“Preferivo l’ostilità che qualcuno chiamava abiezione”. Storie dal Tempio. II Quadro
Letterature
Veronica Tomassini
Vera e Nathan sono soli al mondo, spogli, divisi, in un 1950 livido di tragedia. Lei è rifugiata a Tel Aviv, lui vaga per l’Europa, limpidamente ossessionato, in omaggio al tradimento, vendendo carte stellari di pregio. “Senza gestire l’ignoto” è un progetto letterario di Davide Brullo e di Veronica Tomassini. Sul blog della Tomassini potete leggere la lettera di Vera; qui la risposta di Nathan. Continueremo a fecondare l’ambiguo e l’astrale.
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Iasi, 14 marzo 1950
L’uomo è piccolo, giallo e con selvatica certezza sa che la poiana non fuggirà dalle sue mani – poi depone il rapace tra le gambe, il collo leggermente premuto dalle ginocchia, da cui sboccia il becco, come l’elsa di un’arma. La scena è strana: è come se l’uomo stesse imbottigliando la bestia, come se potesse distillarla in innumerevoli altre. La poiana non può muoversi e con una finezza femminile l’uomo, che ignora la codardia e il cinismo, estrae l’ago infilato nella giacca, il filo è sottile, di ferro. L’ago buca l’aria, appare e scompare come una lettera di fuoco, mentre l’uomo sigilla le palpebre della poiana, per sempre. Il rapace non si ribella – “tu pensi che così sia innocente?”, mi dice il tizio, mentre la bestia sbanda, sulle zampe ignare, nella stalla, con la stessa intraprendenza di un cucciolo d’uomo, fissata da altre poiane, nella vasta gabbia cilindrica, in mezzo all’aula. “Devono vedere cosa le accadrà, perché gli uomini sono stati creati da una menzogna, ma il resto del creato ha valore di verità”, dice, accennando agli uccelli, resi bellissimi dalla resa. Poi corre, afferra la poiana, esce dalla stalla e la pianura è sterminata tanto da accecarti, come una lastra di luce, e lancia la bestia nello stomaco dell’aria. La poiana vola, sterza, si alza – “scoprirà se ha un’anima, se è il frammento di una frase sgrammaticata”, dice. L’uomo ha i denti davanti spaccati, gli occhi blu, dice di essere stato un domenicano, poi ha capito che non puoi estrarre la trachea a Dio per farne un flauto o una cerbottana. “Ho cucito gli occhi dei cavalli”, mi dice, fiero. “Spaziano per la pianura con ritrovata eleganza – la cecità li esilia in una ferocia da dèi sconfitti – sembrano tigri, la carne li allieta”. Non ho accettato ospitalità in quell’allevamento dell’orrore – ma ho capito, Vera, che noi siamo così, poiane cieche, cavalli spaventati come tigri, uomini a cui hanno sigillato gli occhi, e che scoprono ere dentro di sé, una pianura che è linguaggio.
Di pomeriggio
Preferisco i luoghi di confine perché si sono uccisi a torme, perfezionando una idea deforme di intimità, di fede. A Iasi si sentono ancora le urla degli impalati di cinque secoli fa, dei santoni che piegavano l’anatema biblico in macchina da guerra. Lungo il canale del Bahlui, dove il muschio sembra la Prima lettera di San Paolo ai Corinzi, l’inutilità della lingua degli angeli, ho imbiancato le distanze. Proprio perché sei l’ultima ti ho scelta – ma il tuo linguaggio eroso nel ricatto, quella patetica paternale sui perduti che obbliga chi ti ascolta a censire un miracolo, meraviglia il mio esilio. Smettila di fare la supplice – lascia che sia io il tuo supplizio.
Qualche anno fa sono stato ospite di Henry de Montherlant, lo scrittore, a Parigi. Ha acquistato una carta celeste fabbricata in Mongolia, tessuta sulla pelle di un cavallo. Ne era affascinato perché i Mongoli raffigurano il cosmo come un labirinto concentrico, scintillante di stelle, al centro del quale, al posto del Minotauro, è assisa una tigre bianca, che chiamano Khan, il re. Dopo la morte, il compito dell’anima non è quello di eludere il labirinto né di conoscerne l’aritmia matematica, ma esaurirlo, affrontando la tigre bianca. L’anima che saprà dormire dentro il petto della tigre, dopo averlo squarciato, potrà patteggiare una pena favorevole per i propri parenti ancora in vita e plasmare per loro sogni arditi nella benevolenza. Di Montherlant ricordo la retorica, un censimento di rose e di coltelli, i capelli spettinati, la vestaglia, femminile, su cui era stampato uno sciacallo che vomitava sciami di stelle dalle narici, il corpo solido, ligneo. In sala, nudi, si aggiravano due ragazzini. “Non creda alla lussuria come a un elisir”, mi disse, “è un veleno – questa ventata di vigore mi uccide, un corpo nudo ha il nitore del fallimento”. Aveva 47 anni, chiudeva gli occhi, parlando.
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Iasi, 15 marzo 1950
In un certo dialetto rumeno ‘Iasi’ significa ‘crisi’ – sai che ti ho amata con l’indifferenza che si concede a ciò che può ucciderci – quando fanno l’amore, gli uomini sono un mostro a quattro gambe, due teste e una bocca dai denti moltiplicati, un ideogramma che soltanto il tradito è in grado di capire.
“Affila la tua crudeltà, devi esserne all’altezza” – e io le ho risposto, “non è il bene a essere crudele?”. Volto l’accusa a te: sai essere abbastanza crudele, sai abolirti nel bene? Dicono che nell’orda dei topi che gli rosicchiava le caviglie San Francesco scoprisse una esegesi evangelica. Ho passato il giorno in albergo a scrivere alle altre – per ora sono sei, un numero rotondo, solare. Alcuni uccelli sbattono contro le finestre della camera, si rialzano, volano, sbattono ancora, inferiori come mosche – forse si sta alterando la forza di gravità e tra poco le mie giunture lunari si squaglieranno. Una donna, poche ore fa, ha sfollato il piacere – dai suoi capelli ho cercato di trarre il futuro di questa città, di tramutare in fioritura la sua malattia. Sei donne, capisci? Se ne è andata con l’ambiguità di una poiana. A una ho scritto, “ho la disperazione dei privilegiati – che sono amati, ma cercano amore, ossessivamente, dove non c’è – per garantirsi un’aurea sintonia con il precipizio”.
Ho avuto notizie di tuo padre – penso di incontrarlo.
La perversa pigrizia di questo luogo, cementificato in uno spazio astorico, escluso, mi dissangua, dissuade da ogni atto – potrei morire nel sonno. Il cielo, di notte, mi sembra così conosciuto da sembrarmi troppo poco – altre volte le costellazioni si scombinano, come un corpo sfracellato e pieno di dadi, e tutto è troppo.
Ti ucciderai inghiottendo queste lettere – lo sai, vero?
Nathan