09 Agosto 2019

Lasciate stare i necrologi sciropposi. Vi dico io chi era davvero Toni Morrison: autorevole, sprezzante, superiore, una dea furiosa, una strega razzista della letteratura altrui

Tu, lettore, sei mio rivale, sei mio nemico e io ti odio, non ti posso soffrire e per questo ti sfido. Lettore, tu sei mio. Ti ridurrò mio schiavo, di te non avrò pietà, e perché dovrei averne? Non mi fermerò, non ne avrò abbastanza finché non stramazzerai sfinito, esangue, e quel rosso, quel sangue scorrerà dai tuoi occhi, uccisi dal leggermi. Non ci riuscirai, a lasciarmi, a stancarti di me. Le mie pagine faranno il loro dovere a tal punto che tu, lettore, non vedrai l’ora che ne scriva altre. Io però mi farò aspettare. Anni. Un tempo lunghissimo. Deciderò io. A te, lettore, non resterà che dannarti nell’attesa. E desiderarmi.

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Signori, questa era la vera Toni Morrison, questa la sua verità di scrittrice, questa la sua ambizione. Toni Morrison era una dea furiosa, una strega con il potere di incatenarti in una schiavitù di lettura deliberata, premeditata. Ogni suo libro è un agguato, una presa alla gola, lo leggi e non respiri, e tensioni opprimenti ti salgono sulla schiena, ti pesano, e non te ne liberi. I libri della Morrison sono pericolosi e scritti per essere tali: materiale che ti rovina la mente, ti toglie ogni etica possibile. Ti ritrovi a vivere, amare, tifare per personaggi “immuni alla pietà”, abominevoli. Come abominevole era per Morrison la società, ogni società, che non nasce innocente bensì già marcia e corrotta, e migliorarla è una perdita di tempo per fessi. Toni Morrison scriveva sempre al mattino presto, avendo già stampate in mente l’incipit e la fine di ogni sua creazione. I personaggi, la trama, il suo sviluppo, per lei venivano dopo, di assoluta importanza era il linguaggio e allora ti do questo consiglio spassionato: se sei uno scrittore in erba, se vuoi scrivere, lascia perdere Toni Morrison. Perché ogni tuo ardore si ridurrà in cenere davanti a tali altezze narrative. Toni Morrison non sopportava la sua lingua, non le bastava, era così stufa e razzista della letteratura altrui che lei, la sua, se l’è inventata: dalle fondamenta. Quella della Morrison è letteratura ‘altra’ perché costruita e impastata di un lessico, di un ritmo che sono nati con la Morrison e sono morti con lei. Toni Morrison non creava solo storie: creava le parole, ne scriveva la voce, e quella narrante in Jazz, è suono che pagina dopo pagina si paralizza. Tradurlo è fatica, impresa ingrata. I suoi libri tradotti, Morrison li detestava: “Sono cose criminali, delitti veri e propri”.

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E poi, Toni Morrison non esiste. È un personaggio come quelli di cui riempiva pagine. C’era Chloe Anthony Wofford e qui, butta al cesso i necrologi sciropposi che hai letto in questi giorni. Chloe era un’arpia, una femmina feroce, una che era meglio non averci a che fare. Intervistarla, poi! Guai a farle complimenti, guai a rimarcarle la sua anima nera: non le andava bene niente, lei sola poteva lanciarsi in disamine attente, lucide, sulla realtà nera, sulla società americana, i suoi difetti. Tu no. Lei poteva sferzare e maledire il razzismo, di ogni tipo, compreso quello dei neri sui neri. Tu no. Tu, potevi, al massimo, ascoltarla. Se non prono ai suoi piedi, quasi. Toni Morrison era autorevole e autoritaria. Sprezzante e superiore. Imperturbabile. E Amatissima dai suoi lettori, lei che libro su libro se li divorava come una Medea, assassina dei suoi figli come la sua Sethe, che dà vita e si dà vita nella morte, e dimmi se non tremi alle parole, alla supplica de Il dono, quell’invocazione che diventa il suo contrario nel finale.

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Toni Morrison era figlia di un operaio che aveva visto i linciaggi al Sud e che mai faceva entrare un bianco in casa sua. La piccola Chloe a 3 anni già sapeva leggere e scrivere, ha servito i bianchi per mantenersi arrivando a laurearsi in filologia inglese con una tesi in cui William Faulkner soccombe a Virginia Woolf. Per anni Chloe insegna, fa l’editor, scrive. Di nascosto, tutte le mattine, a matita su un bloc notes giallo, dalle 4 alle 7 prima di andare al lavoro. Si sposa e il marito la molla con due figli piccoli. Li cresce da sola. A 39 anni, da quei suoi fogli segreti, sottrae e ribatte a macchina L’occhio più azzurro. È il 1970, e questo è il libro di una nera che fa a pezzi il politicamente corretto del ‘black is beautiful’, il risveglio di una identità afroamericana in lotta per i suoi diritti. L’occhio più azzurro è il sogno di una bambina nera che si odia perché nera e che odia Dio, quel Dio che non la fa diventare una Shirley Temple. L’occhio più azzurro è disprezzato dai neri, ed è il libro che apre a Morrison le porte della gloria. Prova a leggerne l’inizio: senza punteggiatura, senza spaziatura, ti ritrovi a rincorrere parole che si compattano in una macchia d’inchiostro illeggibile che non ti aspetti ma che Morrison ha messo lì per fregarti. Te l’ho detto: decide lei, tu lettore sei, quando non il suo schiavo, il suo zimbello.

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Diceva James Baldwin: “Di Toni Morrison è difficile parlare. Leggerla dà dolore”. È così. I suoi libri te ne danno tanto, te ne risvegliano altrettanto. Non ne esci. Il passato è presente, e tu devi stare lì, e guardarlo in faccia. Toni Morrison è scrittrice di autorità totale del testo sul lettore, il quale non ha scampo, deve vedere, ricordare, far suo ciò che gli viene proposto anche suo malgrado. In Toni Morrison la scrittura è atto di memoria. Il resto è il tempo. Certe cose passano, se ne vanno, e andandosene rimangono. No, non muore mai niente.

Io per quel Sst con cui inizia Jazz, per questo gesto scritto che però in scrittura non è producibile, e per quelle frasi successive, corte, spezzate, che però contengono tutto il libro. Giuro, io ‘solo’ per questo Toni Morrison l’avrei strozzata. Sul serio. L’invidia porta a conoscerti.

Barbara Costa

Gruppo MAGOG