24 Marzo 2020

Il teatro è stremato ma lo streaming non è la strada giusta. Al posto di metterci in mostra a tutti i costi, scopriamo la tattica del cinghiale: silenti, immobili, invisibili. L’editoriale di Franco Acquaviva

In questi giorni di blocco forzato i teatranti come stanno reagendo? Manca lo spettacolo, perché tutti i teatri sono stati chiusi, gli attori sono a casa, e che fanno gli attori a casa, oltre a preoccuparsi per progetti e tournée saltate? Bella domanda. Ma sappiamo che spettacolo e teatro non sono la stessa cosa. Infermo per ora lo spettacolo, anche il teatro giace privo di sensi o sta da un’altra parte? Il teatro è la montagna che non va da Maometto e resta lì a misurarsi nei suoi strapiombi e a cantarsi nelle sue dismisure, mentre invece quando si muove verso il Maometto-spettatore, e collassa in spettacolo, spesso si riduce, si accorcia, si minimizza nelle sue estensioni possibili e altre da sé.  E mai come ora la montagna-teatro è lì, ferma, perché ferma è l’attività di “mercato” che le si nebulizza intorno, e si erge, cima segreta che centinaia di rampicanti stanno forse cercando di riguadagnare. Tutto ciò per domandare: questo stop totale, ad onta della perdita economica (che c’è, ed è una disfatta), non potrebbe forse aiutarci a cambiare punto di vista su qualcosa che, giustamente organizzato in tournée, scambi, domande, bandi, amministrazione, recite, forse ha perso un po’ il contatto con un certo suo lato in ombra che potremmo chiamare teatro processuale? Teatro cioè come processo artistico minatore e minatorio? Del resto la “residenzialità produttiva” in questi ultimi dieci anni tanto richiesta, desiderata, imposta o subita sembra sia, ora, all’altezza cronologica di questa emergenza di fine inverno 2020, divenuta tale anche per decreto governativo, stabilmente collocata e identificata, ora e finalmente, con la residenza tout-court, privata, e non ancora provata ma comprovata – come le necessità lavorative in autocertificazione – di ciascun artista. Comprovata residenzialità. Dunque necessità lavorativa, almeno potenziale. Ma non ancora provata.

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Nel provare si materializzano le idee che nell’ideare rimanevano materia di prova potenziale. Questa è poi la dialettica tra scrittura preventiva e scrittura di scena. Come cambia il rapporto tra queste due dimensioni venendo meno la scena? E siamo poi sicuri che il venir meno dello spettatore corrisponda al venir meno della scena? Per approcci come quello dell’“audience engagement” sembrerebbe quasi di sì. Perché lì lo spettatore è terreno di rilevazione statistica come base per l’impostazione di “strategie” di avvicinamento di nuovi pubblici. Va tutto bene, per carità. Ma in tempo di contagio virale? Si sta a casa. Giusto. Eppure “contagio” è una delle parole più in uso tra gli artisti di teatro per significare un’accensione vocazionale estrema, alimentata anche a costo della vita. E a teatro il contagio avviene, come per il virus, per via aerea, o eterea, con scambio di sudore e aliti, non con la pedagogia del “O spettatore dimmi chi sei”, cioè a dire il miraggio dello spettatore attivo da guadagnare al teatro e soprattutto alle tabelle delle presenze, ai rendiconti: sappiamo quanto poco funzioni; e, se funziona, è un caso; il contagio è passato non per vie di protocollo atto a diffonderlo, ma per cantabile ferina povertà di spirito del contagiato.

Poi la pedagogia teatrale, quella seria, è un’altra cosa, sia chiaro. Qui si celiava sul tentativo di stemperare l’arte nella statistica, di formare con le formine degli slogan in inglese e delle sedute di consulenza, lo screening dello “spettatore del tuo teatro”, questuanti questionari quasi questurini, giochini sui social, ashtag: è tutta una “valley of ashes”, per dirla con Fitzgerald…

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Viva le “nuove residenze” artistiche diremo allora. Ma che fare di queste residenze coatte? Quando di quelle “artistiche” imposte, richieste, desiderate o subite poi il destino ultimo era quello di aprirsi allo spettacolo e sacrificare dunque quelle a questo, mentre ora, al contrario, si sacrifica questo a quelle? Cosa cercare insomma in questo spazio cunicolare nel quale ciascuno, nella reclusione, è il buio e la candela insieme?

Tante le risposte. Mi soffermo sulla più eclatante, per ora: quella dello streaming, cioè della trasmissione via web di spettacoli di repertorio, già dovutamente filmati e montati o di interventi più o meno strutturati di singoli artisti per “non perdere contatto con il proprio pubblico”.

Aldilà del fatto che con il proprio pubblico il contatto lo si è già perso, dal momento che nello specifico teatrale esso può avvenire solo in un determinato modo, sembra che questa specie di ansia di non scomparire abbia dato luogo a una sorta di corsa affannata allo streaming, appunto, con il rischio che questa diventi sì una corsa ma allo stremo, allo stremo soprattutto per il malcapitato spettatore, che da casa si vede proporre decine e decine di “incontri” teatrali. E se l’orizzonte del web è sempre più e sempre più sarà quello di un’offerta che deve via via occupare tutti gli spazi fino alla pervasività totale, arriveremo forse al banner occhieggiante che invita a incontri con l’attore/attrice del momento, Shakespeare o Dante terzi incomodi? Come se il web-teatro, come accade per la pornografia, potesse sostituire l’atto-in-scena, il pas de deux con lo spettatore, che si andrà poi a recuperare col proprio atto individuale compensatorio. Ma dopo una seduta in streaming con l’attore-attrice del momento quale atto di segreto piacere individuale si andrà poi ad esaudire? Forse si andranno a compulsare i testi che si è ascoltato nella diretta o nel podcast? Sarebbe già un bel guadagno, ma è più probabile che si ritenga più intrigante passare direttamente a Pornhub, azienda che si è distinta per un cert’atto di presenza in questa crisi, se è vero che in Italia ha aperto l’accesso al canale Premium anche ai non abbonati per dare una mano, è proprio il caso di dirlo, agli italiani chiusi in casa…

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Nel dibattito che poi si è sviluppato su Facebook fra gli operatori (streaming sì, streaming no), tra cadute nell’impulsivo con (usuale?) bordatina polemicuccia contro gli intellettuali che hanno sempre da ridire o evasioni nella battuta (ma mica tanto evasioni, ché alle volte le battute dei teatranti, come gli aforismi di Karl Kraus, sono “mezze verità” o “verità e mezzo”), qualcuno per fortuna si dà la briga di inanellare argomenti. Tra tutti, diremmo, spicca per onestà intellettuale e pacato tono il punto di vista di Assemblea Teatro e del suo direttore e regista Renzo Sicco, che mira a distinguere lo specifico del teatro da quello televisivo – in un’argomentazione certo non nuova, ma per nulla invecchiata anche in tempi di internet – dove la specificità teatrale sarebbe poi quella che crea “fili invisibili di relazione tra chi fa e chi vede, tra chi parla e chi ascolta”. Mentre “se guardi un televisore o un monitor ti puoi alzare e andare in cucina a bere un bicchiere di latte oppure puoi rispondere al telefono, chi è sullo schermo va avanti come se nulla fosse, non ne risente”.

E se la tivù in passato di teatro ne ha trasmesso, però è anche vero che “doveva essere ripreso proprio coi tempi della televisione, ed era quella però una scelta educativa, per ampliare le conoscenze di chi (a teatro) non ci poteva andare”. Infine si conviene sul fatto che la ripresa video rimane comunque un modo importante per documentare l’evento dello spettacolo e tramandarne la memoria.

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E poi forse sarà da considerare un altro fatto: un attore ha veramente bisogno di fare qualcosa “a favore” di pubblico? Sicuri che non possa farne a meno? Eppure alcuni grandi maestri del secolo scorso, avevano fatto del rapporto con lo spettatore un’occasione ben più parca e quasi pudica. Forse recuperare quella dimensione, quella della ricerca su di sé, non sarebbe male, dato il momento. Senza contare che forse il massimo della poesia a teatro si ha quando l’attore si ritrova da solo nella sala deserta. Immagine sempre potente, dove la funzionalità della sala scompare, e ne rimane solo l’aura, dove si emblematizza l’assenza nella figura di una presenza che assomma in sé tutte le presenze possibili e le annulla; puro spazio ossimorico, dove l’attore tende a un altrove non potendo tendere alla platea. Forse l’arte verticale, o l’“arte come veicolo”.  Chi ha letto “Cinghiali al limite del bosco” di Giuliano Scabia, testo teatrale della metà degli anni ’80, antologizzato, insieme ad altri piccoli capolavori in quel libro aureo che è “Teatro con bosco e animali”, se lo ricorderà: l’unica arma in possesso dei cinghiali per scampare al colpo assassino dei cacciatori è quella dell’immobilità silente: così si diventa invisibili e si sfugge ai cacciatori. Ma si va da qualche parte e dove, abitando quella “zona”?

Daniel Lumera, ricercatore e meditatore, introduce la differenza tra “stare fermi” e “essere fermi”: nello “stare fermi” aleggia come il sospetto di un’imposizione: “stai fermo” in fondo è il tipico comando che si dà ai bambini irrequieti. Ma “sii fermo”, ammesso che si possa dare un’ingiunzione del genere, si riferisce a un’altra cosa: essere fermi significa che si può andare al fondo di questa immobilità, esplorarla, trovando un altro movimento, un movimento dell’interiorità. Forse questo è un momento buono per cominciare a farlo.

Franco Acquaviva

Gruppo MAGOG