19 Febbraio 2018

Tra “teologi da festival”, “poeti tracotanti” e “augusti filosofi verbigeranti”, l’ultima, sepolcrale, raccolta poetica di Enrico Testa

Non ci diremo addio./ Non sappiamo come dirlo,/ e non vale la pena impararlo”. Si apre così l’ultima raccolta di Enrico Testa, Cairn (pp.136, euro 11,00, Einaudi, 2018). Tre versi semplici, parole che si dedicherebbero volentieri a chi abbiamo vicino, qualcuno che ci è caro, nella speranza di non doverlo mai perdere. Alla morte e alla nascita non c’è però rimedio –  godetevi comunque l’intervallo –, come a certe vicissitudini, così che anche imparare a dire addio diventa un’utile necessità. L’opera in questione nega questa evidenza, avanzando una speranza dall’infantile bellezza: imparare a dire addio non vale la pena e rovescia la prospettiva con cui comunemente guardiamo ogni fine (“Non possiamo ricominciare ancora./ Soltanto possiamo ancora finire./ Ma non abbiamo mai finito./ Oh sì, non crederlo./ Abbiamo finito molte e molte volte./ Non una volta sola./ E ora possiamo finire di nuovo./ E ancora e ancora./ Senza un nuovo inizio”). La raccolta scorre tra immagini sommesse, ponendosi in uno spazio marginale, microscopico, che elude i grandi temi solitamente consacrati dalla poesia. L’obiettivo mette a fuoco gli angoli nascosti, talvolta sporchi, dell’uomo e dello spazio che esso abita. Facendo capolino dentro la casa, il luogo primo, salta agli occhi il filo scuro di polvere che corre lungo i mobili trascurati, lontani dall’uso quotidiano (“Macchie d’umido/ che fioriscono agli angoli del soffitto”). L’uomo attende, nel luogo in cui si raccoglie, in condizioni “perfette e fetenti” come scrive Philip Larkin, tra i versi di The Way We Live Now. Condizione in cui ognuno di noi attende, scrive l’autore di Cairn, in modo “inerte o impaziente”. In Cafè Romand, una delle prime poesie della raccolta, l’esistenza umana freme impaziente, si incarna in una presenza ambigua, un cleptomane da poco, che trova soddisfazione nel rubare sottobicchieri, biro negli studi degli avvocati e tovaglioli nei ristoranti, tra cui quello della persona amata, unica reliquia di valore trafugata.

Dal titolo ai versi finali, corre il filo conduttore di una relazione intima con chi ci ha lasciato. Non necessariamente a causa di una vita finita. Si tratta, a ogni modo, di tutte “le ombre care” che non possiamo, o non vogliamo, lasciar andare. La prima idea che ci viene in mente, è vero, forse perché oggi siamo poco disposti a soffrire, è che si tratta di presenze disturbanti di cui liberarci, magari con l’aiuto di uno psicologo. L’invito dell’autore è, al contrario, di conservare queste ombre, di averne cura così come chi si inginocchia al cospetto di un morto, o abbraccia un vivo (“Per raggiungervi, sentirvi/ Baciarvi/ e inginocchiarmi davanti a voi,/ ombre care della mia infanzia/ rischio la vita per i morti/ rischio la morte per i vivi”). La relazione con l’assente, con i morti, con chi ci ha lasciato viene trattata con tanta forza e concretezza che rischia di spaventarci: la presenza ravvisabile nel cleptomane di Cafè Romand diventa ancora più forte e impaziente, fino a cacciare “il lavacadaveri” per sostituirlo e prendersi cura un’ultima volta del corpo della persona amata, che appunto non c’è più. L’atmosfera resta dolce, anche se oscura. Il tema principale è trattato senza moralismi, quasi fossero parole di un bambino troppo spigliato, che dice le cose fino in fondo, trovando tutto innocente. L’opera consiste di immagini dal gusto contemporaneo, qualche volta tecnologiche o urbane. Ci sono anche paesaggi di campagna, immagini naturalistiche come nella migliore e noiosa tradizione nostrana. Il doppio registro ci consegna un testo niente affatto tipico, casomai completo. Le immagini evocate vengono qui più spesso usate in modo non metaforico, senza rimandare ad altro, ma riportando il passato alla presenza e noi al passato. Questa è la funzione della parola nell’opera in questione, parola “che dice ancora/ quando non c’è più niente da dire/ che non dà nome/ a ciò che è senza nome/ ma come un abbraccio l’accoglie/ e perdonandogli ogni colpa/ l’invoca e – ma forse straparlo-/ È pure pronta a celebrarlo”. Cairn infine, vale la pena dirlo, è un mucchio di pietre che segna la presenza di un sepolcro e un punto di riferimento per chi ancora cammina sul sentiero.

Alessandro Paglialunga

*

Alcune poesie tratte da: Enrico Testa, Cairn (Einaudi, Torino 2018):

 

testaOgni cosa qui ha il suo padrone.

Come nel medioevo, il potere è tetro.

Anche le gioie dell’amore

– doni spermatici o squirting equinoziali –

Sono riuscite a renderle tetre.

E pure la melanconia,

perduta ogni dolcezza,

va ora in giro con una cappa nera.

Tetra pure lei.

Pellegrini lamenti scongiuri riti

– tutti scomparsi

Nell’eco lontanosvanente dell’agnus dei.

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Solo quando mi dici

“amami quanto ti amo io”

Riprendo quasivita

trafitto da veri spasmi umani

Come, per celeste scossa elettrica,

la rana, morta,

di Galvani.

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viviamo senza capirne niente

fingendo, alcuni, di capirne tutto

dei giorni in fila trascorsi nel trastullo

con i nostri hobby horse da strapazzo:

liti manie credenze

ruote da pavoncelli sediziosi

riti d’elevazione o d’abiezione

scongiuri voci impositive

oltraggi all’umiltà.

A poco servono teologi da festival

che ne sanno ancor meno

delle beghine di paese

bistrattate da poeti tracotanti;

e augusti filosofi verbigeranti

sotto il segno del mito o della moda;

e iene maculate dai denti gialli

che ringhiano, a loro tornaconto,

spirito di servizio o senso d’appartenenza.

Se ne può, di tutti -state certi-

Fare anche senza.

Alla fine, il conto è zero:

la nostra sola scienza.

 

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