10 Settembre 2018

“Tutto lo scibile umano si è trasformato nella grande arte di eludere la pericolosa esperienza terrena”: i pensieri lividi e anticonformisti di Luca Orlandini

“Tutta l’acqua del mare non basterebbe a lavare una macchia di sangue intellettuale” (Isidore Ducasse)

Ogni risposta creativa ai nostri interrogativi sull’esistenza, cos’altro rappresenta, se non un modo per dire che il mondo, qua giù, non è una soluzione, e quell’arcano terrore per la materia che muta in atavica ostilità, in sofisticato esorcismo? La tendenza a svalutare la conoscenza dei sensi a vantaggio di quella intellettiva, l’educazione alla rinuncia e alla negazione della sete di vivere, si annidano nelle pieghe di ogni epoca. La saggezza consiste in questo. L’antichità esaltava i sensi, ma attraverso il sensismo degli epicurei, degli stoici e, a loro modo, anche quello conservatore, diurno degli scettici pagani. I lumi esaltavano l’empirismo, ma trascurando sempre i fattori irrazionali della vita; per lo stesso Hume, che amava Parigi, la Repubblica delle Lettere e i philosophes, le sallonnières e i protocolli della conversazione civile, un autentico pensiero si dispiegava nell’atto stesso della riflessione, nell’analisi dell’esperienza e nella facoltà d’osservazione in grado di produrre ‘comprensione’; chi ne era sprovvisto abbracciava le “false filosofie” e fuggiva la “tirannia del volto umano” per rinchiudersi in una desolata solitudine.

Abbassarsi alla saggezza, alla tortura dell’Intelligenza, all’incedere erudito, a un territorio spirituale in cui il mondo diventa per lo più un pretesto per le nostre riflessioni, in sé, è già un segno di rinuncia, e non affermazione della vita.

Who is afraid of dying, is never going to live, e chi ha paura del disordine, ha paura della vita. Il pensiero che origina dalla paura a sua volta genera una mancanza di rispetto per la vita stessa. Tutto lo scibile umano si è trasformato nella grande arte di eludere la pericolosa esperienza terrena. L’ordine pagano reputava un’assurdità amare ciò che è basso, inferiore e privo di nobiltà; disprezzò un ordine ben più ricco del cosmo che pretese di edificare, un ordine fondato sul disordine originario dei fenomeni del mondo, che fino ad allora aveva consentito di assimilare per analogia il reale, senza ucciderlo o disprezzarlo. Il kósmos greco, l’ordine inventato all’epoca di Socrate, inaugura una visione illuminista della realtà, una versione coerente, sterilizzata del caos, il claire et distinct che imperversa da venticinque secoli, la culla della nostra civiltà, che non desidera incontrare realmente l’ignoto, e affronta il mistero, il viaggio nell’ignoto, solo a patto di riportarlo al noto – l’obiettivo che si prefigge è quello di riportare l’ignoto al conosciuto. Primo comandamento… ridicolizzare il mistero, scongiurare le tenebre della rugosa realtà, quella fede nell’ignoto che viene respinta dai dotti quale volgare indeterminatezza del caos naturale, sterile e temibile vagare nella confusione o consolazione per gli indotti. Da epoche remote, stentiamo ad ammettere che, così come Shakespeare è “l’incontro di una rosa e di una scure”, in noi l’inclinazione al chiostro convive inevitabilmente con l’animale, la gnosi con la biologia, con tutto ciò che esso implica di impuro o di inquietante.

Se, di fronte a ciò che di più implacabile, temibile e irrazionale presenta il reale, il potere stupefacente della natura umana, per contraccolpo, è stato quello di trarre dalla paura, da un profondo senso di abbandono, dallo sgomento di fronte al “silenzio eterno degli spazi infiniti”, all’indifferenza della Natura, alla brutale innocenza di un divenire che esiste senza vedersi, incosciente di sé, una reazione che, proiettata oltre la semplice materia, approda ai miti fondatori delle nostre civiltà, alle creazioni fantastiche come senso del mondo e dell’universo, un contrappasso evolutivo, in seguito, inaugura un mutamento epocale. Vittime dei nostri vuoti di vitalità, perduta la nostra direzione naturale, il segreto della nostra natura, abbiamo infine vagato in cerca di una passione ‘superiore’, di un sublime che in realtà ha rappresentato uno zero vitale, e uno sprofondare in una progressiva diminuzione nella capacità di sostenere il reale. Il disincanto che ne conseguì portò con sé il delirio di grandezza dell’ironia fatta metodo, il pallido riso dianoetico, il farsi un punto di onore, dell’Uomo, nel dimostrare la mancanza di serietà della vita, di convertire il mondo stesso in niente e polverizzare i nostri istinti di creatura, i tormenti dell’individuazione. Pur segretamente sedotti da ciò che disprezziamo e temiamo, ci siamo cullati nell’illusione di poterci difendere dall’irrazionale sotto il segno del distacco, per vegetare in “una fascinazione esente da vertigine, in nessun modo aperta all’orrore o sull’estasi”, in un brivido dettato da un luogo dove non cresce più il reale e dove regna il favore di una ricchezza tutta spirituale, la sontuosa cattedrale di una debolezza, l’avventura umana di un delicato. Abbiamo smesso, insomma, di aderire al mondo. Abolizione immaginaria di opposizioni reali, vaneggiamento di cui farsi beffe? Una strategia di vita che assegna al pantheon della conoscenza, e al suo illusorio teatro dell’immortalità, il diritto di regnare sovrano. In questo consiste la pretesa autonomia dell’umano, nel rifiuto di ciò che troviamo là fuori.

Sprezzante principio distintivo tra inferiore e superiore, fuga da un disordine naturale per costruire un ordine artificiale, il verso “In principio era il Verbo” ha fatto della caduta, del pregiudizio verbale, un segno di elezione, rivendicando con orgoglio: “l’animale vive, semplicemente, solo l’uomo esiste”. Clamorosamente, il ragionevole sapiente che onora tale principio sostiene che la saggezza non è un residuo delle passioni spente, bensì “la forma più dura, più condensata dell’ardore, la particella aurea nata dal fuoco, e non dalla cenere… contrazione della vita mediante l’impegno della parola, fuoco della passione rivolto a un fine che la contraria”.

Siamo allo stesso tempo ammirati e storditi da tale avventura, da questo straordinario circolo vizioso e maestoso vicolo cieco. Se, infatti, inizialmente esploriamo in lungo e largo la Torre di Babele, per far nostre le illusioni dello spirito, del foro interiore e metabolizzare, fin nel sangue, la sua temibile corsa al distacco, alla lunga, dopo aver riaperto gli occhi, l’avventura muta, riconosciamo il suo male segreto e, costretti a immergerci in un pensiero negativo, a tornare sui nostri passi, infrangiamo ogni idolo contro natura, per scorgere la vanità e l’assurdo di tutto ciò che non è diretto. Si narra, infatti, che la ‘riflessione’ rappresenta uno stato contro natura, un peccato originale per mezzo del quale il male entra nel mondo, e l’uomo che riflette un animale degenerato, orfano della presenza immediata del mondo naturale, e la coscienza: “una perpetua messa in discussione della vita, e forse la rovina della vita”, un’ammissione d’inferiorità al cospetto della Creazione, di epoche in cui si era poeti senza essere ‘poeti’ e l’immaginazione faceva parte della vita senza essere ‘arte’. Estasi e orrore per il reale, il respiro dell’immagine, allora ancora coincidevano, e avere paura per qualcosa non era un buon motivo per mancargli di rispetto.

Luca Orlandini

Gruppo MAGOG