03 Marzo 2021

"Ho anche registrato a caso quattro ore notturne di rete A, ma non ho ancora avuto il tempo di visionare il nastro". Finalmente un libro su Labranca, esegeta del caos e del trash

Tommaso Labranca (1962-2016) visse per tutta la vita a Pantigliate, un angolo marginale – ma non emarginato – della periferia a sud-est di Milano. Pantigliate fu per lui ciò che Königsberg fu per Kant: un luogo di prossimità e distanza dalla civiltà, un rifugio, un osservatorio. Seppure obbligato a qualche spostamento in più, anche Labranca non si trasferì mai. Del resto, che bisogno c’era di girare il mondo? Quei due uomini, chiusi nell’ossessione di capire, avevano letteralmente sottomano ciò che cercavano: il mondo, e i suoi abitanti, compendiati e campionati nei loro libri, nei loro oggetti, nelle loro immagini.

Claudio Giunta se li è meritati, l’onore e il piacere di scrivere Le alternative non esistono – La vita e le opere di Tommaso Labranca. Grazie agli sforzi di Giunta – suo riconoscente ammiratore e divulgatore – è probabile che Labranca non sarà più soltanto ricordato come uno scrittore cult degli anni ’90, osannato e un po’ frainteso, finito ingiustamente nel novero dei “cannibali”, tripudiato dal alcuni come “teorico del trash”, derubricato da altri come “lo specialista della merda”. No: grazie a Giunta, è probabile che Labranca verrà ricordato, a ragione, come un intellettuale. Del resto, proprio “Intellettuale milanese” sta scritto sulla targhetta del ciliegio piantato in suo onore all’Idroscalo, postremo riconoscimento dei suoi amici più cari.

Che ci fosse il bisogno di scrivere un libro come questo, era chiaro: Labranca era stato dimenticato. Eppure, il suo modo di scrivere, gli era sopravvissuto. È lo stesso Giunta a fare i nomi: Guia Soncini, Enrico Dal Buono, Mattia Carzaniga, Michele Masneri, Andrea Minuz, Guido Vitiello. E naturalmente, aggiungiamo, Claudio Giunta. Tutti eredi, più o meno consapevoli, dello stile di Labranca.

Ma che cosa vuol dire essere eredi di Labranca? Scrivere intelligentemente di pop, come faceva lui, vuol dire sapere fare molte cose: liberarsi dei comodi panni del nerd o del censore; superare le trappole tese dalla retorica dell’agiografia o della condanna; ripudiare l’esercizio di stile e la blandizia, riscrivendo, con una punteggiatura diversa, il già letto, il già sentito, il già visto.

Tutte caratteristiche, queste, confluite in Andy Warhol era un coatto che, come scrive Giunta, è l’esempio di come combinare la conoscenza di un argomento e la capacità di astrazione. Per scrivere intelligentemente di pop – cominciamo col truismo – serve intelligenza. Ma serve anche studio, lavoro sodo, rigorosa acribia nell’osservazione. Insomma, serve un’attitudine ben più da scienziato che da giocoliere delle parole. L’ultima somiglianza tra Labranca e Kant – mettendo da parte il paragone – era proprio questa: un’indefessa dedizione alla materia.

Recuperando una preziosissima nota di un diario, Giunta svolge e commenta in modo adamantino il metodo Labranca. La nota è questa:

Ho persino comperato una radio, così da aggiornarmi sugli ultimi spot pubblicitari. (…) Ho anche registrato a caso quattro ore notturne di rete A, ma non ho ancora avuto il tempo di visionare il nastro.

Scrive Giunta:

Registrare Rete A di notte. Serviva questo. Non Gramsci, non Eco, non Debord. Registrare Rete A di notte: ecco – per usare una di quelle formule da professore di cui lui avrebbe riso – l’opzione di metodo che ispirerà alcune delle pagine più intelligenti che nei vent’anni successivi verranno scritte sui media, sul pop e sul popolo.

Volgiamo dirlo come Labranca non l’avrebbe mai detto? Iuxta propria principia (copyright Gianluigi Simonetti).

Il libro di Giunta è un formidabile compendio della vita e delle opere di Labranca e tra i suoi pregi ha quello di sottolinea bene fin dal titolo, anzi, dal sottotitolo (Le alternative non esistono) l’intransigenza testarda ma produttiva, frustrante e geniale di Labranca. Nei confronti del suo lavoro di critico della cultura, in particolare, Labranca sembra incarnare quasi un’etica calvinista. Arrischiandosi più di quanto faccia Giunta, si potrebbe dire che Labranca, nei confronti della religione della cultura, assunse un atteggiamento da riformato: in barba ai riti e alle liturgie, era interessato a un contatto diretto con la sua materia. Di qui, lo svelamento di una cultura ipocrita, acquistata a credito, piuttosto che guadagnata:

Se è già ridicolo pensare di mondarsi dei propri peccati passando sotto una porta, risulta irresistibile vedere dei perfetti ignoranti che credono di acquisire uno stato intellettuale per osmosi, con una semplice passeggiata in una città d’arte, sospirando davanti a palazzi e seminari. Non serve studiare, leggere, comparare, farsi una propria opinione: basta varcare il portone di un museo per godere di indulgenze culturali plenarie e istantanee.

Dai primi anni Duemila, infatti, la scrittura di Labranca assume dei toni più esplicitamente moralistici e sociologici: “Dal pop al popolo”, come scrive Giunta. Dall’analisi della mistificazione culturale – il cui punto più ardito, editorialmente, è Chaltron Hescon, pubblicato da Einaudi e oggi rarissimo da trovare – si arriva alla denuncia del classismo dei meccanismi del capitale simbolico. Cosa separa il suo discorso dal populismo e, forse, dal successo editoriale? Il profondo biasimo per un popolo che si lascia irretire dal fascino dei beni posizionali, tra i quali giganteggia anche la cultura: dei “Neoproletari” (Neoproletariato è il titolo di un suo libro) di modeste condizioni economiche, ma dalle aspirazioni consumistiche snob. Un popolo che ha aristocratizzato i propri consumi proletarizzando il conto in banca.

Ora, il fenomeno della lotta per la conquista del capitale simbolico è una delle costanti nelle analisi della società di massa. Come Giunta fa notare, insomma, sfoderarla non era una novità e, solo per fare un esempio, cita un passo di Sciascia dalle Parrocchie di Regalpetra. Ma se ne potrebbero fare altri. Sulla Treccani, compare questo gustoso passo di Eduardo de Filippo, tratto dalla commedia Filosoficamente:

Vi giuro che certe volte invidio ‘o scupatore, ‘o mondezzaio… perché non hanno esigenze. Chello che se guadagnano s”o mangiano e nun hann”a pens’a niente cchiù. Dormono in una topaia qualunque ed ecco risolto il problema! ‘0 guaio chi ‘o passa? L’impiegato! Deve vestire decente, non voglia maie ‘o cielo se presenta cu’ ‘e scarpe rotte… Si tene figlie, l’ha dda fa’ cumpari’, naturalmente quel poco che guadagna serve per mantenere come meglio può le apparenze… e ‘a panza soffre.

In tutto ciò, il grande merito di Labranca, che mette soprattutto a fuoco il ruolo della cultura, è quello di inframmezzare l’analisi con esempi sapidi e concreti, frutto della sua straordinaria capacità di osservazione. E il coraggio – lo stesso avuto in Chaltron Hescon – di fare nomi e cognomi.

Col passare del tempo, complice l’allontanarsi delle speranze di successo, la sua genialità, però, coabita sempre più spesso con il risentimento. I suoi ritratti, spesso, sarebbero perfetti se all’ironia non subentrasse l’acidità. Prendiamone due, presi da libri diversi – Astrakhan, la zia e l’estetica perbenista e Vraghinaroda. Viaggio allucinante fra creatori, mediatori e fruitori dell’arte – entrambi dedicati agli aspiranti artisti del nuovo millennio. Nel brano che segue, Labranca ironizza il tentativo, a suo giudizio patetico, di una schiera di aspiranti artisti o semplici modaioli – che nel libro chiama “alieni”: i tipici frequentatori, dice, del Fuorisalone – di rompere col tradizionale modello di eleganza borghese, incarnato dal personaggio archetipico della “vecchia Zia, vedova Tirlaghi”. Alle buone cose di pessimo gusto della Zia, Labranca contrappone i prodotti di scarto di una generazione malamente iperintellettualizzata. Ecco il brano:

Una vecchia scatola di latta alla quale sono stati graffiati via i disegni originali e su cui è stata sovrapposta una gondola in plastica con carillon viene proposta come antiscatola nella quale la designer aliena invita a non conservare niente, modificando così radicalmente il concetto borghese di ricordo e sbeffeggiando nel contempo quello di souvenir in un gioco linguistico destrutturante che… qui nella Zia subentra già la noia.

In questo brano, che segue la descrizione di un colloquio tra due studentesse dell’Accademia di Brera – le quali, tra l’altro, ignorano chi sia Alberto Burri, misterioso nome comparso in un questionario a crocette –, Labranca ritrae con toni grotteschi la parabola fallimentare di una controcultura molto conformista, la stessa, per capirsi, che crede che Banksy disegnato su un muro sia una cosa punk e non un arredo urbano. Dietro le loro pose, suggerisce Labranca, c’è soltanto una malcelate ambizioni di successo individuale. Ecco il brano:

Sono convinto che una di loro si è poi trasferita a Berlino dove, nel lurido retrobottega di un kebabbaro spacciato per galleria d’avanguardia, ha esposto dei sacchi bruciati, un suo lavoro concettuale salutato come groundbreaking da un giovane abruzzese laureato in storia dell’arte presso un ateneo online e che ora, expatriato, fa il corrispondente da Berlino per Artekontro, trimestrale clandestino di arte ke resiste e kombatte.

Giunta rimprovera a Labranca, per così dire, l’eccesso di livore nei confronti di un gruppo sociale che ha già perso la sua battaglia, tradito dalle aspettative di riscatto promesse dalla cultura. Con ciò, citando brani simili e approfondendone le ragioni, ne riconosce il ruolo di salutare terapia d’urto. Del resto, Labranca è stato anche per Giunta (professore universitario) un salutare antidoto allo snobismo indotto dalla carriera accademica. Rompere l’incantamento prodotto dai miti d’oggi, infatti, ha un’azione trasversale: può tradursi in un’accettazione serena ancorché sorvegliata dell’esistente (accettare ciò che si è e ciò che non si può diventare); così come serve per recuperare quella concretezza che restituisce il giusto mordente sulla realtà.

È interessante notare, peraltro, come le considerazioni di Labranca siano state aggiornate, in tempi recenti, anche dal punto di vista teorico: penso alla Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura e al suo coté di sinistra, L’oppio del popolo di Goffredo Fofi. Quello che ci si può augurare è che Giunta prosegua nel suo lavoro sull’opera di Tommaso Labranca. In particolare, che raccolga in modo unitario molti dei suoi scritti sparsi. Si scoprirà che, nonostante la frammentarietà, regna una coerenza di fondo, nello stile e nella visione del mondo, che fa di Labranca non solo uno degli scrittori, ma anche uno dei pensatori italiani più interessanti degli ultimi trent’anni.

Federico Pani

Gruppo MAGOG