I primi 50 anni de “I giardini di marzo”. Esegesi brutale
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Michele Nigro
In questi mesi di quarantena, di “apri e chiudi” e zone colorate, in tv e sul web è tutto un gran pullulare di messaggi retorici del tipo: “ce la faremo!”, “ne usciremo!”, “andrà bene!”, “saremo migliori!” e altre simili, doverose, confortanti ingenuità finalizzate più a raggiungere obiettivi di marketing che una reale ripresa morale. C’è chi afferma con convinzione – tra intellettuali, psichiatri, poeti e cantautori – che non saremo migliori affatto, che l’umanità, una volta superato il pericolo o già durante questa fase finale, tornerà lentamente alle sue precedenti abitudini, buone o cattive che fossero; che l’uomo per sua natura, pur essendo un sapiens, dimentica presto, o meglio, si ri-adatta alle nuove condizioni imposte dai governi e dalle emergenze a tempo determinato, continuando dietro le quinte ad aggirare il vero cambiamento, quello profondo e permanente, a favorire se stesso e le proprie egoistiche comodità, esprimendo un’evoluzione di facciata. Il cambiamento interiore irreversibile costa fatica. In poche parole saremo come quelli che in questi giorni per strada portano la mascherina sotto il mento o sulla fronte: ci innamoreremo dell’idea fasulla di fare il nostro dovere, di “portare la mascherina” per salvare il mondo, ma in fondo torneremo a essere gli imbroglioni di sempre, e le prime persone che imbroglieremo sono proprio quelle che vediamo riflesse nello specchio del bagno: noi stessi.
Si parla di “retorica del cambiamento” a ragion veduta, perché la vera evoluzione interiore viaggia su altre frequenze, alla maggior parte di noi sconosciute. La “mutazione pratica” che la nostra società dovrà subire sarà legata solo ed esclusivamente a una questione di cautela nei confronti di una eventuale convivenza forzata tra noi e Covid-19, in attesa di strumenti migliori per combatterlo, isolarlo, tenerlo a bada, studiarlo, renderlo inoffensivo, possibilmente distruggerlo, in caso di “incontro” ravvicinato, grazie al vaccino che stiamo per ricevere. Quarantena e convivenza forzata che, inaspettatamente per molti, stanno rappresentando occasioni preziose per rivalutare priorità, riscoprire stili di vita arrugginiti, gesti antichi (come leggere), abitudini impolverate (come ascoltare un vinile), pratiche culturali in disuso, hobby e “fai da te”, affetti o vecchi rancori, varchi meditativi pieni di ragnatele, riflessioni impegnate offerte dal disimpegno; per riflettere su un prima e un dopo, per ripercorrere gli errori planetari in materia di ecologia, di sfruttamento energetico, di comportamento consumistico del singolo o di intere popolazioni.
Ci stupiamo del ritorno di una certa natura, animale e vegetale, relegata ai margini, ghettizzata, scacciata e schiacciata, rinchiusa in riserve delimitate dal nostro via vai, dai nostri affari, dal nostro traffico di specie superiore, senziente e intelligente; realizzando che, forse, i virus più dannosi presenti su questo pianeta siamo proprio noi.
Il rallentamento delle nostre attività, personali e comunitarie, questo immobilismo forzato, ci indurranno a una riflessione in grado di renderci migliori in futuro o causeranno, come già accade, solo a una serie di difficoltà economico-imprenditoriali? La maggior parte di noi tornerà a fare esattamente quello che faceva prima, e non vedo perché non dovrebbe essere così, però con un’accortezza maggiore e un’esperienza segnante alle spalle capace di stimolare una salutare critica non solo teorica ma addirittura pragmatica; altri, invece, torneranno in gara ancor più nevroticamente e con una dose raddoppiata di violenza inespressa a causa dell’inazione e dell’energia non spesa: durante i primi tempi del ritorno alla normalità non mancheranno gesti inconsulti, reazioni spropositate, rigurgiti ritardatari di autodiscipline maldigerite. O forse no…
Perché un’esperienza forzata dovrebbe renderci migliori?
Nel film Cast Away, con un eccellente Tom Hanks diretto da Robert Zemeckis, il “naufragio aereo” su un’isola deserta rappresenta la trama macroscopica, il fatto, il vulnus che porterà a una serie di inaspettati effetti sull’esistenza del protagonista e delle persone che egli ama. Accanto al naufrago Chuck Noland vi è un co-protagonista invisibile, muto, silenzioso ma presente, innominato ma che ossessiona l’esistenza di quegli esseri viventi in grado di concepirlo e misurarlo: il tempo. Se prima del naufragio il tempo era tutto e determinava, agenda alla mano, lo scandire degli eventi personali e lavorativi, su quell’isola lontana dal mondo cosiddetto “civilizzato” il tempo deve diventare un fattore irrilevante, un vago ricordo duro a morire; è il riverbero di una vita condizionata dai ritmi di una società tecnologica, puntuale ed efficiente che non è più necessario onorare. Il naufrago è costretto a dilatare i tempi dell’esistenza, e a non controllarli più. È costretto a lasciarsi vivere seguendo altri tempi, quelli della natura e dell’attesa. Non più demiurgo della propria esistenza iperattiva ma semplice membro del regno animale. Il dovere nei confronti delle puntuali consegne FedEx lascia inesorabilmente il posto all’unico dovere supremo: consegnare se stesso al futuro, in vista di un ritorno a casa. La sicurezza dell’uomo in carriera cede la strada alla fatalità di chi finalmente ammette con serenità: “… domani il sole sorgerà e chissà la marea cosa potrà portarmi!”. Solo il continuare a respirare dà la conferma del proprio esserci; il battito del cuore è l’orologio – l’unico che conti veramente – di quella nuova esistenza; il ricordo dell’amata con cui ricongiungersi è l’obiettivo da gettare oltre l’ostacolo, per continuare a respirare, per darsi uno scopo in un ambiente naturale che non ha bisogno di scopi, perché è già tutto meravigliosamente programmato da un creatore muto che fornisce risposte innate senza dare alcuna spiegazione complessa.
Anche in quel tipo di “distanziamento sociale” forzato, dopo un iniziale e comprensibile disorientamento dovuto alle abitudini incrostate e all’educazione sociale ricevuta, si va alla ricerca dell’essenziale non legiferato, delle cose utili che servono per sopravvivere; il superfluo, sia quello materiale che quello gestuale, viene scartato come in una sorta di selezione naturale del comportamento e del pensiero. Il protagonista ritrova, suo malgrado, un’animalità sepolta sotto millenni di evoluzione e di “cultura civile”; l’istinto e l’abilità ritornano al potere; la natura umana senza sovrastrutture si mette a dettare le regole da riscrivere; la sopravvivenza richiede una visione lucida e non mediata delle cose e degli eventi. Il bisogno, forse non solo umano, di un interlocutore, è supplito dall’“antropizzazione” casuale di un pallone marca Wilson: il dialogo inesistente ma reale con l’oggetto (è avvenuto lo stesso anche con i primi simboli religiosi?) servirà a confermare le idee già formate nella mente del naufrago e a sviluppare una dialettica con se stessi, unica caratteristica che in quel luogo selvaggio determina ancora la differenza tra uomo e animale. Il contraddittorio – fatto di parole – è il sale del pensiero umano: la sua funzione non è sempre quella di far cambiare idea all’altro (o a noi stessi), ma mira piuttosto a suggellare ciò che è già nebulosamente chiaro in noi.
Il naufragio ha reso Chuck Noland migliore? Questa quarantena – per noi “naufraghi in casa nostra” – a causa della pandemia da Covid-19, è stata solo tempo perso, tempo improduttivo trascorso in una condizione di autoisolamento sociale, inutile per la carriera e per gli affetti, un tempo impossibile da riconvertire in insegnamento interiore? Fosse dipeso da lui, Chuck Noland non avrebbe scelto certamente di precipitare in mare con l’aereo, non avrebbe buttato quattro anni della propria vita su un’isola deserta anche se rigogliosa e bella dal punto di vista naturale, ma sarebbe ritornato dalla sua donna per vivere pienamente e ininterrottamente il proprio ciclo di convinto e maturo Homo technologicus, senza il bisogno di rivalutare il concetto di tempo e il valore di questo nella sua esistenza, senza l’urgenza di lasciarsi educare dalla distanza e dalla conseguente lontananza dal consueto, senza dover imparare ad apprezzare la presenza nell’assenza (dirà al suo ritorno: “Mi rattrista non avere Kelly, ma sono contento che fosse con me su quell’isola!”).
Quindi non sono i fatti in sé a renderci migliori, non gli eventi fortuiti, drammatici, quelli non ricercati, ma le opportunità nascoste in essi, che sappiamo scorgere istintivamente tra le onde degli imprevisti, i venti favorevoli che sappiamo catturare nella tempesta, utili per issare la vela, superare la barriera corallina degli adattamenti e abbandonare un isolamento divenuto pian piano accogliente, caldo, familiare come solo un’abitazione sa essere. Ma per capire tutto questo occorre, ancora una volta, tempo: non quello calcolato e imbottigliato, quello sociale e degli affari, bensì il tempo lasciato libero allo stato brado, il tempo che si dà tempo, il tempo degli orologi interiori che non si vendono da nessuna parte, che abbiamo in noi da sempre e che spesso dimentichiamo di ricaricare. Chuck Noland è partito dall’isola nel momento giusto: né un mese prima, né un mese dopo. I tentativi di forzare i tempi si dimostrano fallimentari, dannosi, scoraggianti; ecco perché non dovrebbe esistere il concetto di perdita di tempo, ma solo quello di tempo della perdita: abbandonare le proprie convinzioni e convenzioni (persino quelle che stabiliamo da soli su un’isola deserta!) quando è giunta l’ora; certe cose avvengono nell’istante esatto in cui è necessario che avvengano, quando i tempi sono maturi, quando riconosciamo l’incrocio giusto presso cui poterci fermare a meditare su quale direzione prendere; quando troviamo la vela adatta alle nostre esigenze. Quando siamo pronti.
Cast away significa letteralmente – mi perdonino gli anglisti – “gettato lontano”, “lanciato lontano da casa”, che rende molto di più, rispetto alla traduzione semplice di naufragato, l’idea di estraniazione, dagli schemi e dalle logiche collaudate, vissuta da chi subisce il naufragio. Si viene allontanati – controvoglia – dal proprio ambiente, dalle abitudini piacevoli, dalla routine, per approdare sull’isola inizialmente ostile dell’inatteso. Alcuni sono più “predisposti al naufragio” perché già allenati a una ricerca di essenzialità; altri vengono sconvolti dagli eventi, dall’interruzione di pratiche rassicuranti e compensatorie, al punto tale da non riuscire a reggere il peso del cambiamento: anche il protagonista di Cast Away lascia sottintendere di avere ipotizzato una exit strategy suicidaria.
Tutti siamo un po’ cast away in questa vita, indipendentemente da pandemie o naufragi propriamente detti: lo eravamo prima di Covid-19, lo siamo ora a causa della quarantena imposta per decreto, e una parte di me spera di continuare a essere cast away anche dopo, quando l’emergenza sarà finita. Non per masochismo o inadeguatezza sociale, ma per continuare a non perdere di vista l’essenza della vita, per non dare per scontato nulla, per abbandonare il superfluo residuo, per continuare a rivalutare le mie priorità e quelle del mondo in cui vivo, per continuare la ricerca di ciò che conta realmente, al di là delle libertà che ci vengono concesse o di quelle che erano già nostre e non abbiamo saputo sfruttare quando era il momento. Per non smettere di essere attento ai venti che cambiano, alle occasioni sane che la marea propone, ai segnali che il creato ci invia costantemente nonostante la nostra distrazione. Per non tornare alla normalità…
Solo così – continuando a respirare come Chuck Noland, lì dove le strade s’incrociano – potrò sperare, un giorno, di essere diventato migliore.
Michele Nigro