21 Maggio 2020

Eliot il legislatore. Eliot l’elitario. Eliot il Difensore della Fede. Eliot il sostenitore dell’establishment. Eliot l’editore. Eliot il presuntuoso intellettuale. Ecco perché Eliot resta un enigma ed è il poeta più grande

Nel 1917, T. S. Eliot pubblicò, in una tiratura di cinquecento copie che rimasero invendute per i seguenti cinque anni, il suo primo libro di poesie, Prufrock and Other Observations. Come molte prime pubblicazioni di giovani poeti, Prufrock aveva un che di vita vissuta in strada e di volutamente esagerato.

Il libro in realtà non era un libro, ma un opuscolo, e la casa editrice in realtà non era una casa editrice, ma un periodico londinese, The Egoist. Ad oggi The Egoist è apprezzato come effimera e straordinaria incubatrice di modernismo letterario. Allora era uno tra gli organi tribali di una piccola, giovanile cricca “innovativa” di intellettuali e artisti, sicuri di dare vita a qualcosa di nuovo, ma (a eccezione di James Joyce) probabilmente incerti su cosa fosse esattamente e inconsapevoli di quanto sarebbe diventato significativo.

Animava la rivista anche il co-cospiratore e amico di Eliot, Ezra Pound… Persuase il periodico a dare alle stampe Prufrock e inoltre ne sovvenzionò la pubblicazione con il denaro che ebbe dalla moglie. L’amore di Pound per la letteratura che gli piaceva era talmente intenso che forse gli pareva di esserne egli stesso l’autore. Annunciò, vagamente criptico, che Eliot si era modernizzato da sé (Pound era un grande modernizzatore) e si era autonominato suo manager, il quale, con la sua consueta passività – che era anche accortezza; Pound lo soprannominò Possum –sembrò lasciar pensare a Ezra di essere una sua invenzione.

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Uno dei primi critici di Prufrock, come spesso accade per i primi libri, era un amico del poeta, Conrad Aiken (che divenne anch’egli un grande poeta). Il biografo di Eliot, Peter Ackroys afferma che Aiken conosceva le intenzioni di Eliot meglio di Pound. Aiken aveva incontrato Eliot al college, ma la lunga amicizia non sembra aver compromesso l’oggettività nella valutazione. Nella recensione, dichiara che l’autore di Prufrock è un “uomo peculiare e intricato”. Tale personalità peculiare e intricata esordì nella carriera letteraria in un contesto che lo avrebbe reso radicalmente più peculiare – sebbene non ancor più intricato (termine che implica un problema ancora in cerca di una soluzione e una perplessità che alla fine potrebbe essere risolta), ma piuttosto ancora più enigmatico (termine che implica qualcosa di attivo e vivo, un mistero di cui non si può strappare il cuore).

L’Eliot che si potrebbe definire intricato era quello degli anni intorno al 1914, l’autore delle poesie di Prufrock, scritte prima della guerra e popolate da bostoniani. Era come il personaggio di una storia di Henry James, con un piede in America, un piede in Europa e un cervello ipertrofico introvabile nelle mappe. Era, quasi ironicamente, una versione rivista del ventesimo secolo del povero, sensibile gentiluomo della Gilded Age di James; lavoratore solerte, ma latitante negli studi, che salta le lezioni alla scuola di specializzazione, non vuole avere il fiato dei genitori sul collo, ma dipende dai loro sussidi; lezioso e immaturo. Nel 1917, però, passò dai paradigmi romanzeschi jamesiani ad altri, più strazianti (sebbene James possa essere alquanto straziante). Diceva di sé stesso “vivo in un libro di Dostoevskij”.

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Cosa era accaduto? Uno dei cambiamenti risiede nell’abbandono da parte di Eliot della maschera delle vanità che aveva insinuato nel personaggio di Prufrock; l’armatura satirica che nasconde un’insicurezza giovanile, la presunzione autocompiaciuta che il mondo sia comatoso, quando non assurdo, la falsa fiacchezza del simbolismo francese. E si immerse nel karma (un termine che egli avrebbe accettato, un’idea che non prevede ricompense o rivalse, ma definisce la forza circolare e le interazioni di un ecosistema morale e spirituale). Non era più disincarnato, disperso, bloccato, paralizzato, obsoleto – “un paio di ruvidi artigli che corrono sul fondo di mari silenziosi” – alle spalle il periodo ambiguo, indugiante della ricerca di sé stesso (che, a onor del vero, produsse grande poesia).

Aveva fatto un salto nel vuoto e andava incontro alle conseguenze karmiche. Scopriva anzi la consequenzialità stessa e si avvicinava a quelle prime significanti cognizioni dell’età adulta sulla natura del tempo e del cambiamento che, vent’anni dopo, sarebbero sfociate nelle bellissime, avvolgenti, eraclitee meditazioni dei Quattro quartetti. L’iniziale interesse di Eliot per i testi indiani, sebbene innocuo e molto più filologico che speculativo, è paragonabile a ciò che oggi possiamo definire orientalismo arretrato, per i nostri standard. (In seguito, sviluppando una predilezione per gli inni all’imperialismo come Recessional di Kipling – in cui le “stirpi minori non conoscono la Legge” – l’orientalismo assumerà sfumature perniciose). Tuttavia i suoi studi del Vedānta ebbero perlomeno il vantaggio di arricchirlo di una profonda comprensione dell’illusione e di un apprezzamento per i complessi e sottili principi di azione e reazione, di cambiamento e di permanenza. (In questo periodo pensò in realtà di convertirsi al buddismo).

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Si era sposato da poco, in modo impetuoso e con esiti disastrosi, con Vivienne Haigh-Wood, una ragazza inglese di quelle che allora si usava definire “nervose” (anch’egli poteva essere ritenuto tale) e che aveva conosciuto grazie a un amico americano. Eliot aveva delle responsabilità. Doveva portare il pane a casa; era un poeta pubblico, un critico e un saggista e arrotondava queste magre entrate con un impiego in banca. Frequentava Bertrand Russell e Virginia Woolf e altre straordinarie personalità, la cui raffinatezza aveva un che di efferato alla quale egli aveva l’obbligo di adattarsi. (Russell, sotto la parvenza dell’amicizia e della premura nei confronti della giovane coppia in crisi, finì col sedurre Vivienne). Aveva i piedi e la testa finalmente nello stesso luogo, a Londra, che era in Inghilterra, che era in Europa; e sperimentava le tensioni e le pressioni del mercato letterario, l’anomia del lavoro d’ufficio in una grande impresa capitalista (la Lloyd’s di Londra) e l’angoscia di un matrimonio che era presto diventato fonte di estenuanti, dolorosi e confusi dramma e complicazioni. (Riflettendo, dopo la morte di Vivienne del 1947, disse: “A lei il matrimonio non arrecò alcuna felicità… a me arrecò lo stato d’animo da cui emerse The Waste Land.”).

Tuttavia una risposta più significativa per quello stato d’animo di Eliot, più significativa delle sue agonie domestiche, più significativa dello sconforto della vita d’ufficio e della difficoltà di costruirsi una carriera fu, senza dubbio, la guerra, la Prima Guerra Mondiale, la guerra per porre termine a tutte le guerre. Per quanto sia possibile spiegare la grande arte, è la guerra a definire il dramma intrigante, destabilizzante, l’ironia pungente e accurata, il giudizio profetico, l’atmosfera nefasta, la crepuscolarità pervadente e nervosamente viva, allo stesso tempo malinconica, disperata, malevola, inquietante e vulnerabile di The Waste Land.

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Nella tradizione critica, in gran parte è ovvio che Eliot non può essere compreso o apprezzato senza la consapevolezza dell’effetto che la guerra ebbe su di lui. È in gran parte ovvio perché la guerra è usata per spiegare chiunque alla stessa età, o intorno l’età di Eliot l’abbia vissuta in qualche modo. Ma la specificità e l’intensità emotiva raggiunta da Eliot in The Waste Land, verosimilmente la poesia più influente della lingua inglese, non è del tutto colta, se è vista come un altro artefatto della Lost Generation. L’effetto che la guerra ebbe su Eliot è un argomento inestinguibile. Nessun’altra opera artistica occidentale dal peso di The Waste Land è così immediatamente e intimamente congiunta a un cardinale cataclisma storico, peraltro essendo allo stesso tempo radicale (nel significato originale del termine) abbastanza, vicina abbastanza ma anche distante abbastanza, immaginativa abbastanza, brillante abbastanza, non reminiscente e non solita abbastanza da riuscire a misurare una catastrofe umana di tale ordine. Forse Pound pensava a The Waste Land quando disse che la poesia è la novità che resta nuova.

La guerra industrializzata era un fenomeno iniziato già da cento anni o più, ma il mondo occidentale e il mondo della generazione londinese di Eliot si trovava ora di fronte a una rivalsa nella sua forma più evoluta, meccanizzata e inumana. Eliot fu un non-combattente. (Tentò, e fallì, per una serie di impedimenti burocratici, di arruolarsi dopo l’entrata in guerra dell’America, nel 1917). Ma nonostante non avesse assistito all’azione, vi era dentro quanto un poeta soldato come Wilfred Owen o Robert Graves (lo stesso non si può dire di Pound). La guerra non modificò solo, come potrebbe aver detto in un momento laconico, la sua sensibilità. La guerra lo invase e si impresse nei suoi più profondi strati psichici. The Waste Land è soverchiante nel suo senso di isolamento dello spirito, intrappolato in una materialità violenta. Tale senso non deriva da una predilezione del Vedānta per la visione della vita come un’illusione dolorosa, o da una avversione gnostica per il corpo (sebbene siano questi elementi funzionali nella poesia), ma è una reazione locale e particolare – per quanto tortuoso sia stato lo sviluppo, lunga la gestazione e indiretta la consapevolezza – alla testimonianza di qualcosa di molto vicino a una carneficina sistematizzata.

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Le testimonianze che Eliot riceveva nel 1917 erano raccapriccianti. Di seguito un esempio; la descrizione di un campo di battaglia tratta da una missiva di un soldato di trincea, allegata a una lettera di copertura scritta il 17 giugno 1917 e inviata alla rivista inglese The Nation, che la pubblicò il 23 giugno. “…una terra lebbrosa, cosparsa dei cadaveri gonfi e anneriti di centinaia di giovani uomini. L’orribile fetore delle carcasse marcescenti misto al nauseante odore di acido picrico e ammonio. Fango simile a porridge, trincee come crepe spioventi e poco profonde nel porridge – porridge che puzza al sole. Sciami di mosche e mosconi azzurri che si ammassano nelle cavità delle interiora. Uomini feriti che giacciono nei crateri dei bombardamenti tra i cadaveri in decomposizione: indifesi sotto il sole rovente e le notti aspre, sotto ripetuti bombardamenti. Uomini con le viscere uscite di fuori, i polmoni sparati via, con volti ciechi, fracassati, o arti esplosi nello spazio. Uomini che gridano e barbugliano. Uomini feriti appesi in agonia sul filo spinato, finché uno zampillo amico di fuoco liquido li avvizzisce come mosche su una candela. Ma queste sono solo parole e forse consegnano una frazione del significato a chi le ascolta. Che sussulta, e poi le dimentica”.

L’autore della lettera di copertura a The Nation era lo stesso Eliot. Quella che aveva allegato era stata scritta da suo cognato, Maurice Haigh-Wood, che era sul fronte da quando non aveva ancora compiuto diciannove anni. (Maurice Haigh-Wood sopravvisse alla guerra). Insieme al terrore e al tormento, alla compassione e alla rabbia che una descrizione del genere evoca, Eliot deve aver sperimentato reazioni proprie alla sua peculiare personalità. Una caratteristica dei suoi saggi è uno spiccato, sebbene perlopiù non esaminato, biologismo metaforico nel linguaggio che impiega riflettendo sull’arte e sulla cultura, oltre ad accenni di una percezione di fondo che gli effetti della letteratura possano essere meglio analizzati utilizzando un metodo di analogie tratte dalla scienza. Nel suo saggio più conosciuto, Tradizione e talento individuale, compara l’immaginazione poetica a un filamento di platino che catalizza una reazione chimica. Questo pensiero potrebbe benissimo essere frutto di una suscettibilità psicosomatica.

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Così profondamente sensibile alle atmosfere e alle impressioni com’era, così sensibile agli atti verbali, e così schiuso e vulnerabile alle immagini nate dalle parole, così irritabile, probabilmente Eliot reagiva al linguaggio che lo colpiva in un modo quasi fisico, era pervaso da sentimenti che lo avrebbero avvelenato, proprio nel modo in cui, disse nel suo saggio sulla tragedia, la vita di Amleto e la sua capacità di agire furono avvelenati da sentimenti che non riusciva ad articolare e oggettivare. Su Eliot una testimonianza come quella del passaggio citato sopra deve avere avuto gli effetti di una malattia. Per quanto possa essere strano, dato il tormento della sua poesia e l’amarezza della sua ironia, la cura a questa malattia, l’alleviamento dalla sua articolazione e concretizzazione, è stata la proteiforme, fitta di gravitazione, traslucida, ipnotica, bizzarramente irradiante sfera musicale che è The Waste Land.

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In vita, T. S Eliot godeva della stessa autorità in campo culturale di ogni altro autore di ogni altra epoca nella storia della lingua inglese. Tale autorità tende a occultare il poeta in crisi, dentro cui stava crescendo The Waste Land. Non è facile discernere quell’Eliot da tutti gli altri Eliot vissuti nel pensiero letterario e in quello pubblico dell’ultimo secolo. Eliot il normatore. Eliot il legislatore. Eliot l’elitario, amante della divisione in ceti e della gerarchia. Eliot il Difensore della Fede. Eliot il sostenitore dell’establishment (“classicista in letteratura, monarchico in politica, anglocattolico in religione”) Sporadicamente il deprimente, scoraggiante antisemita Eliot.

L’Eliot cristiano. L’Eliot dell’Identità Cristiana. Eliot l’incomparabile analista letterario, che generò un vero clima d’opinione. Eliot lo sdegnoso analista letterario che espresse irragionevoli (ma in perfetto tempismo), oltraggiosi giudizi en passant. (“Su Donne pende l’ombra del fine impuro”; “Hazlitt, la cui mente era forse la meno interessante tra tutti i nostri distinti critici”). Eliot l’editore. Eliot il guardiano. Eliot il drammaturgo. Eliot il premiato. Eliot lo snob. Eliot il presuntuoso intellettuale. Eliot, che all’età di cinquant’anni fu trasformato in una statua, messo su un piedistallo e seppellito fino al collo, come un personaggio di Beckett, sotterrato nella sabbia, sferzato da una tempesta di attenzione critica. Eliot la celebrità, l’amico di Groucho Marx.

Tuttavia, se anche potessimo vedere quel giovane poeta (giovane per quanto riguarda la poetica), probabilmente vedremmo solo l’enigma in modo più chiaro e non porteremmo alla luce niente di utile riguardo a lui (utile, ovvero atto a soddisfare una curiosità sul sentiero attraverso cui delle violente esperienze sono diventare arte, nel modo, ad esempio, in cui ci sono utili le lettere di Keats.) Il motivo: Eliot non condivide. Le sue lettere, o perlomeno quelle rese pubbliche ad oggi, sono, con rare eccezioni, simili a quella di cui l’estratto sopra (in cui citava qualcun altro), non danno informazioni, rispettano colui che ha orchestrato la propria assenza. Non per niente il critico Hugh Kenner intitolò il suo libro su Eliot The Invisible Poet. Con nessun altro grande autore della sua epoca abbiamo, come lettori, una relazione personale, un’identificazione emotiva così inconsistente. Con Eliot non ci si “immedesima”. Non ispira amicizia. È il più circospetto tra gli scrittori modernisti, il più vigile nel pattugliare la terra di nessuno tra sé e ciò che crea.

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Di questi altri scrittori abbiamo una conoscenza, presumibilmente, paragonabile a quella delle persone nella nostra vita. Conosciamo quelli riservati, “classici” come Kavafis e quelli che indossano una maschera o popolano una favola, come Pessoa o Kafka (tutti e tre hanno non poco in comune con Eliot, se si tratta di scelte retoriche), così come sappiamo di coloro che, come Proust o Lawrence, tendevano a essere autobiografici. Persino ammettere di non conoscerlo come conosciamo gli altri non appare un’affermazione vera o falsa, ma piuttosto il prodotto di un errore concettuale, un errore di categoria, un errore prevedibile. Il noto passaggio di Tradizione e talento individuale recita: “La poesia non è un modo di liberare l’emozione, ma una fuga dall’emozione; non è un’espressione della propria personalità, ma una fuga dalla personalità. Ma, naturalmente, solo coloro che hanno personalità ed emozioni sanno cosa significa voler fuggire da queste cose”.

Come il Dio di Flaubert, Eliot è ovunque presente nella sua opera, ma in nessun luogo visibile. Trasformò la rettitudine caratteristica della cultura puritana da cui proveniva in un principio mediante cui governare gli artefatti della sua immaginazione, applicando tale principio con una costanza impressionante. Eliot, la persona, funge da punto di fuga delle lunghe linee prospettiche della sua poesia. Persino quando pone sé stesso, invece di un personaggio enfatizzato, nelle proprie poesie, quel sé stesso è, quando non il mero soggetto grammaticale, o il sé esistenziale dei testi penitenti o la trascendente soggettività delle ultime meditazioni. L’ubicazione casuale di tale soggetto nella geografia e nella storia è la tinta fluorescente che ci permette di rilevare il moto del tempo e rivelare i contorni di una topografia spirituale.

Al posto della personalità, Eliot drappeggia le sue opere di un velo trasparente, con proprietà ottiche che allontanano, allungano o amplificano l’azione drammatica e simbolica racchiusa e vi trasmettono una limpidezza irreale (sebbene non semplicità; Eliot era un poeta “difficile”, la cui difficoltà è fondamentale). Al posto delle emozioni, ci viene donato ciò che egli notoriamente definì il loro correlativo oggettivo: “una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un’emozione particolare”. La forza di The Waste Land è indissolubile dall’impersonalità di tale correlativo. La sua impersonalità è cruciale per la sua aurea di perpetua freschezza, e le tracce che lascia sono permanenti. Infatti nella sua atmosfera distopica, post-apocalittica, nel suo travestitismo, nell’amara consapevolezza della violenza sessuale perpetrata sulle donne, The Waste Land non è solo una novità che rimane nuova, ma anche eventi attuali.

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The Waste Land suggerisce anche nuove idee sulla poesia, più incandescenti che mai. Il passaggio di apertura, con la prima, indelebile frase, è come la cadenza della tromba di Louis Amstrong che apre West End Blues degli Hot Five, mentre annuncia, con la stessa articolazione squillante, la nascita di una forma d’arte. La disincantata visione si oppone, e allo stesso tempo rinforza le transizioni, e ne viene rinforzata, dalla loro energia, imprevedibilità e gioia (una scelta insolita, ma appropriata del termine nel contesto di una così oscura opera). La giustapposizione è esaltante. Alla pubblicazione, il collage di The Waste Land, la sua multivocalità, il sistema di riferimento interculturale furono inedite quanto le sue transizioni.

Eliot smantellò la poesia della sua epoca. Smantellò non solo la poesia normativa edoardiana e vittoriana della sua epoca, bensì anche quella “d’avanguardia”. Testi quali The Comedian as the Letter C di Wallace Stevens e Il cimitero marino di Paul Valéry, pubblicati all’incirca nello stesso periodo, che allora venivano considerati radicali, ci suonano oggi tardo-romantici, come la musica di Elgar o di Richard Strauss, se comparati a The Waste Land. Più di Stevens o di Valéry, le personalità del suo tempo con cui Eliot ebbe, almeno negli anni antecedenti alla sua conversione all’Anglo-cattolicesimo, più elementi in comune furono forse (per quanto improbabile sembri) Duchamp e Brecht.

Un’ironia astratta, decostruzionista governa ogni cosa in The Waste Land, dalle azioni e transazioni fino alle sarcastiche note finali, che tolgono ai lettori la terra da sotto i piedi, che li “alienano” dall’esperienza appena vissuta. Gli elementi astratti, uniti all’impersonalità e allo scetticismo filosofico caratteristici di Eliot, anche nel suo periodo spirituale e apologetico cristiano (aveva una buona cultura di filosofia, come ogni altro poeta della storia occidentale), generano una separazione non solo tra poesia e poeta e tra poesia e lettore, ma anche dentro la poesia stessa.

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Le innovazioni di The Waste Land, sebbene concepite da Eliot, scaturirono dalla comune mentalità europea all’indomani della guerra. Il loro avvento non appare un mistero oggi. Di misterioso rimane il modo in cui le nuove idee radicali su movimento e sviluppo, sovrastrutture concettuali e apparato accademico danno adito a una più profonda unità e integrazione e accrescono e intensificano il potere rivelatore della poesia. In molti hanno imitato Eliot, ma nessuno è stato in grado di riassemblare su nuove linee e reintegrare così totalmente ciò che era stato così vigorosamente smantellato. In parte è dovuto alla brillante revisione di Pound (che Eliot mai smise di riconoscere), ma solo in parte. Qualcosa di innato nell’opera la rende completa. Qualcosa che ha origine nella sua atmosfera e nel suo ritmo.

Eliot era un maestro dell’atmosfera, la quale dona alla poesia un’energia di legame e riconcilia i suoi frammenti in un insieme emotivo. Possedeva un profondo senso della struttura musicale, che ovunque costantemente accresce e muta la dentellatura e ruvidità del dramma. The Waste Land è costellato da passaggi ed effetti in cui l’appagamento musicale è ricco e totale quanto quello letterario. Un esempio è il meraviglioso arpeggio a chiusura della prima stanza, che determina un cambio di forma grammaticale, dall’affermativa all’interrogativa dell’inizio della seconda stanza, un’incantevole scossa. Un altro mirifico esempio è il sostenuto – “Quasi secco era il Gange, e le foglie afflosciate/ Attendevano pioggia…” – che dà inizio alla mostruosa favola del tuono con cui termina la poesia. La narrazione rallenta e la tensione si attenua, prima dell’esplosione del crescendo finale in una squisita fusione, come quella della poesia delle dinamiche e del ritmo con significato mito e immagine.

Si diceva che Ezra Pound avesse un orecchio sopraffino. Eliot lo superava. La sua dizione è il perfetto accordo tra demotico e aristocratico e la tensione tra questi due elementi la rende convincente, senza alcuna traccia dell’arcaico o del futuristico, tanto vicina o tanto lontana dalla dizione del ventunesimo secolo quanto da quella del ventesimo o del diciannovesimo.

I ritmi delle poesie, sia delle prime che delle ultime, sono sia locali sia globali. Un esitante metro scorre uniformemente appena al di sotto della superficie dei versi, un’amabilmente quieta, ma irremovibile presenza metrica. Una complessiva progettazione del suono disciplina e anima ogni sillaba della poesia. I simbolisti francesi, la prima influenza poetica di Eliot, volevano una poesia che non fosse solo musicale, ma che arrivasse alla condizione astratta della musica. La poesia di Eliot arriva a tale condizione, e ci arriva senza sacrificare a beneficio dell’astrazione, di un fine puramente musicale e di un significato intrinseco del testo, ciò che giudicava altrettanto essenziale: storie, personaggi, drammi, voci umane, significato concreto, stati psicologici, immagini del mondo.

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Eliot è un poeta americano. Come è già stato detto: solo un americano avrebbe potuto farsi venire in mente un’idea del genere sull’Europa quando è venuta in mente a lui. L’altro poeta americano, l’altro grande poeta americano, con un orecchio comparabile al suo non è Pound, ma Walt Whitman. L’educazione del suono di Whitman fu astorica e biblica, mentre quella di Eliot derivò direttamente dallo studio della prosodia inglese e dei suoi antecedenti classici. Whitman scriveva opere e sinfonie orchestrali. Eliot scriveva musica da camera, implicitamente all’inizio, ed esplicitamente alla fine, nei Quattro Quartetti. Ma come Eliot, Whitman possedeva una padronanza di ampi intervalli del suono, una magnifica abilità nel modulare tra effetti aurei di ampia e piccola scala, e una purezza meravigliosa, una delicatezza, e un controllo delicato del suono, una dizione naturale, sempre attuale. E sia in Eliot che in Whitman le note singole e gli accordi risuonano in una vasta camera d’eco in cui il suono stesso ha un significato spirituale.

Questa introduzione alle poesie di Eliot è stata scritta al bicentenario della nascita di Whitman. È allettante in questo contesto triangolare Eliot il poeta per mezzo di Whitman. È anche appropriato e utile. Una volta fatto il confronto, è impossibile liberarsene. Dice tanto dei poeti, della poesia, dell’America. I contrasti sono talmente netti che da soli giustificano il confronto. La retorica di Whitman è schietta e personale. Quella di Eliot è l’opposto. Whitman si ripete. Eliot mai. Dire che Eliot sperimentò anche solo un passeggero entusiasmo per la democrazia, rasenta l’incredulità. Whitman era un autodidatta. Eliot ebbe la migliore educazione istituzionale dell’America del suo tempo. Whitman è decisamente il poeta della felicità, quanto Eliot è il poeta dell’infelicità. Sono ai poli opposti della vita spirituale. Dio frequenta Whitman. Dio è amico di Whitman. Whitman presuppone Dio. Anche negli scritti più profondamente spirituali, Eliot infrequentemente e cautamente cita Dio.

L’unione mistica in Whitman è una funzione corporale, inevitabile come respirare. La poesia di Eliot, d’altra parte, da The Waste Land in poi, è la messa in scena di un viaggio lungo la via negativa, il sentiero della penitenza, dell’abnegazione, della sofferenza, delle buie notti dell’anima, il sentiero che si estende attraverso luoghi petrosi, passa da cisterne vuote e pozzi ormai secchi, da terre morte e terre di cactus, da valli di stelle morenti. The Waste Land pone un quesito a cui solo Dio potrebbe essere la risposta. Tutte le più grandi poesie di Eliot dopo The Waste Land sono eventi unici – definiti da invenzioni retoriche e metriche nate esclusivamente per quegli eventi – che documentano le fasi di una ricerca di quella risposta, una ricerca lancinante, portata avanti con speranze e dubbi. E, così ricca e circolare, così appagante per la mente, la visione beatifica, quando finalmente Eliot vi arriva nei Quattro Quartetti, è pacata, solenne, intellettuale e diffidente, persino nella sua estasi.

Amiamo Whitman, e non amiamo Eliot, o almeno, sembriamo non riuscire a stabilire con quest’ultimo quella relazione personale che sarebbe una condizione necessaria per amarlo. Whitman esige quella relazione personale. Eliot la vieta. Ma non leggiamo poesie per amore. Leggiamo poesie per la poesia. Per separarci dall’incanto e dal disincanto, questi due creatori della poesia americana si impongono su di noi, e osservarli solo nella la loro opera rende possibile riconoscere quanto in realtà abbiano in comune; la pretesa di Whitman dell’amicizia dei suoi lettori è un trucco retorico come lo è quella di Eliot di vietare quella stessa amicizia. Entrambi scompaiono nella propria poesia, come tutti i grandi poeti, qualsiasi sia il racconto con cui parlano al lettore. Eliot è considerato un poeta freddo, ma si potrebbe obiettare a ragione che anche Whitman lo sia. (Disdegniamo il credo politico di Eliot e vediamo in Whitman un rappresentante, eppure Whitman fu molto rallegrato nel vedere l’America appropriarsi di ampie porzioni del Messico e contemplò con imperturbabile neutralità l’estinzione degli Indiani d’America nel massacro del Destino Manifesto).

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E, al di là di ciò, un’ampia serie di somiglianze: furono entrambi rivoluzionari, ed entrambi originali – che non è la stessa cosa. Le tecniche e le possibilità della poesia sono state immensamente estese da entrambi. Furono tutti e due visionari, e personaggi pubblici, istruirono sulle proprie visioni. Ambedue vennero trasformati dall’esperienza di una guerra sanguinosa e terribile. La scala delle loro ambizioni era immensa e, esattamente allo stesso modo, entrambi realizzarono eccezionalmente tali ambizioni. Tutti e due devoti a uno scopo trascendentale, originato dalla loro comune anticonformista cultura religiosa americana. Entrambi credevano che la vita fosse un’esperienza spirituale e che la poesia dovesse simbolizzare tale esperienza. Possiamo vederli come buoni compagni. Ancora, leggiamo la poesia per la poesia, e sulla base di ciò, se per Eliot è lusinghiero essere visto come un buon compagno di Whitman, per Whitman lo è altrettanto.

Vanno di pari passo sotto aspetti importanti, sotto aspetti essenziali. Nell’influenza esercitata sugli altri e sulla cultura in generale, nessun poeta americano li eguaglia. Una tra le singolari idee che Eliot annotò in Tradizione e talento individuale riguarda il paradosso fenomenologico secondo cui il presente cambia il passato. Il nostro presente, il nostro presente lucido, democratico, consapevole, sensibile alle diversità, che esige almeno il gesto retorico della franchezza, della trasparenza, resta ancorato più a Whitman che a Eliot. Il nostro presente, tuttavia, conta molti elementi che Eliot comprese e Whitman no. Infatti, con sua angustia urbana, la sua coscienza apocalittica, il suo senso per i veri pericoli dell’esperienza, la sua consapevolezza che l’intuito spirituale non è una gioia, o almeno non solo, ma una terribile necessità, forse è proprio Eliot che si è fermato da qualche parte ad aspettarci.

Vijay Seshadri

*Pubblichiamo parte dell’introduzione di Vijay Seshadri a “The Essential T.S. Eliot”, Ecco 2020; la traduzione italiana è di Valentina Gambino

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