04 Marzo 2020

“Sono io la morte e porto corona, io son di tutti voi signora e padrona”. Danza macabra sul corpo tumefatto del nuovo millennio

Benché trascorrano gli anni e con loro il tempo si muti in secoli, l’uomo in fondo resta sempre lo stesso, con i suoi pensieri e soprattutto con le sue paure che, come ombre silenziose al suo fianco, invisibili ma presenti, non lo lasciano mai solo.

Così nei primi decenni del Terzo Millennio, per le strade d’Italia negli ultimi giorni d’un carnevale ormai perenne, si ritorna al panico da tregenda di cinquecento e oltre anni fa, ma in una società secolarizzata, dove Dio è stato allontanato e la Chiesa non è più il perno del mondo, subentra presto la disperazione e la sensazione dell’abbandono. La scienza, il nuovo credo illuminista, non fornisce risposte soddisfacenti e il pensiero magico si è ritirato, se non per pochi mistici.

“Il Trionfo della Morte” di Pieter Bruegel il Vecchio, 1562

Ecco allora che ci tornano in aiuto i “miti” ancestrali di un altro tempo, di un mondo nel quale la Morte – intesa proprio come entità reale – era parte integrante della vita umana. Temuta, a volte odiata, respinta ma necessaria. «Unica è la morte, madre del dolore» canta una filastrocca bretone e aggiunge «niente oltre, niente di più». La morte è fatta di innumerevoli aspetti, visto che compare in ogni attività umana, ma oggi quello che ci interessa, durante l’influenza del “coronavirus” è quello della Pestilenza, in terrore di una pandemia.

*

Già lo hanno dipinto nei molti “Trionfi”, artisti illustri e magnifici come Pieter Brughel il Vecchio, nel suo Il Trionfo della Morte del 1562 circa, conservato nel Museo del Prado di Madrid, dove la Nera Signora, a cavallo dell’apocalittico e scheletrico destriero, conduce dietro di sè non solo guerra e distruzione, impietosa disfatta di un’umanità avida e incurante, ma anche la piaga della malattia sterminatrice. Lo stesso tema, affrescato nel Quattrocento, campeggia oggi a palazzo Sclafani, nella galleria regionale di Palazzo Abbatellis, a Palermo. Il morbo esiziale infuria e segna in esso la fine del Tempo, così come il frammento di un altro affresco coevo, rimasto su una parete interna dell’Abbazia di Chaise-Dieu in Alvernia, illustra una Danza Macabra sull’epidemia che percuote l’Europa con flagello aculeato e venefico. Un’altra Danse Macabre è a San Vigilio così chiosata:

Io sonte la Morte
che porto corona
sonte signora
de ognia persona…

e poi a Pinzolo nell’Oratorio dei Disciplini di Clusone, accompagnata questa volta da un testo in versi:

Gionto per nome chiamata Morte ferischo a chi tocharà la sorte;
non è homo così forte
che da mì non po’ schapare (…)
Gionto la Morte piena de equalenza
solo voi voglio e vostra richeza
e digna sono da portar corona.

*

La Morte, lo Scheletro vivente, ossimoro dipinto dell’Ultimo Angelo creato, è qui al centro dell’intera scena, indossante mantello e corona «perché signorezi ognia persona», e dunque ai suoi piedi giacciono prostrati capitani e re, ricchi e poveri, borghesi e nobili; persino il Papa e l’Imperatore stesso non possono fuggirla, mentre il suo personale esercito di scheletri scocca le proprie frecce contro l’umanità o la prende di mira sotto la canna di ferro d’un archibugio.  Vanamente chi può tenta di supplicare la Nera Signora, o di corromperla in qualsiasi modo pur di essere salvato. Inutile perché la Morte non conosce pietà e ha gli occhi asciutti benché senza numero.

Il tema della vanità della Morte, alla quale è inutile cercare di fuggire, come tentò di fare il soldato che fuggì a cavallo da Bagdad a Samarcanda, ritorna nel Ballo in fa diesis minore, ricreato anni fa da Angelo Branduardi che canta:

Sono io la morte e porto corona,
io son di tutti voi signora e padrona
e davanti alla mia falce il capo tu dovrai chinare
e dell’oscura morte al passo andare.

Sono io la morte e porto corona,
io son di tutti voi signora e padrona
e così sono crudele, così forte sono e dura
che non mi fermeranno le tue mura.

*

Il Trionfo della Morte a Palazzo Abatellis, Palermo

Tutto ritorna dunque, perché la Morte, la malattia e il dolore sono ancora parte della nostra esistenza terrena, oggi come cinquecento anni fa quando Giorgio Vasari scriveva queste parole a proposito di un carro raffigurante il Trionfo della Morte nel carnevale di Firenze del 1511: «Fra questi (Trionfi), che assai furono et ingegnosi mi piace toccare brevemente d’uno, che fu principale invenzione di Piero già maturo di anni, e non come molti piacevole per la sua vaghezza, ma per il contrario per una strana et orribile et inaspettata invenzione (…): questo fu il carro della morte da lui segretissimamente lavorato alla sala del papa, che mai se ne potette spiare cosa alcuna ma fu veduto e saputo in un medesimo punto. Era il trionfo un carro grandissimo tirato da bufoli tutto nero e dipinto di ossa di morti, e di croci bianche, e sopra il carro era una morte grandissima in cima con la falce in mano, et aveva in giro al carro molti sepolcri col coperchio, et in tutti que’ luoghi che il trionfo si fermava a cantare s’aprivano et uscivano alcuni vestiti di tela nera, sopra la quale erano dipinte tutte le ossature di morto nelle braccia, petto, rene e gambe, che il bianco sopra quel nero, et aparendo di lontano alcune di quelle torcie con maschere che pigliavano col teschio di morto il dinanzi e ’l dirieto e parimente la gola, oltra al parere cosa naturalissima era orribile e spaventosa a vedere. E questi morti al suono di certe trombe sorde, e con suon roco e morto, uscivano mezzi di que’ sepolcri, e sedendovi sopra cantavano in musica piena di malenconia quella oggi nobilissima canzone:

…Morti siam come vedete,
così morti vedrem voi. F
ummo già come voi siete,
vo’ sarete come noi…»

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Il che non può che rimandare a quel capolavoro teatrale, e dopo cinematografico, di crepuscolare sogno d’un’età fantastica, d’un Rinascimento corrusco e cruento, violento e sensuale qual è quello de La Cena delle Beffe di Sem Benelli, nel quale ricordiamo il crudele Neri Chiaramantesi, armato di roncola medicea, prima di uscire brandendola e gridando «passa la Morte!», brinda levando la coppa con l’esortazione «Chi non beve con me, peste lo golga!».

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Bere, gioire, divertirsi dunque, perché del “Doman non c’è certezza» come canta il Magnifico Lorenzo nel suo Il trionfo di Bacco e Arianna, durante il Carnevale fiorentino, momento di caos  follia voluta, licenzioso quasi come quello romano o quello veneziano. Carnevale di godimenti, amori e dunque di piaceri della carne, che poi  però lascia il proprio posto alla più amara Quaresima, tempo di penitenza e di cenere.

I nostri adesso sono i giorni della Quaresima, dei drappi violacei che inducono al ritiro e alla riflessione in attesa che la vita ritorni, con la Resurrezione, il Calendimaggio e la Primavera. E vada via ogni pestilenza e morbo, si richida infine il Settimo Sigillo.

La Quaresima, quaranta giorni, quarantena e dopo saranno le quarant’ore di preghiera, dovrebbe indurci a “levare la carne”, “carnem levare”, via dunque il Carnevale, dopo il Martedì grasso, ma nelle nostre città si corre ad accapparrarsi scorte di viveri, per asserragliarsi dietro le mura della propria abitazione, illusi di vivere una non vita, essendo già defunti.

E fuori, mentre passa al ritmo cadenzato d’un violino fatto di tibie e femori, la Morte invisibile ride dall’umana vanità.

Dalmazio Frau

*In copertina: il Trionfo della Morte di Giacomo Borlone de Buschis, all’Oratorio dei Disciplinati di Clusone, 1484-1485

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