Un secolo fa, alla Conferenza di Pace di Parigi, lo scornato non fu soltanto Gabriele D’Annunzio, che in seguito si decise a prendere Fiume. Prima di lui, spirito simile, diversa attitudine verso la vita, altra statura letteraria, un altro aveva preso città, che a nominarle si pietrificano i millenni – Akaba, Wejh, Damasco, Gerusalemme –, e pretendeva, ora, “l’indipendenza dell’Arabia”. Nessuno, allora, conosceva quel “misterioso ‘T.E. Lawrence’, individuo non bene identificato, che battagliava con gli arabi, vestiva all’indigena, e rifiutava gli onori e le uniformi ufficiali”. A farne un mito, però, proprio un secolo fa – leggenda buona a mungere le pretese anglosassoni sul Medio Oriente e per mettere fumo intorno a una feroce attività ‘diplomatica’ – fu lo spregiudicato giornalista Lowell Thomas. Atterrato sul fronte orientale nel 1918, arso dalla noia meridiana del deserto, trovò in Lawrence il ‘personaggio’ adatto da dare in pasto al pubblico. Lo fotografò addobbato, come suo modo, alla moda indigena, girò una manciata di film, azzeccò l’epiteto, Lawrence d’Arabia – oppure, più enfatico, “Principe della Mecca”. Nacque il mito – T. E. non gliela perdonò: avvicinato a Winston Churchill nel 1920 disse che l’americano era “un tizio spregevole”. Bello, inquieto, con il culto del sole e della morte, Lawrence fece di tutto per distruggersi.
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In cima ai Sette pilastri della saggezza, opera mastodontica, un capodoglio narrativo, dal fascino rugginoso, c’è una poesia di T.E. Lawrence. Mi affascina la versione di Cristina Campo, realizzata “probabilmente intorno al 1956, quando la Campo scriveva su Lawrence per la Rai”.
Io ti amavo, e così trassi queste maree d’uomini nelle mie mani
e scrissi il mio volere in stelle traverso il cielo
Per conquistarti la Libertà, la splendida casa dai sette pilastri,
che i tuoi occhi scintillassero per me
al nostro giungere.
Morte parve il mio servo lungo tutta la via, finché
Fummo vicini e ti vedemmo in attesa:
quando tu sorridesti; e in dolorosa invidia mi percorse
e ti trasse in disparte nella sua quiete.
Amore, l’affaticato, brancolò sul tuo corpo,
la nostra breve paga per un attimo nostra,
prima che la mano morbida della terra esplorasse
la tua forma e i ciechi vermi impinguassero della tua sostanza.
Gli uomini mi pregarono che io compissi l’opera nostra,
la casa inviolata, in memoria di te
ma degno monumento io la sparsi incompiuta:
e ora i piccoli esseri strisciano fuori
a rappezzarsi stamberghe, nell’ombra sfigurata del tuo dono.
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Il titolo di quel libro, tratto dai Proverbi biblici, mi parve uno scrigno; la poesia l’esito verbale di un uomo famelico di assoluto. Come Gauguin era andato a perdersi nel Pacifico per trovare la propria quota pittorica, così Lawrence, introdotto dall’archeologia all’intelligence dal direttore dell’Ashmolean Museum, D. G. Hogarth, allo stesso tempo anarchico e afflitto dal desiderio di obbedire, sarchiò l’Arabia per trovare i brandelli della sua anima. “Per anni vivemmo in promiscuità nel deserto nudo, sotto un cielo indifferente… Eravamo un esercito centro a se stesso, senza parate né passi d’obbligo, consacrato alla Libertà”. Al di là dell’iperbolico film di David Lean, era il 1962, furono sette Oscar, i volti immortali di Peter O’Toole e Alec Guinness, resiste l’epica di “Lawrence d’Arabia” (il recente articolo di “Smithsonian.com” evoca “l’eredità del Lawrence d’Arabia americano”, l’archeologo Wendell Phillips). Ora Bompiani rimette in orbita I sette pilastri della saggezza per la cura di Fabrizio Bagatti.
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Un secolo fa, maggio 1919, Lawrence fa scalo a Roma, deve giungere al Cairo. Il suo aereo riparte, non si vede nulla, si ribalta – muoiono in due, Lawrence è ferito. La popolarità di T. E. si misura dal tempismo di Vittorio Emanuele III che gli fa visita, per sincerarsi delle sue condizioni. In effetti, pure editorialmente, Lawrence ‘atterra’ rapidamente in Italia. Nel 1929 è Arrigo Cajumi a introdurre per Mondadori La rivolta nel deserto, compendio, sunto lawrenciano, volo di falco intorno ai “Pilastri”. “La rivolta nel deserto è, sovra ogni altra cosa, un grande libro d’arte e di vita… Schietto, duro, virile. Uno stilista rabbrividirebbe dinanzi al periodo complicato, irto, contorto; al modo di procedere nella narrazione come in un giornale di bordo… è l’avventura dell’intelligenza alle prese con la materia bruta”.
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L’altro è Erich Linder, nato a Leopoli, lo zar degli agenti letterari (“Nel periodo di più intensa attività Linder si trovò infatti a gestire più di ottomila autori tra i quali si possono ricordare gli italiani: Alberoni, Arbasino, Bacchelli, Bassani,Benedetti, Bettiza, Bevilacqua, Biagi, Brera, Buzzati, Cancogni, Croce, Calvino, Del Buono, De Pisis, Eco, Emanuelli, Fenoglio, Flaiano, Gorresio, Granzotto, Malerba, Marinetti, Monelli, Montanelli, Morante, Ottieri, Parise, Piersanti, Piovene, Quarantotti Gambini, Lalla Romano, Sciascia, Soavi, Soldati, Tamburini, Terra, Tucci, Vittorini e gli stranieri: Bellow, Boll, Brecht, Caldwell, Ceram, Chandler, Chesterton, Agatha Christie, Lawrence Durrell, Frisch, Kafka, Joyce, Cronin, Konrad Lorenz, Mann, Ellery Queen, Von Rezzori, Mann, Musil, Nabokov, Patrick Quentin, Ayn Rand, Salinger, Segal, Singer, Steinbeck, Rex Stout, Updike, Waugh”). A 25 anni traduce per Bompiani I sette pilatri della saggezza. Era il 1949. Nell’edizione del 1974 spicca il saggio di Nemi D’Agostino: “Fu un individualista in difficoltà, un ‘essere estetico’ che a qualsiasi destino, compreso il proprio, avrebbe preferito quello di un Dostoevskij o di un Melville, e che il fato rigettò nel mondo dell’azione. In questo mondo Lawrence riuscì disperatamente, è la parola, a farsi un’identità, sia pure a prezzo di crisi di misantropia, di disprezzo per la felicità del vero uomo d’azione, e di desideri lancinanti di solitudine, di rinuncia… Il suo vero protagonista è il cavaliere errante con la colpa oscura da cui deve riscattarsi. Egli va a aiutare i deboli, e compiuta la sua impresa sparisce”. Come non preferire Lawrence ai mestatori parlamentari, agli ipocriti elettorali, ai potenti col ciuffo biondo o il partito a mo’ di micio sul costato, di oggi?
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T. E. Lawrence affascina perché è sfrenato, ambiguo. André Malraux vide in lui l’eroe per antonomasia, morso dal “demone dell’assoluto” di cui anche il francese subiva la fame, le zanne, l’avidità. “Lawrence è un uomo disaccordato al mondo, fuori dal tempo. La legge del deserto non è che l’eterno rifiuto di tutto ciò che porta gli uomini ad accordarsi con il mondo, non è che il disprezzo verso le mille forme del demonio che il parassita della metropoli chiama felicità”. Victoria Ocampo, fondatrice di “Sur”, promotrice dell’opera di Borges, scrisse due libri su Lawrence – anelando i deserti e le lotte ideali più che le biblioteche labirintiche borghesiane – 338171 T.E. (1942) e Lawrence de Arabia y otros ensayos (1951). Istituì strane affinità tra Lawrence e Gandhi: “Ateo uno, credente l’altro… entrambi erano convinti che solo l’energia spirituale fa miracoli. Entrambi vissero fino alla morte prestando fede al proprio ideale”. L’edizione Bompiani dei “Pilastri” del 1963 reca un saggio di E.M. Forster. “T.E. era una persona difficile, e nessuno che l’abbia conosciuto bene si arrischierebbe a dare un giudizio conclusivo sulla sua figura. Una cosa è certa: possedeva le tre virtù eroiche del coraggio, della generosità e della compassione”.
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L’incipit del saggio di Forster offre lo spunto per il tema capitale: “L’ometto simpatico cui è stato affibbiato, per l’eternità, il nome di Lawrence di Arabia, detestava quel titolo. Spesso egli chiedeva agli amici di chiamarlo semplicemente T.E.”. Di Lawrence mi affascina la questione del nome, contro cui lotta per tutta la vita. Il padre di Lawrence, in verità, si chiamava Thomas Robert Tighe Chapman, “ultimo baronetto di una famiglia di proprietari terrieri angloirlandesi e anglicani, aveva lasciato la famiglia per convivere con la governante delle figlie, Sarah Junner”. Il fatto fece scandalo: lui e lei furono costretti a cambiare nome. Lui si disse Thomas Robert “Lawrence”, lei Sarah “Maden”. “Il cambio dei nomi indica che il loro era considerato un ‘segreto’ infame della mentalità vittoriana”. Il cognome Lawrence non esiste, è frutto di tradimento. Immaginatevi: crescere indossando un nome che è segno di una colpa, un nome come lettera scarlatta. Quando Lawrence, nel 1919, diventa “Lawrence d’Arabia”, il padre muore.
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Continuerà a fuggire il proprio nome, trafugandolo, trafiggendolo. Negli anni, dal 1919, in cui piglia a scrivere I Sette pilastri della Saggezza, Lawrence, come si sa, trafuga la fama. E muta continuamente identità. Nel 1922 si arruola nella Raf come John Hume Ross, ma viene espulso l’anno dopo, dopo che la sua vera identità è stata scoperta. Lo stesso anno entra nel Royal Tank Corps come T.E. Shaw. In ogni situazione, si impegna in ruoli inferiori: come aviere prima, come carrista poi. Muore, nel 1935, in un incidente, in motocicletta. “Man mano che cresce l’attaccamento all’Arma, ci spogliamo della nostra personalità”, scrive Lawrence nel postumo Lo stampo, che racconta i mesi alla Raf. L’esercito come il deserto, come una Chiesa e una fuga; appartenere a qualcosa che disintegri. Scartavetrare il nome era il compito mistico di T.E. (d.b.)
*In copertina: T. E. Lawrence nel 1928; National Portrait Gallery