazioni virgiliane), passerà pure la poesia anglosassone ed esistenziale di Eugenio Montale, che odiava i poeti laureati perché il lauro (ergo: il Nobel) lo voleva lui, soltanto lui. Passeranno tutti e resterà lui, con il suo profilo da “capra dal viso semita”, con quel volto fuori tempo, quasi di vetro, e il mistero della semplicità tutto impresso nel nome, “Saba” (in realtà si chiamava Umberto Poli), come la Regina venuta da terre mai dette per visitare Salomone e “metterlo alla prova con enigmi”, come detta il Libro dei Re.

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Sulla poesia di Umberto Saba (1883-1957), “unica” e “impenetrabile alle mode”, “che poteva nascere solamente a Trieste”, hanno detto in tantissimi, meglio di tutti Guido Piovene che nel 1953 raccontò pubblicamente “il vincolo che ci lega a Saba”. “Esiste una paternità dei poeti, che noi dobbiamo circondare, come la paternità richiede, di religiosa pietà”, diceva Piovene, sigillando la ragione per cui sono i poeti, i poeti come Saba, con fragile grandezza, a salvare la terra dall’implosione, dal disastro congenito al destino dell’uomo. “Esiste una paternità di questi esseri che sembrano venire prima di tutto, che parlano di amore, di fiori, d’uccelli; che sembrano appartenere all’oscuro grembo del mondo. Senza questa paternità, quando il sentimento di essa in una società si estingue, noi stessi diventiamo oscuri, confusi, o spietati e violenti”.

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Sulla poesia di Saba, appunto, siamo tutti d’accordo. Saba, la cui opera è consustanziale a Trieste (“Trieste ha una scontrosa/ grazia. Se piace,/ è come un ragazzaccio aspro e vorace,/ con gli occhi azzurri e mani troppo grandi/ per regalare un fiore”), semplificando con brutalità: ha scritto la più bella poesia su Ulisse (“Oggi il mio regno/ è quella terra di nessuno”),  ma anche, a dire di Pier Vincenzo Mengaldo, uno dei componimenti “più alti” scritti nel Novecento, Vecchio e giovane; tra le altre cose, ha scritto in versi il più bel ritratto di Nietzsche (“Intorno a una grandezza solitaria/ non volano gli uccelli, né quei vaghi/ gli fanno, accanto, il nido. Altro non odi/ che il silenzio, non vedi altro che l’aria”) e si è griffato una memorabile Epigrafe, “Parlavo vivo a un popolo di morti./ Morto alloro rifiuto e chiedo oblio”, che benedice l’intera tribù dei poeti, eroi nell’anonimato.

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A me, qui, interessa esaltare l’Umberto Saba scrittore di prosa. S’inventò (era il 1946) il genere delle Scorciatoie, che sono, in fondo, dei tunnel narrativi pieni di coriandoli e di risa. Sono canyon di provincia, viottoli dove Saba, da teppista, fa fuori l’opera di Svevo in un distico (“poteva scrivere bene in tedesco; preferì scrivere male in italiano”), disarticola i Libri gialli (“ricordano le interminabili avventure dei cavalieri erranti. Al posto del cavaliere è stato messo il poliziotto”), disintegra l’Ermetismo con una definizione shock (“Parole incrociate”) e mentre ci spiega cosa sia l’arte (“L’opera d’arte è sempre una confessione; e, come ogni confessione, vuole l’assoluzione”), s’inventa il primo romanzo in due righe e mezzo della storia (“Bianca – la mia bella ospite – è nata a Messina. È tutta luce. Non ha ombre dove possa rifugiarsi la mia stanchezza”) e ci spiega perché esiste la guerra (“Le guerre si combattono perché l’uomo è un animale aggressivo”), spacca gli stinchi, per sempre, a Gabriele D’Annunzio (“Che grande poeta minore sarebbe stato; solo che avesse avuto il senso dei suoi limiti!”).

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Su D’Annunzio, “il bianco immacolato signore”, Saba dà il meglio di sé nella silloge Tre ricordi del mondo meraviglioso, in cui il Vate è quello che ci attendiamo: la “Gloria” dal “sorriso affascinante” che appende alla marmorea villa titaniche sentenze. Come questa: “disse che l’Italia aveva avuti, prima di lui, tre soli poeti: Dante, Petrarca e Leopardi; gli altri non erano stati che chitarristi”. Il bello, semmai, in questo racconto, è che D’Annunzio appare come il gemello opposto di Saba (“molti notavano una certa somiglianza fisica fra me e D’Annunzio”), ciò che di sé Saba ha ucciso. Ma il meglio in quel libro dispari e insperato, Ricordi. Racconti (1956), sta nelle memorie d’infanzia, in cui prendono vita personaggi scolpiti, indimenticabili, come Samuele Davide Luzzato, “letterato e orientalista famoso” che “era ghiottissimo” di “una minestra che si chiamava a Trieste e in tutto il Veneto panada, composta di avanzi di pane rinsecchito, olio e foglie di lauro”, come Samuele Vita Lolli, “uomo di temperamento malinconico e concentrato, che soffriva d’emicrania, d’atrabile e di disperazione”, insomma, “un fervente Kabbalista”, e la teoria di abitanti del Ghetto di Trieste e “della sua sudicia originalità”. Pare di leggere gli sketch di Isaac B. Singer, di flirtare con le ironie di Saul Bellow e di Henry Roth e dei formidabili ebrei d’America. Alcuni brani (Tommaso Salvini e il mio terribile zio, che inizia così: “Il suo nome, gli dissi, ho imparato a conoscerlo prima dell’alfabeto. Glielo dissi per fargli piacere, e perché era la verità”) sembrano la palestra degli esercizi di Philip Roth.

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Un genio, da ogni lato, Saba. Che chiedeva scusa a causa della sua musa, che pensava ai suoi racconti “come un incubo” e che non voleva occuparsi dei propri scritti, “non so ancora se li pubblicherò o no”, scriveva in una delle sue mansuete prefazioni (una mansuetudine che cela coltelli), “non c’è nulla di male lasciare che altri si assumano la responsabilità di decidere per noi. Almeno nelle cose pratiche”. Proteso verso i mondi che noi non vediamo, il poeta abbandonava gli scritti sulla schiena del caso. Altri ne avrebbero tratto consolazioni o sentenze. (Davide Brullo)

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Hahàm: sapiente (in modo particolare nella Legge). “Un hahàm, un vero hahàm” diceva di me, andando di aula in aula, a riferire il “miracolo”, il mio buon maestro di religione; quando, in seconda classe elementare, alla lezione di Storia Sacra, mi ero alzato per porgli la domanda (veramente talmudica) se la pioggia del diluvio era incominciata goccia a goccia, o venuta giù tutta ad un tratto. Perché devi sapere, mio paziente lettore, che anch’io ero preconizzato, oltre che futuro impiegato di Banca, futuro “luminare del Giudaismo”. Se non ci sono – ahimè – riuscito, è stato per colpa di quel “goi”, di quello scapestrato di mio padre. Più forse ancora (data l’assenza di padre) dalla mia balia (una contadina slovena) che teneva a capo il letto un’immagine di Gesù bambino (alla quale volentieri m’identificavo) e mi conduceva con sé ogni sera alla chiesa del Rosario, che ancora esiste in quella parte di città vecchia che non è stata inutilmente (direi bestialmente) abbattuta. Mi faceva anche, prima che mi addormentassi, recitare, invece dello Schèmagn Israèl in ebraico, il Padre Nostro in sloveno… Se, a costo di ripetermi, racconto queste cose di antichi tempo, non è – te lo giuro, lettore – per “parlare di me”, ma solo per lamentare quali orribili mescolanze erano possibili in Europa, quando esisteva ancora un’Europa; e a Trieste; quando la mia – malgrado tutto, oggi come ieri, ieri come oggi italianissima – cittadina, era nella fase ascensionale. Poi doveva venire Adolfo Hitler a “mettere ordine”.

Umberto Saba

Da: Umberto Saba, “Ricordi. Racconti”, Mondadori, 1956

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