“Amsterdam” è davvero brutto? L’arte non deve sempre parlare a tutti
Cinema
Enrico Picone
L’ufficiale e la spia è un film che ti mette nel mezzo, stai per tutto il tempo al centro della sala, sballottato tra chi sembra cattivo e invece è buono, e chi sembra buono e invece è rivoltante. Ma non solo. Roman Polanski in questo film ci fa rendere conto che i confini tra bene e male non sono poi così netti, che la redenzione al bene non è una strada così semplice, che stare nella zona di transizione ti permette di fare un passo a destra ma pure uno a sinistra. Durante la visione di questo film vi troverete a chiedervi da che parte sareste stati, e non mentitevi, perché il bene è difficile da vivere, figuriamoci da dimostrare, come nell’affare Dreyfus.
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La vicenda storica è interessante di suo, soggetto di facile narrazione perché gli eventi sono intriganti per natura: un ufficiale di artiglieria ebreo viene accusato di aver passato segreti militari allo stato tedesco. Viene umiliato pubblicamente davanti ai colleghi e a tutti, con la rimozione dalla divisa di tutti i simboli.
Quando si vuole esporre qualcuno si fa sempre una cosa, si usa un simbolo. O glielo si attacca, o glielo si toglie. E il film inizia così. Un uomo che viene spogliato dei suoi simboli, e del diritto di essere uomo. Infatti viene mandato non in carcere, durissimo di per sé, ma in un’isola, e già è peggio, l’isola del diavolo, ancora peggio. Totale isolamento. Ciò che ci distingue dalle bestie è l’uso della lingua, della parola. Quando privi un uomo della parola, lo privi della sua identità, lo fai esistere nel corpo. L’uomo si divora nella testa, da solo, da dentro. Poi il colonnello Picquart, uomo decisivo nella condanna, viene messo a capo dei servizi segreti. E qui la folgorazione: scopre l’innocenza dell’ebreo. Ma non basta essere folgorati per annullare il dolore, non basta sapere per ritornare al bene. Ecco quindi che i piani si ribaltano, che Polanski mischia le carte, e mentre stai in sala che ascolti i dialoghi – bellissimi – ti ritrovi un po’ da tutte le parti. Capisci l’ebreo accusato ingiustamente, capisci pure il colonnello, capisci anche però i colleghi marci.
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Insomma questo film attraversa una vicenda storica di snodo, ti mette in mezzo e non sai più chi accusare. Si accusa sé stessi.
Un film questo che chiarisce l’importanza della parola incontro. Quando nella vita si incontra qualcuno le proprie vite si toccano, impattano a volte, in qualche modo comunque ne usciamo modificati, cambiati, rovinati. Gli incontri, quando si possono definire tali, non ti sfiorano. L’altro si prende qualcosa di te che non ti restituirà, e tu prenderai qualcosa a tua volta. Ci si scambia la carne. Non esisterebbe Dreyfus senza Picquart, e viceversa. Due uomini che si sono solo incontrati, che da questo hanno fatto nascere l’impatto che ha ribaltato le loro vite, il loro giudizio e pure un governo. Polaski ci fa riflettere quanto lo scarto di un incontro possa essere decisivo. I due uomini non si parlarono mai durante quegli anni di processo, resisteva nei bulbi oculari una volontà, quella di dimostrarlo, il bene.
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Polanski ci mette davanti alla distanza siderale che c’è tra il desiderare e il volere. Tutti possiamo desiderare la verità, volerla è ben altra cosa. Per volerla c’è chi ha ribaltato un intero asse di governo, chi ha ribaltato sé stesso. Picquart non ha desiderato, ha voluto. A Dreyfus è stata tolta la volontà dallo stesso uomo che gliel’ha restituita. Le parole qui servono a poco. Le parole le ha messe Zola, che nel film dice che userà le uniche cose che porta, le parole, come dono, che racconterà lui questa storia. J’accuse…!
Clery Celeste