31 Agosto 2020

Sia lode a Thomas Hardy, lo scrittore con la “visione da falco”

Virginia Woolf lo adorava. “Quando diciamo che la morte di Thomas Hardy lascia la narrativa inglese senza un leader, intendiamo dire che non esiste nessun altro scrittore la cui supremazia verrebbe accettata da tutti, nessuno a cui sembri più appropriato e naturale porgere omaggio… mentre era in vita, esisteva un solo romanziere che, sotto tutti i punti di vista, facesse apparire l’arte della narrativa una vocazione onorevole”. Nato nel Dorset, nel 1840, Hardy era morto nella stessa contea, nei primi giorni del 1928. Il Nobel non lo accarezzò mai: fu nominato, tra il 1910 e il 1927, 25 volte – nel 1923 da Romain Rolland, Nobel nel 1915 – ma i suoi romanzi erano troppo oscuri, troppo sicure le sue poesie, gli preferirono sempre altri (George Bernard Shaw, ad esempio, meglio ‘spendibile’, come dire). Quanto a lui, in una vita dedita all’opera, si tolse lo sfizio, nel 1914, di sposare in seconde nozze Florence Emily Dugdale, donna di sicura bellezza, più giovane di Hardy di quarant’anni, che onorò lo scrittore con una biografia.

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Lo stupefacente e ambiguo scrittore d’Albione ebbe la sfortuna di trovarsi con un piede sulla sponda destra del fiume e con l’altro su quella sinistra. Né vittoriano né modernista prese schiaffoni da entrambi. Troppo complesso, tenebroso e anticonformista per i primi, era tuttavia perlopiù un articolo sgangherato e da soffitta per i secondi. James Joyce gli cullò il volto e gli fece lo scalpo, rimproverandogli di combattere tra le fila della vecchia guarda, di essere “sensazionalista” e patetico. Per l’appunto, ebbe la sfortuna di vivere troppo a lungo, Hardy, che morì nel 1928, giusto in tempo per essere premiato e riconosciuto dai tromboni che lo spernacchiavano qualche decennio prima e sculacciato dalle giovani menti che mai e poi mai si sarebbero convinti che senza di lui, senza il grande Thomas non avrebbero scritto un bel nulla.

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«Tutto quello che possiamo fare – scrisse il già anziano genio a Robert Graves – è scrivere su temi tradizionali in stili tradizionali, cercando di farlo un po’ meglio di coloro che ci hanno preceduti». Dice una mezza bugia qui, Tommaso, pregna di quel malinconico pessimismo per cui è celebre. Di fatto fu una biglia infuocata che trapassò l’Ottocento, penetrando a mo’ di shuttle il secolo seguente. Perfezionò il romanzo, fu la ciliegina sulla torta cucinata da Dafoe e Fielding, Swift e Jane Austen, Charles Dickens e George Eliot. Solo dopo di lui potete dire “il romanzo è morto, viva il romanzo”, ed è lui, non meno di Henry James e di Joseph Conrad a spianare la strada a coloro che verranno, in particolare a William Faulkner, che lo fruga fin nelle viscere dimostrando nel caso specifico un’intelligenza più vivida del proprio maestro Giacomo Joyce. Forse non è un caso che L’urlo e il furore esca l’anno dopo la morte di Hardy. Quel romanzo così joyciano nella tecnica di superficie è in verità profondamente hardyano. Scrittura involuta e gonfia, tasso ironico ridotto a zero, centrali vicende tenebrose e drammatiche, cosmo vuoto di un Dio patente, soprattutto, tutto accade in forma d’ossessione in quei metri quadri lì, nella contea di Yoknapatawpha, che per Hardy è l’ancestrale Wessex, tra Oxford e Jefferson là e tra Christminster e e Marlott lì. Già, il fatto è che Faulkner arriva trent’anni dopo Hardy.

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Thomas Hardy aveva un paio di altri peccati che non deposero a suo favore. Odiava la città, e soprattutto i circoli letterari. Nato in un paesotto vicino a Dorchester, il nostro si gettò a Londra per compiere la carriera di architetto. Gli venne il cancro dello scrittore, che covava nel petto fin da poppante, ma scappò a gambe levate dalla City, dove ritornava soltanto per farsi grandi sgambate nelle biblioteche più ricche e fornite d’Inghilterra. Nel 1882 prepara i disegni della sua dimora, Max Gate, nel Dorset, che sarà meta di ammiratori e detrattori. Vi capitò Virginia Woolf, deponendo rose ai suoi piedi, l’unica tra i moderni a coronarlo il più grande. Se ne stava nel cortile di casa, imboccando una pipa, leggendo un libro sulla storia del suo paese, ogni tanto fissava il cielo e comparandolo con il destino degli uomini, Thomas Hardy, fregandosene dei club riservati ai letterati e di boiate simili. Dopo il successo di Far from the Madding Crowd (1874) si curò soltanto di scrivere sempre meglio, snobbando la dignità e il desiderio dei propri lettori. I parrucconi presero a smarrirsi nei suoi romanzi, tutto sommato tradizionali eppure sempre più letali, a colpi di lama.

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David H. Lawrence diceva che Hardy era un Tolstoj sofocleo, Wystan H. Auden adorava la sua «visione da falco», i contemporanei lo tradirono, misconoscendolo. I due ultimi romanzi, Tess of the d’Urberville (1891), la cui figura è resa memorabile dal volto di Nastassja Kinski nel film omonimo di Roman Polanski del 1979, e Jude the Obscure (1896), entrambi saldati da trincea di tenebra, coincisero con la fine dell’Hardy romanziere. La stampa accusò il genio di immoralità, e il vescovo di Wakefield si prese la briga d’improvvisare un teatrino alla fine del quale afferrò “Jude” per bruciarlo di fronte a una folla spiritata. Hardy, signore solitario e di dignità inscalfibile, che pensava soltanto a come mettere su carta i propri deliri, non comprese mai le ragioni dello scandalo proprio perché scandalizzare non rientrava nelle sue ambizioni. Per non fare altri danni abbandonò la scrittura in prosa. Avete udito bene, il più grande scrittore del suo tempo appese il romanzo al chiodo. Tornò alla primitiva passione, la poesia. Oggetto raro, Thomas Hardy fu uno dei pochissimi romanzieri a essere perfino un possente poeta (cosa per dire, che non accade in Faulkner, che esordì come poeta molto dandy e molto sfacciato). Chiedete a W.H. Auden o a Philip Larkin e alla generazione di poeti post-modernisti e capirete come costoro dipendano mani e piedi dai “Wessex Poems” del genio del Dorset.

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In Italia, fu Carlo Cassola il paladino di Hardy. “Thomas Hardy è uno scrittore esistenziale… il suo romanzo, Tess, può essere definito una ballata come Padrone e servitore di Tolstoj, può essere definito una parabola (come Il vecchio e il mare di Hemingway). Solo un grande scrittore può dar corpo a una ballata o a una parabola. Era il caso di Hardy e di Tolstoj. L’impresa non poteva riuscire a Hemingway”. Già, ma oggi chi legge Cassola, chi legge davvero Hardy? “Forse solo oggi che la crisi delle ideologie obbliga a un ripensamento, ad accettare la contraddittorietà della vita, l’arte di Hardy può essere compresa veramente in tutta la sua tragica e vitale profondità”, scriveva Giovanni Luciani, anni fa. Pie illusioni. Nel 1968 una antologia di Poesie di Hardy fu edita da Guanda, con prefazione di Eugenio Montale. (d.b.)

*In copertina: Nastassja Kinski è Tess nel film di Roman Polanski del 1979

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