29 Aprile 2019

“I poeti sono tutti narcisi, preferisco frequentare avvocati, dottori, levatrici”: Sylvia Plath, l’intervista

Ci siamo già occupati della coppia poetica più dura & pura del Novecento: Sylvia Plath e Ted Hughes. Motivo in più per parlarne ancora. Proponiamo un’intervista a Sylvia Plath, risale al 1962 e fu condotta da Peter Orr, del British Council. L’intervista è andata in onda radio, per la BBC, poi accolta in volume, apparsa in The Poet Speaks: Interviews with Contemporary Poets stampato a Londra nel ’66. Attualmente è custodita, in forma scritta, nell’archivio digitale dell’English Departmente dell’University of Illinois. Le date sono importanti. L’intervista fu registrata il 30 ottobre del 1962. Questa è una delle ultime testimonianze della Plath, che si uccide nel febbraio del 1963. Per l’editore Faber and Faber, è appena pubblico un volume, Poems, che raccoglie una scelta di poesie della Plath a cura del ‘Poet Laureate’ Carol Ann Duffy. A testimonianza che la Plath è oggi una icona della poesia, anche in ambito editoriale. (a.b.)

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Sylvia, cosa ti ha indotto a fare poesia?

PLATH: Cosa mi ha indotto non saprei, ho soltanto scritto da quando ero abbastanza piccola. Immagino mi piacessero le rime della balia. Scrissi la mia prima poesia, la vera prima poesia pubblicata, quando avevo poco più di otto anni. Uscì sul The Boston Traveller e da allora, si presume, sono diventata un filo più professionale.

Su che genere di argomenti scrivevi quando hai inizato?

Sulla natura, penso: uccelli, api, primavera, tutti argomenti che sono doni assoluti al soggetto che non abbia esperienze interiori sulle quali scrivere. Penso che la primavera in arrivo, le stelle sopra la testa, la prima nevicata e via così siano doni per un bambino, per un poeta giovane.

Ora, saltando gli anni, puoi dire che esistono alcuni temi in particolare che ti attraggano come poeta, cose sulle quali senti scriveresti ancora?

Forse questa è una storia Americana: sono scossa e commossa da quel modo nuovo che si è espresso con Life Studies di Robert Lowell, una rottura intensa che apre un’esperienza molto seria, molto personale, emotiva, che è stato in parte un tabù. Le poesie di Robert Lowell sull’esperienza in un ospedale psichiatrico, per esempio, mi hanno incuriosita. Questi argomenti speciali, privati e vietati sento che sono stati esplorati nella poesia nordamericana recente. Penso in particolare alla poetessa Anne Sexton che scrive sull’essere madre, una madre che ha avuto un crollo nervoso, una donna decisamente emotiva e sensibile le cui poesie sono meravigliosamente artigianali – pure, hanno una sorta di profondità emotiva e psicologica che ritengo sia abbastanza nuova ed esaltante

Ora tu, come poeta, e come persona che sta a cavalcioni sull’Atlantico, se posso metterla così, essendo tu stessa una nordamericana…

Una posizione piuttosto imbarazzante, ma te la passo!

…da che lato pendi di più, se posso rimanere nella metafora?

Bene, penso che finché parliamo di linguaggio sono una nordamericana, temo, come lo è il mio accento, il mio modo di condurre una conversazione, e poi una nordamericana vecchio stile. Eccoti un motivo per il quale ora sto in Inghilterra e sempre ci rimarrò. Riguardo alle mie preferenze, devi risalire di mezzo secolo e ti confesso che i poeti che mi esaltano di più sono appunto nordamericani. Tra i contemporanei inglesi ne ammiro davvero pochi.

Questo significa che ritieni che la poesia inglese sia rimasta indietro rispetto a quella nordamericana?

No, penso che sia come una camicia un tantino troppo stretta, se posso dire così. C’era questo saggio di Alvarez, un critico inglese: i suoi argomenti sui rischi del modo inglese di essere gentili sono molto pertinenti, molto veri. Devo dire di non essere gentile da parte mia e avverto che la gentilezza è come una graziosa stretta alla gola, una meravigliosa disciplina, la quale è evidente ovunque in Inghilterra e forse è più pericolosa di quanto appare in superficie.

Ma non pensi che ci sia questo traffico dei poeti inglesi che stanno lavorando sotto tutto il peso di qualcosa che si scrive in maiuscole come ‘Letteratura Inglese’?

Sì, non potevi dirlo meglio, lo so da quando ero a Cambridge. Delle giovani ragazze venivano da me e mi dicevano ‘Come osi scrivere, come osi pubblicare una poesia, a causa della Critica, della terribile Critica che piomba su chiunque pubblichi?’. E la Critica non riguarda la poesia come poesia. Ricordo di essere stata atterrita quando qualcuno mi criticava perché iniziavo al modo di John Donne, ma poi non finivo in quella maniera metafisica, e sentii subito tutto il peso della letteratura inglese. Penso che tutta l’enfasi in Inghilterra, nelle sue università, sulla Critica pratica (e non tanto storica, quella che ti dice subito da che secolo un verso è tratto) – questo paralizza tutto quanto. Negli States, in quelle università, che si legge? T. S. Eliot, Dylan Thomas, Yeats, si parte da lì. Shakespeare resta sul fondale. Non sono certa che sia giustissimo, ma va bene per un poeta giovane, quello che scrive, e non lo spaventa andare all’università. Tutto il contrario nelle università brit.

Sylvia, tu dici di considerarti nordamericana, ma se ascoltiamo una poesia come ‘Daddy’ che dice di Dachau e Auschwitz e Mein Kampf, abbiamo la sensazione che un vero nordamericano non avrebbe scritto cose simili, perché questi nomi non significano molto dall’altra sponda atlantica. Dimmi.

Bene! Ora ti stai rivolgendo a me come una nordamericana qualsiasi. Ma il mio background particolare è, se posso dire così, tedesco e austriaco. Da un lato sono americana di prima generazione, dall’altro di seconda generazione e così la mia preoccupazione per i campi di concentramento è unicamente intensa. E poi, di nuovo, sono una testa altrettanto politica, quindi immagino arrivi tutto da qui.

E in quanto poeta tu hai un senso storico grande, profondo

Non sono una storica ma trovo che mi affascina sempre più tutto ciò e mi capita di leggere sempre più libri di storia: ad esempio Napoleone, ora: battaglie, guerre, Gallipoli, prima Guerra mondiale e via così e mi pare che più vado avanti negli anni e più la cosa si approfondisce. Intorno ai vent’anni non ero mica così.

Quindi le tue poesie ora escono più da altre parole scritte, invece che dalla tua propria vita?

No, no: non lo direi proprio. Penso che le mie poesie vengano fuori immediatamente dalle mie esperienze emotive, ma devo dirti che non riesco a provare simpatia per le grida del cuore istigate soltanto da puntine d’aghi o coltelli o simili. Credo che si debba essere capaci di controllare e manipolare le esperienze, anche le più terribili come pazzia, tortura, cose simili, e poi ritoccare tutto questo con la testa, le sue informazioni, la sua intelligenza. Penso che l’esperienza personale sia molto importante, ma sicuramente non dovrebbe essere del tipo pacco regalo e immagine riflessa nello specchio, robe narcisiste. Credo dovrebbe essere rivelativa e rilevante per cose più larghe, più grandi, come Hiroshima e Dachau. Mi segui?

Quindi dietro la reazione primitiva ed emotive ci dev’essere una disciplina intellettuale.

Lo avverto molto profondamente: sono stata in parte frollata dall’accademia, tentata dall’invito a rimanere nel bozzolo del perdente di un Ph.D., poi magari il bozzolo avrebbe tirato fuori un professore o una farfalla o un’altra creatura – un lato di me certamente rispetta ogni disciplina. Finché questa non ti strappa la pelle e ti lascia solo le ossa.

E degli scrittori che ti influenzarono, chi di loro ha significato tanto per te?

Difficile rintracciarli tutti. Al College ero sbalordita e scossa dai moderni, da Dylan Thomas, da Yeats, persino da Auden: a un certo punto il vecchio Wystan mi fece impazzire d’amore e ogni cosa che scrivevo era disperatamente alla maniera di Auden. Ora di nuovo mi volgo indietro, incomincio con Blake, per esempio. E poi certo, è presunzione dire che uno è influenzato da gente come Shakespeare: uno lo legge, tutto qui.

Sylvia, leggendo le tue poesie e ascoltandole si avvertono due qualità che emergono subito e chiaramente: lucidità, ma questa ha a che vedere con l’altra, l’impatto sul lettore. Ora. Concepisci le tue poesie in modo premeditato perché siano insieme lucide ed efficaci per quando saranno lette a voce alta?

Questo non avveniva nelle mie prime poesie, per esempio nel primo libro, Il colosso. Di quelle poesie nessuna regge se letta a voce alta, non le scrissi perché fossero declamate. Infatti quelle poesie, in modo abbastanza privato, mi annoiano. Quelle che ho letto ultimamente sono le più recenti, e devo dirle, dirle in lingua a me stessa, e questo sviluppo è nuovo anche per me, e se sono lucide questo viene de dal fatto che le dico a me stessa. A voce alta.

E questo è l’ingrediente fondamentale per una buona poesia?

Lo sento così adesso e poi questa idea di registrare le poesie, leggerle in sedute pubbliche, registrare altri poeti, credo sia meravigliosa. Mi esalta! In un certo senso è come un ritorno, non trovi? Un ritorno all’antico ruolo del poeta che deve parlare a un’adunata, attraversarla.

E magari cantare alla testa del gruppo?

E per il gruppo, giustissimo.

Lasciando la poesia per un momento, ci sono altre cose su cui ti piacerebbe scrivere? Magari l’hai fatto e non lo sappiamo?

La prosa mi affascina sempre. Appena maggiorenne pubblicai alcune storie brevi e volli sempre allungare la distanza, volevo arrivare a comporre un romanzo! Ora che ho raggiunto un’età rispettabile, se si può dire, e ho avuto alcune esperienze, sento di essere attratta di più dal romanzo e dalla sua prosa: solo qui, per esempio, puoi vestire tutte le vesti ben spazzolate, tutti gli agghindamenti della nostra vita sacra e quotidiana, e questo è difficile da mettere in poesia: la poesia che sento ormai come una disciplina tirannica, ti porta così lontano, così rapidamente, in un posto troppo piccolo dove non puoi indossare vesti pregiate: e mi mancano! Sono donna, amo le mie divinità domestiche, le mie dee personali, anche gli aspetti triviali, e vedo che in un romanzo posso entrare meglio nella vita, magari non sarà intensa, ma certo hai qualcosa della vita e così il risultato è che il romanzo mi ha catturato.

Sembri il Dr. Johnson! Quando diceva ‘Ci sono alcune cose che si adattano a essere incluse nella poesia e altre cose che non vi rientrano’. Lo diceva lui, giusto?

Va bene, ma come poeta ti dico pfui! Direi che ogni cosa deve essere in grado di entrare in poesia, ma non posso includere poi gli spazzolini, davvero!

E gli altri scrittori li frequenti? E i poeti?

Preferisco semmai i dottori, le levatrici, gli avvocati, tutto tranne gli scrittori. Sono tutti narcisi, come gli artisti. Non dovrei dirlo, molti li apprezzo, in effetti molti dei miei amici sono casualmente proprio scrittori e artisti. Ma devo anche dire che quel che ammiro di più è una persona che padroneggia una sua area di esperienza pratica e può insegnarmi qualcosa. Dico. La levatrice del quartiere in cui vivo mi ha istruito su come allevare api: bene, non potrebbe capire nulla di quel che vado scrivendo. Però mi trovo ammaliata quando mi parla, più che fosse poeta. E tra i miei amici c’è gente che sa tutto di imbarcazioni e di sport semisconosciuti, e magari altri che sanno aprire un corpo e rimuovere un organo. Mi affascina quest’arte da padroni della vita pratica: come poeta, si vive sempre un po’ d’aria. Quindi amo chi sa insegnarmi cose pratiche.

C’è altro che avresti fatto, oltre a scrivere poesia? Perché questo ti prende molto della tua vita privata, è chiaro, se uno ha successo va così. Hai mai indugiato sui rimpianti per non aver fatto altro?

Penso ti direi: dottoressa – è quel genere di opposizione polare a essere scrittore. Immagino… I miei amici più vicini nell’infanzia sono tutti diventati dottori. E io allora mi sarei messa un elmetto bianco di garza e sarei andata intorno a vedere neonati e cadaveri tagliati aperti nelle corsie d’ospedale. Mi attraeva l’insieme, ma non sono riuscita a darmi una disciplina al punto da imparare quei dettagli necessari per diventare un bravo dottore. Qui sta l’opposizione: qualcuno che incontra vere esperienze umane, in grado di curare, rammendare, aiutare. Immagino di avere nostalgia di questo passato mai accaduto però mi consolo pensando ai tanti dottori che conosco. E dovrei dire, forse, che sono più felice scrivendo di dottori che facendo la dottoressa.

In definitiva scrivere poesie è stata una grande soddisfazione per te, è così?

Ah, la soddisfazione! Penso che non vivrei senza di lei. È come l’acqua e il pane, qualcosa assolutamente essenziale per me, mi sento tutta ripiena dopo aver scritto una poesia, e quando ne compongo. Quando ne hai conclusa una incominci a cadere – da essere stato poeta a quella specie di poeta a riposo, e non è mica la stessa cosa. Ma penso che l’esperienza attuale di scrivere poesia sia di quelle magnifiche.

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