Il mio incontro, il mio primo incontro con Thomas Bernhard avviene in un pomeriggio d’autunno. Rifugiatomi, come sempre, nella libreria di fiducia per isolarmi dal mondo che non ne vuole sapere di piacermi e ispirato da quel titolo “camminare” (quasi una folgorazione per me che amo e spesso mi rifugio, nel camminare) e da quella copertina blu nella splendida edizione della piccola biblioteca Adelphi, edizione tesa come sempre ad ammaliare e attirare i lettori come me, non posso fare a meno di portarmela via. Non conoscevo nulla di Thomas Bernhard e non pensavo che sarebbe bastato questo piccolo libricino, 125 pagine, per gettarmi nell’abisso di uno scrittore che ti sfida, senza invitarti ma quasi allontanandoti, ad inoltrarti nelle tenebre, nelle sue tenebre. Puoi rifiutare, lasciar perdere, andare oltre. Far spallucce, scuotere la testa e sfogliare pagine accomodanti. Puoi invece rimanere ammaliato e alla fine eleggerlo, come supremo ideale letterario, irraggiungibile meta e nume tutelare.
Ci sono sprofondato con tutte le scarpe e i miei sensi, in quell’abisso. E “camminare” è stato solo il primo passo. Un abisso scavato con uno stile sublime, sublime al limite dell’irritante e dell’irrispettoso. Uno stile tessuto attorno alla ripetizione, alla variazione, ad un elaborazione che tende ad inoltrarsi verso gli estremi più profondi. Uno stile che attraverso l’ossessione, la precisione, la comicità amara mira all’annientamento delle maschere grottesche dell’esistenza svelandone tutta la loro tragica farsa. “Mi chiedo come siano possibili tanta inermità e tanta infelicità e tanta miseria, dice Oehler. Come la natura possa generare tanta infelicità e tanta materia d’orrore. Come la natura possa produrre tanta spietatezza nei confronti delle sue creature più inermi e più commiserabili. Questa sconfinata capacità di soffrire, dice Oehler. Questa sconfinata ricchezza d’immaginazione nel produrre e nel sopportare l’infelicità”. Il narratore, un io non meglio precisato, che si palesa unicamente nell’incipit del racconto, riferisce ciò che un secondo personaggio, Oehler, racconta di quanto accaduto ad un terzo personaggio, Karrer, e, soprattutto, di quanto i due si sono detti durante le loro passeggiate. Quanto di più spietato, rassegnato, cinico si sono detti.
Eppure, “camminare”, è solo un fugace assaggio della maestria di Bernhard. La cui produzione si è elevata a magnificenza quando quel “io” ha coinciso proprio con se stesso. Cinque libri autobiografici, scritti tra il 1975 e il 1982 (L’origine, La cantina, Il respiro, Il freddo, Un bambino tutti editi da Adelphi). Cinque libri autobiografici in cui la narrazione cruda e immediata ma assieme poetica e commovente della sua vita, o meglio, della prima parte della sua vita, è quasi un invito a far carta straccia dei milioni di pagine delle migliaia di libri ricolmi di banalità usciti negli ultimi decenni. Cinque libri autobiografici che si possono leggere anche come semplici (magnifici) romanzi, perché l’intento di Bernhard e non è stato quello di raccontare di sé, ma di un’anima e la sua vita.
La sua vita e la vita stessa, in tutta la sua insopportabile violenza, cattiveria, futilità, inutilità e idiozia. Gli anni fanciullini trascorsi tra tragicomiche corse in bicicletta, le frustrate con la cinghia di una madre che non l’ha mai davvero apprezzato, i consigli di suo nonno, figura centrale di tutti e cinque i capitoli. Figura centrale e fondamentale. Gli anni trascorsi tra educatori nazisti prima (la narrazione si sviluppa negli anni del secondo conflitto mondiali) e dall’abito talare poi.
“Entrando a scuola tremavo, uscendo da scuola piangevo. Andavo a scuola come si va al patibolo, la mia decapitazione era sempre soltanto rinviata, e questa era per me una tortura”. Quindi la guerra, il ginnasio abbandonato per diventare commesso. Nel quartiere più malfamato della sua odiata Salisburgo. E quindi della sua malattia polmonare (che mai più l’abbandonerà) e il suo ricovero nel sanatorio di Grafenhof, «Qui, in questo trapassatoio, io mi ero imposto di non abbandonarmi alla disperazione, semplicemente dovevo lasciare che la natura umana, la quale si palesava qui, come probabilmente in nessun altro luogo, con assoluta brutalità, facesse il suo corso». Si può cogliere un sentimento così in antitesi come l’amore, in un profluvio di pessimismo caustico e disprezzo senza redenzione verso il mondo, i medici, gli intellettuali, i maestri cui unica via di fuga è il suicidio? Sì, perché Bernhard è sfuggito al suicidio, ricorrente in ognuno dei cinque titoli, proprio per l’amore. L’amore per i libri, la musica e le uniche due persone di cui si abbia conoscenza. Il nonno e Hedwig Stavianicek, conosciuta proprio durante i due anni di ricovero, 36 anni più grande di lui e che sarà l’amicizia che l’accompagnerà per il resto della sua vita. La prosa follemente musicale e geometrica in bilico sulle tenebre di Bernhard è presente e percorre le pagine di tutta la sua bibliografia. Opere teatrali e romanzi (“Il soccombente” e “Estinzione” su tutti). Ma non si può prescindere, per addentrarsi in quelle pagine, dal leggere tutta d’un fiato la sua storia. Bernhard lo si può rifiutare, financo odiare. Ma bastano pochi passi, poche pagine, poche ripetizioni: se scatta la scintilla, non riuscirai mai più a liberartene.
Cosimo Mongelli