20 Agosto 2020

“Siamo stati l’elettroshock del sistema, abbiamo svegliato elefanti che dormivano”. I cataloghi irripetibili di Theoria e Transeuropa

Piccola o grande, letteraria o generalista, quando chiude una casa editrice ne andrebbe rispettato il lutto, vegliato il dolore. Oltre alla redazione sottosopra e all’onta degli ufficiali giudiziari che passano a requisire ciò che possono, sotto cataste di inediti, cartoni di copie saggio e montagne di bozze incompiute restano soprattutto i sogni di chi – attraverso la più impervia e impegnativa delle imprese culturali – credeva di contribuire all’alito del mondo. Certo se si tratta di editori a pagamento o dal catalogo insignificante verrebbe da dire poco male, ma un’indagine del Centro per il libro (2015) stabilì che tra quelle in difficoltà a chiudere erano soprattutto le case editrici con un’identità (38%) mentre sigle senza troppi scrupoli riuscivano più o meno a cavarsela (53%). Per formazione personale, in questo breve viaggio nell’editoria di fine anni Novanta prenderò in analisi due casi che esperti e studiosi considerano irripetibili: Theoria e Transeuropa (limitatamente alla loro prima vita, dalla fondazione al declino), due case editrici che quasi senza sospettarlo hanno riscritto le regole del gioco, anticipato modelli e riferimenti, sparigliato i giochi. Altri tempi, vero. Altri libri, veri.

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Stagione irripetibile

Ciascuna sommersa dai suoi guai e dai suoi debiti, verso metà dei Novanta alcune sigle editoriali molto diverse tra loro decisero di costituire un’alleanza. Nacque Logica, composta da Costa&Nolan, il Lavoro Editoriale, Leoncavallo Libri, Piero Manni, Moretti&Vitali, Pequod, Vignola, Theoria e Transeuropa (questa la formazione stando al catalogo del 1999). In particolare intendo soffermarmi sull’esperienza di queste ultime due sigle, sul coraggio con cui seppero costruire un catalogo che – ancora oggi, a vent’anni di distanza – raccoglie il meglio della narrativa italiana. Molti autori che esordirono o pubblicarono con Theoria e Transeuropa in quel periodo, sono diventate firme autorevoli della nostra letteratura. Quello che successe grazie a due binomi animati dalla stessa lucida follia, Repetti-Cesari e Canalini-Tondelli, non si è mai più verificato nell’editoria e nell’impresa culturale in genere. Certo oggi sarebbe impossibile riproporlo per modalità e contenuti, ma quella capacità di osare e quella tendenza all’anarchia pura – accumulando molti debiti, sia detto fuori di retorica – non appartiene al nostro tempo così come allora non appartenne a nessun altro. Nessun altro riuscì a imprigionare il vento di quella stagione, nessun altro riuscì a intuire che quelle botteghe editoriali (ne spuntava una a settimana) avrebbero potuto salvare il movimento, sottrarlo all’egemonia da cui sarebbe stato schiacciato.

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Repetti-Cesari, la scuola romana

Fondata da Beniamino Vignola che ne affidò da direzione editoriale a Paolo Repetti e al compianto Severino Cesari (poi fondatori di Einaudi Stile Libero), la collana Letterature di Theoria fu inaugurata da Diario di un millennio che fugge (1986, Marco Lodoli). Solito laboratorio romano e piccolo borghese, si pensò quando nacque. Costituita senza molti soldi ma con idee abbastanza chiare, Theoria era animata da una determinazione e da una lucidità che i grandi gruppi editoriali sottovalutarono pentendosene quasi subito. Soprattutto Feltrinelli, che dopo gli anni d’oro di Stefano Benni stava cercando giovani narratori. Theoria, tra gli altri, ospitò nel suo catalogo Navigazione di Circe e Poche storie (1987 e 1993, Sandra Petrignani), l’esordio assoluto Per dove parte questo treno allegro (1987, Sandro Veronesi), Acqualadrone (1988, Eugenio Vitarelli), L’apparizione di Elsie (1989, Aldo Rosselli), Voi grandi (1990, Lidia Ravera), Zero maggio a Palermo e Oggi è un secolo (1990 e 1992, Fulvio Abbate), Il banchetto nel bosco e Il suono del mondo (1990 e 1991, Giampiero Comolli), quindi il grande Sandro Onofri (con Luce del Nord del 1991 Colpa di nessuno del 1995), la folgorante raccolta di racconti Questo è il giardino (1993, Giulio Mozzi) e l’impietoso ma perfetto esordio di Sebastiano Nata (1995, Il dipendente). Repetti e Cesari ebbero anche il merito di pubblicare Il branco (1994: il titolo con cui fu anticipato integralmente da Nuovi argomenti era La baracca, eguagliando un onore appartenuto solo a Sciascia) di Andrea Carraro: un lungo piano sequenza narrativo, con la camera sempre fuori dal capanno, durante cui una ventina di balordi della periferia romana violentano due turiste tedesche. Il romanzo (da cui sarà tratto il film di Marco Risi) diventa un caso: vero, non quelli di oggi. Il magazine Anna raccoglie 500mila firme per sollecitare il cambio dell’imputazione nel codice penale, la violenza sessuale da reato contro la morale diventa reato contro la persona anche grazie a Theoria e Carraro. Sempre in Letterature trovarono spazio Emmanuel Carrère, William Faulkner, William Styron, Acheng, Andrej Platonov, William Goyen, Mohamed Mrabet, Edwin Muir, Can Xue, Irina Liebmann, Melissa Pritchartd, Su Tong, Alexander Stuart, Franz Fühmann e Xu Xing. Difficile raccontare Theoria senza franare nell’enfasi dell’entusiasmo, ma Repetti e Cesari – come dichiararono a Giulio Ferroni su La Stampa – ignoravano «di aver contribuito a un elettroshock del sistema, abbiamo svegliato elefanti che dormivano». Erano i tempi di un’editoria pensata con più saggezza, meno soggetta agli entusiasmi e alle depressioni del mercato, più vicina agli interessi politici (Theoria non faceva eccezione, considerata molto vicina alla sinistra) ma paradossalmente più libera di sperimentare, più adatta alla ribellione proprio perché ne conosceva le vie di fuga. Casa editrice d’identità si diceva, in cui gli scrittori che passavano o esordivano sapevano che avrebbero avuto carriere importanti, vivevano quel battesimo sapendo che padrini migliori al momento non ce n’erano. La fine fu traumatica, in una vecchia intervista – rilasciata dopo aver dato vita a Stile Libero, quindi dopo il passaggio in Einaudi-Mondadori – Cesari ne raccontò il requiem: «Eravamo sommersi dai debiti, morti per troppa crescita. Avevamo continuo bisogno di stampare e non avevamo i soldi per la tipografia. Incassavamo tardi da distributori e librerie, macinavamo premi su premi, consensi e recensioni ma nessuno sapeva che stavamo morendo. Dovevamo andare avanti ma la strada era finita». Da qualche anno il marchio ha ripreso le pubblicazioni sotto altra direzione editoriale.

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Canalini-Tondelli, la provincia laboratorio

Non fu vera scuola, non geograficamente, nel senso che gli autori che hanno pubblicato per la prima Transeuropa provengono da quasi tutte le regioni italiane. Quello che però Massimo Canalini (il più grande talent scout italiano, secondo il Corriere della Sera) riuscì a realizzare, fu una master class a testi aperti. Ad Ancona ne arrivavano 5/10 al giorno, il postino li raccoglieva e consegnava al citofono Transeuropa/Il Lavoro Editoriale: la casa editrice nata dal fiuto di Canalini e dall’amicizia con Pier Vittorio Tondelli, al quale il ruolo di scrittore stava stretto e cominciava a cercare nuove strade per raccontare il suo tempo. Erano gli anni in cui un manoscritto arrivato da Bologna aveva bruciato le prime 300 copie in due giorni, si chiamava (e chiama, perché è un classico) Jack frusciante è uscito dal gruppo, il suo autore stava finendo il liceo e si chiamava (e chiama) Enrico Brizzi. Al Salone di Torino gli aspiranti esordienti facevano ore di fila per parlare con Canalini, oggi agli aspiranti esordienti gli editor sorridono come agli orizzonti in cartolina. Transeuropa aveva già pubblicato Alba rossa (1990, Joyce ed Emilio Lussu), Cani sciolti (1988, Renzo Paris), Charles (1986, Claudio Piersanti), Clapton (1990, Lorenzo Marzaduri), il bellissimo Compleanno dell’iguana (1991, Silvia Ballestra) a cui aveva fatto seguito La guerra degli Antò (1992), Feste perdute e Fuoco magico (1997 e 1989, Gilberto Severini), Giochi crudeli (1990, Claudio Lolli), Il collezionista di Vigevano (1998, Piersandro Pallavicini), Il ferroviere e il golden gol (1998, Carlo D’Amicis), Indianapolis (1993, Romolo Bugaro), Infernuccio itagliano (1988, Gianni D’Elia), Norvegia (1993, Angelo Ferracuti), Outland rock (1988, Pino Cacucci), Profezia di Palazzo (1997, Riccardo Angiolani), Sandrino e il canto celestiale di Robert Plant (1996, Andrea Demarchi) solo per citarne alcuni. Senza contare le antologie Giovani blues (1986) e Belli&Perversi (1988) entrambe a cura di Pier Vittorio Tondelli, e gli altri progetti di ricerca narrativa Coda (a cura di Silvia Ballestra e Giulio Mozzi, 1996), Fifth Coda 1 e 2 (1997 e 1998) entrambi curati da Andrea De Marchi. Anche la storia di quella Transeuropa, oggi sarebbe impraticabile: per i tempi (i testi che arrivavano in redazione venivano letti ad alta voce, discussi ed editati live… spesso alla presenza dell’autore) ma anche per la lingua, che tra fine anni Novanta e inizi Duemila stava assorbendo distorsioni che avrebbero reso qualsiasi audacia un territorio già esplorato (Brizzi scrisse Jack Frusciante senza maiuscole e con pochissimi a capo, oggi gli editing consistono nell’eseguire il minor editing possibile). Il viaggio di quella Transeuropa finì meno traumaticamente di Theoria, attualmente prosegue sotto altra direzione editoriale (Giulio Milani). Ma forse perché avvenne tutto in una piccola provincia, il laboratorio Canalini-Tondelli è riportato nei saggi sull’editoria come un’esperienza straordinaria, unica nel suo genere. Su quella Transeuropa sono state scritte più di 30 tesi di laurea in Editoria Storia dell’impresa culturale.

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Divieto di resurrezione

La storia delle resurrezioni editoriali è piena di slanci e naufragi, autentici miracoli e operazioni ambigue che ancora attendono una ragione imprenditoriale e letteraria. Un record lo stabilisce Baldini&Castoldi: nata nel 1897, risorta nel 1991 e assunta nuovamente ai cieli d’inchiostro nel 2013 (da pochi anni sotto il controllo de La Nave di Teseo). Rizzoli (2016) sarebbe fallita se non fosse stata acquisita da Mondadori. Così come la sopravvivenza di Einaudi (1994) sarebbe stata tutt’altro che garantita da banche, fondazioni e creditori che ne inseguivano tutto il pignorabile, se non fosse stata salvata sempre da Mondadori. Qualche caso all’inverso? Non è mai riuscita la resurrezione della Camunia di Raffaele Crovi (fondata nel 1984, passata a Giunti nel 1994 e poi scomparsa), falliti tutti i tentativi di riportarla in vita e recuperarne il catalogo in cui spicca il Campiello de I fuochi del Basento (1987, Raffaele Nigro).

Al momento sarebbero almeno 20 i marchi editoriali italiani a cui imprenditori, scrittori, funzionari pubblici in pensione o semplici avventori sarebbero interessati. Una ventina di fantasmi a piede libero, personaggi reali e spettri dell’ultra vita letteraria in cerca di editore. A tutti gli interessati a questo recupero – col rispetto che si deve a chi rischia e suda in proprio – vorrei poter dire «no, grazie». Le case editrici non sono tabacchi o cancellerie, né case assegnate alle aste giudiziarie (col seguito di maledizioni dei proprietari a cui sono state sottratte), così come non sono auto sequestrate e mai ritirate. Le case editrici sono piante irriproducibili, ecosistemi dalla scomoda ma necessaria solitudine, alfabeti universali in cui nessuno sa come esprimersi, habitat a misura di chi – spesso partendo dal nulla – si imbarca in un’avventura più massacrante che suggestiva. Andrebbe vietata per legge la possibilità di riacquisirne il marchio, perché nessuno come chi l’ha creata può ereditarne il seme. Assistere ai fantasmi di queste esperienze in giro per le stanze delle nostre letture, a tutti questi defunti trattenuti in vita (da sentenze di tribunali) pur di esercitare il fascino di un nome, non solo è ingiusto ma in qualche modo anche indegno. Le case editrici, quelle vere, assolvono una missione, specie in momenti come questo diventano presidi di democrazia, culle del pensiero di cui troppo poco si interessa il nostro Paese. Di contro, assistere a tentativi di recupero di quella missione, di ripristino di quel pensiero rappresenta un obbligo che sa di dileggio, una violenza che sa di profanazione. Non accorgersene va contro l’anarchia di cui i libri sono bandiera. Vuol dire manomettere le sentenze della storia, e questo nemmeno ai libri è consentito. Figurarsi agli Editori.

Davide Grittani

*In copertina: Pier Vittorio Tondelli in una fotografia di Celestino Pantaleoni. La fotografia è tratta da qui, materiali tondelliani sono al Centro di Documentazione Pier Vittorio Tondelli

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