La prima volta fu nel 1917, e dobbiamo fidarci di lui, del poeta, che redige una autobiografia puntellata di specchi e di nebbie. “Eremburg mi fece grandi elogi della Cvetaeva, me ne mostrò i versi… La Cvetaeva mi lasciava indifferente. Il mio orecchio allora era guastato dalle stramberie e dalla distruzione di ogni cosa consueta che regnavano intorno. Ogni cosa detta in modo normale non arrivava a toccarmi”. Siamo nel 1956 quando Pasternak scrive Uomini e posizioni, ragionando, con granitico distacco, sulla sua vita. Il brano dedicato alla Cvetaeva, intriso di nostalgica colpa, è nel capitolo intitolato Tre ombre. Quando il poeta scrive, Marina è morta da quindici anni – Uomini e posizioni sarà pubblicato postumo, nel 1967, su “Novyj Mir”, perché “lo scandalo seguito alla pubblicazione del Dottor Zivago impedì al libro di vedere luce” (Serena Prina).
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La prima volta fu un incontro mancato – la seconda fu uno schianto. “Nella primavera del 1922, quando era ormai all’estero, comprai a Mosca un suo libricino, Verste. E fui conquistato subito dalla potenza lirica della forma cvetaeviana, una forma intimamente vissuta, non anemica, ma dotata di un vigore condensato e intenso”. Nel 1922, che paradosso, Pasternak incontra per la prima volta Anna Achmatova e sposa Evgenija – proprio allora, tra queste entità in forma d’amore e di sfinge, appare Marina. Nel 1922 Pasternak raggiunge la prima maturità poetica pubblicando Mia sorella la vita. “Le labbra erano gonfie/ dell’azzurro sorriso del deserto./ Nell’ora del riflusso decrebbe la notte”, dice una delle sue poesie indimenticabili.
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In ogni caso, è Pasternak a cercare Marina. “Scrissi alla Cvetaeva una lettera piena d’entusiasmo e di stupore per il fatto che l’avevo così a lungo trascurata e così tardivamente scoperta. Mi rispose. Iniziò tra noi un carteggio particolarmente fitto… diventammo amici”. Marina, come si sa, azzanna: “Siete il primo poeta che – in tutta la mia vita – vedo… su nessuno ho visto il marchio da ergastolano del poeta… voi siete il primo poeta della mia vita”, scrive, il 10 febbraio del 1923. Marina scopre, fin da subito, la natura elusiva e spettrale di Pasternak – “Pasternak, esistono i codici segreti. E Voi siete tutto cifrato”. Tra i due nasce il più turbato e inconcluso amore letterario della storia della letteratura del secolo.
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Tra Pasternak e la Cvetaeva s’installa, come un sacerdote della poesia in grado di celebrare le nozze liriche tra i due, Rainer Maria Rilke. Pasternak presenta le poesie della Cvetaeva a Rilke, che riconosce come solo maestro. “Rainer Maria Rilke fu ‘donato’ a Marina Cvetaeva, nella primavera del 1926, da Boris Pasternak, il poeta con cui la donna era in corrispondenza – in legame d’amore e ammirazione, di reciproco sostegno spirituale – fin dall’estate del 1922” (Serena Vitale). L’epistolario tra Marina e Rainer, di rara intensità, dura una manciata di mesi: Rilke muore alla fine di dicembre, nel 1926.
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Gran parte del carteggio tra Boris e Marina è smarrito, a causa – paradosso – dell’estrema protezione con cui tentò di tutelarlo “un’impiegata del museo Skrjabin, grande ammiratrice della Cvetaeva e grande amica mia”. La borsa con le lettere che la pia impiegata portava con sé fu dimenticata “in uno stato di estrema stanchezza… nel vagone del treno” che la conduceva a casa, smarrito, poi, nelle viscere della Seconda guerra. Marina era già morta, suicida, il 31 agosto del 1941, dopo essere tornata malauguratamente in Russia. “I familiari della Cvetaeva insistevano perché lei tornasse in Russia… La Cvetaeva mi domandava che cosa ne pensassi. Non avevo un’opinione precisa in proposito. Non sapevo cosa consigliarle, temevo troppo che la vita, da noi, per lei e la sua splendida famiglia sarebbe stata difficile e piena di preoccupazioni. La tragedia comune di questa famiglia superò infinitamente i miei timori”, scrive Pasternak, nell’ostinazione della colpa.
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Le lettere superstiti di Marina a Boris sono magnifiche. Vanno sottolineate e inghiottite, frase per frase. Eccone alcune:
“Non amo gli incontri nella vita: si sbatte la fronte. Due muri”.
“Si può stare senza gli altri, senza nessuno. Un po’ come nell’altro mondo”.
“Dio vi aveva concepito come quercia e poi vi ha fatto uomo e su di Voi cadono tutti i fulmini… Perché ogni Vostra poesia suona come l’ultima?”.
“Io sono assente dalla mia vita, non sono a casa… Tu sei il mio fratello delle vette, tutto il resto, nella mia vita, è pianura… Boris Pasternak è una cosa certa come il Monte Bianco”.
“Tu e io viviamo fuori della vita, siamo fuori – di noi. Noi potremo soltanto incontrarci. Tu sei l’attimo stesso dello scoppio, quando la miccia è ancora accesa, e si potrebbe ancora fermarla, ma non la si ferma”.
“Boris, ti scrivo lettere sbagliate. Quelle autentiche non sfiorano neanche la carta”.
“Incontrandoti, io incontrerei me – con gli artigli sfoderati contro me stessa… Io non capisco la carne come tale, non le riconosco alcun diritto… Tu sai di cosa io ho voglia – quando voglio. Di oscuramento, rischiaramento, trasfigurazione. Dell’estremo promontorio dell’anima altrui – e della mia. Delle parole che non sentirai, non dirai mai. Dell’inaudito. Del mostruoso. Del prodigio”.
“Sono stanca di lacerarmi, di farmi a pezzi come Osiride. Ogni raccolta di poesie è un libro di addii e di lacerazioni, con il dito di san Tommaso che si infila tra una poesia e l’altra. Chi di noi ha mai messo il punto finale dopo una poesia senza un’angosciosa stretta al cuore?”.
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L’incontro a Parigi, nel 1935, tra Marina e Boris, sancisce, dopo tredici anni di lettere, l’ideogramma della separazione. “Nell’estate del 1935, quando ero come un’anima in pena e mi trovavo al limite della malattia mentale per un’insonnia che durava da quasi un anno, mi ritrovai a Parigi per partecipare al Congresso antifascista. Là conobbi il figlio, la figlia e il marito della Cvetaeva e provai un amore fraterno per quest’uomo forte, pieno di finezza e di fascino”. Non potendo avere lei – di cui già ha avuto l’anima – Pasternak finge d’interessarsi a lui.
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Tutto accade d’estate, in agosto, nell’episodio del sole: le prime lettere, il primo incontro, la morte di Marina.
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Nel 1935, l’ultima lettera che possediamo di Marina a Boris. “Rilke è morto senza chiamare a sé né la moglie, né la figlia, né la madre. E tutte loro gli volevano bene. Perché si preoccupava della propria anima. Quando morirò, io non avrò tempo di pensare all’anima (a me), perché avrò mille preoccupazioni”. Pasternak le aveva scritto, “Cara Marina! Sono ancora vivo, voglio – e devo – vivere”. Marina andrà in Russia per morire. In Russia i due si incrociano: Marina versa in condizioni sempre più disperate, Boris è tra i rari ad aiutarla. Nell’agosto del 1940 – ancora agosto – Boris consegna una lettera di Marina all’Unione degli scrittori. Aggiunge frasi di suo pugno. “La conosco come persona intelligente, in grado di sopportare molto, e non riesco ad ammettere l’idea che si accinga a qualcosa di estremo e irreparabile. E tuttavia questa esasperata aria di mistero non mi piace e non può portare a nulla di buono”. L’anno dopo, esattamente, Marina si uccide.
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“Nella vita e nell’arte si lanciava in modo impetuoso, avido e quasi rapace verso ciò che è definitivo e determinato e per raggiungerlo si spinse lontano e superò ogni altro… Penso che la più grande delle rivalutazioni e il più grande dei riconoscimenti attendano la Cvetaeva”, scrive Boris. “Eravamo amici”, ripete. Come a velare l’amare. (d.b.)