11 Ottobre 2019

“Scrivo per scoprire l’animale che ho dentro, per accettare l’incertezza”: il nuovo libro di Sylvain Tesson, alla ricerca del leopardo delle nevi

La letteratura ‘di viaggio’ non esiste – la letteratura è sempre un viaggio, altrimenti, meglio tramutare i verbi – la verbosità con cui diamo assoluzione alla nostra pigrizia, giustifichiamo i frustrati – in intenzioni e partire.

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Chi legge libri come un viaggio – io! – o è un ozioso sedentario, o è un uomo che alterna la fuga alla pazienza.

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Sapevamo viaggiare, i narratori italiani dico, dal Ramusio ai frugali resoconti del Seicento, fino alle fiction di Salgari e di Vittorio G. Rossi. Oggi in pochi (quasi tutti son reclusi nello studiolo sociologico del proprio ego) s’azzardano al viaggio e si danno alla ‘letteratura di viaggio’, sigla di serie B. Eppure, gli esteti restano: Paolo Rumiz, Davide Sapienza, Enrico Brizzi (passato dal romanzo al reportage); Gianluca Barbera ha dato al romanzo foggia viaggiante.

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Nel mondo anglofono detta norma Bruce Chatwin, che dice di provenire da Robert Byron, ma il più sagace di tutti è Patrick Leigh Fermor. Solo che gli inglesi, sempre, guardano dall’alto in basso, da Crusoe che possono rifare Londra – e i club – su qualsiasi isola deserta.

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Taglio corto. Sylvain Tesson ha preso gli occhi degli avi francesi che sondavano la Persia, le labbra da quelli che favellavano d’Indocina. Insomma, Nelle foreste siberiane – intelligentemente tradotto da Sellerio, insieme ad altri testi dell’autore, pubblicato da Gallimard nel 2011, Prix Médicins Essai (vinto, tra gli altri, da René Girard, da Joan Didion, da Svetlana Alexievitch) – mi è piaciuto, al netto di certi francesismi (ergo: esibire l’individualità vampira nella taiga). Figlio di Philippe – giornalista di peso, fondatore de “Le Quotidien de Paris” – Sylvain Tesson ha il genio dell’avventuriero (tra le imprese: ha attraversato l’Islanda in bicicletta, è stato in Borneo per una spedizione speleologica, ha fatto 5mila chilometri a piedi tra Buthan e Tagikistan, ha abitato in Pakistan e Afghanistan al seguito di una missione archeologica…) e il talento dello scrittore. Due pregi che valgono, narrativamente, oro.

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Ha pubblicato tanto, Tesson, risvegliando il mito del Wanderer, l’escursionista meravigliato, incantatore poetico (vedi Hölderlin e la sua grecità mentale). In Italia i suoi libri sono editi da Sellerio, per Rizzoli ha pubblicato Un’estate con Omero, ora, con Gallimard, ha appena pubblicato l’ultimo libro, La panthère des neiges. Il leopardo delle nevi. Il brandello è seduttivo: “C’è un animale, in Tibet, che inseguo da sei anni, mi disse Munier. Vive sugli altopiani. Ci vogliono lunghi appostamenti per vederlo. Torno quest’inverno, ce la farò. Di chi parli?, gli chiesi. Il leopardo delle nevi. Gli dissi che pensavo fosse estinto. È quello che ti fa credere, mi rispose”.

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Il leopardo delle nevi è il titolo di un super classico della ‘narrativa di viaggio’. Lo ha scritto Peter Matthiessen quarant’anni fa, pubblicato da Mondadori poi da Neri Pozza ora è in edizione Beat. Il viaggio coincide anche con un percorso filosofico nei recessi della religione tibetana.

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“L’avevo incontrato una Pasqua, durante la proiezione del suo film sul lupo d’Abissinia. Mi aveva parlato dell’elusività degli animali, di quella virtù suprema: la pazienza. Mi aveva raccontato in dettaglio la sua vita come fotografo di animali, le tecniche dell’attesa. Arte fragile e raffinata quella di mimetizzarsi nella natura, aspettando una bestia, che forse arriverà. Di solito, l’osservazione finisce in un nulla di fatto. Questa accettazione dell’incertezza mi sembrava molto nobile, quindi antimoderna”. Queste sono le prime righe dell’ultimo libro di Tesson. Come (quasi) sempre, lo scrittore si mette al seguito di chi ne sa di più. In questo caso, va ad Est con Vincent Munier, fotografo francese, tra i grandi nel lavoro in zone selvagge. In attesa (appunto) che il suo libro approdi in Italia, una intervista. (d.b.)

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Dicci del leopardo delle nevi.

Sappiamo poco e male. Ne restano circa 5mila esemplari in zone inaccessibili, dal Pamir all’Himalaya orientale e dall’Altaï al Nepal. È un animale adatto ad altitudini molto elevate: le sue tracce sono state trovate anche a 6mila metri. Ma una delle ragioni principali per cui è una specie poco nota è che è molto difficile da avvistare: ha abilità mimetiche tali da poterti passare a dieci metri di distanza senza che tu te ne accorga. È pesante, massiccio, si ciba di prede molto agili: compensa la sua relativa lentezza con un camuffamento che gli permette l’effetto sorpresa e lo scatto necessario alla caccia.

Nella prefazione racconti il tuo legame con il fotografo Vincent Munier…

Tra i motivi che mi hanno portato a seguire Munier c’è la ricerca della parte animale di noi stessi, da cui ci siamo allontanati troppo. Questa distanza ha il nome della nostra vita, si chiama cultura, linguaggio. Inoltre, Munier mi ha proposto di stare nella natura in un modo per me finora inedito, praticando l’arte dell’attesa: immobilità, occultamento, silenzio. Un’arte di integrazione con la natura e di dissoluzione del sé, quasi.

Come è possibile praticare l’attesa in regioni dove il gelo è pungente?

Totale abnegazione di fronte alla sofferenza inevitabile per adempiere al proprio progetto. Questo mi importava. Che significa: l’obbiettivo mentale che ci prefiggiamo – in questo caso, osservare un animale – ci fa dimenticare tutto il resto. Occorre gestire il corpo, inchinarlo al desiderio. Vincent Munier sa che l’animale, infine, arriverò, che la ricompensa è plausibile. E attende.

Quindi: perché si attende?

Per vivere il sentimento sacro che ti trasmette la vista del leopardo delle nevi. Non è un pensiero magico né sciamanesimo da show, il mio, ma sottolineare, semplicemente, le virtù della pazienza. Ho capito che tra la speranza che qualcosa accada e il momento in cui accade c’è un intervallo pieno di pensieri insospettabili e inattesi, che non arrivano se non si attende. L’attesa è antimoderna nella misura in cui ci riporta a ciò che le nostre vite moderne, iperattive, caotiche, casuali, condannate all’immediatezza, ci sottraggono. Ci costringe a considerare l’ipotesi che ciò che attendiamo, pur dopo molto tempo, potrebbe non arrivare mai. L’attesa ci fa ragionare sul fatto che ogni impresa è anche il suo fallimento.

*In copertina: Sylvain Tesson; in Italia i suoi libri sono tradotti da Sellerio e Rizzoli

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