27 Settembre 2018

Storia fiera e triste di Filippo II, che si sposò quattro volte (e fu quattro volte vedovo) diventando il più potente sovrano del mondo

Piacerà ai cultori delle biografie di impronta tradizionale, quelle che dedicano ampio spazio alle genealogie dei regnanti e alla loro vita familiare, nei suoi riflessi politici, il Filippo II di Angelantonio Spagnoletti (Salerno editrice, 373 p., 24 euro).

Personalmente, ho una certa propensione per i personaggi che godono di una fama un po’ fosca, specialmente se eredi di un colosso che la Storia ha collocato in primissimo piano: non mi incuriosisce Augusto – personaggio comunque tutt’altro che apollineo – ma Tiberio, ombroso e tetro, forse mai pienamente amato dal suo patrigno, arrivato al trono dopo la morte di tutta una serie di eredi designati prima di lui. E così non suscita il mio interesse Carlo V, ma il figlio Filippo II, che per tanti motivi è accompagnato in Italia da una fosca fama: per prima cosa, è ancora vivo il topos del “malgoverno spagnolo”; e poi, non dimentichiamo l’immagine, romanzesca e immaginosa, ma di facile presa e difficilmente eradicabile, che del sovrano ci ha dato il Don Carlos verdiano.

Salazar de Mendoza celebrò in Filippo il più potente principe del mondo; e Campanella scrisse che nessuno avrebbe mai potuto calcolare l’estensione della monarchia ispanica ai suoi tempi. Eppure, nel sentire comune, Filippo II è stato oscurato dalla grandezza del padre, Carlo V, e anche dal fratellastro, Don Giovanni d’Austria, vincitore di Lepanto.

Che cos’è la verità?, chiedeva Ponzio Pilato a Gesù, ma soprattutto a se stesso (Gv 18, 38), e che cos’era si chiedeva anche Antonio de Herrera y Tordesillas nella seconda parte della sua Historia general del mundo (p. 152). Se il prefetto della Giudea esprimeva un dubbio, de Herrera si sente di dare una risposta a questa domanda affermando: “La verità è una conferma di ciò che è certo e il rifiuto di ciò che non lo è, ordinata per mostrare la cosa come avviene, e chi si serve di essa e la mantiene è chiamato veritiero e il suo abito è la verità”. È difficile trovare la verità sul regno e sulla vita di Filippo II, o meglio, è difficile trovare una verità condivisa.

filippo libroLa solida biografia di Spagnoletti ripercorre la vita del re, uno dei più longevi del suo tempo, che arrivò ai 71 anni (nato nel 1527, morì nel 1598): un autentico primato nella casa degli Absburgo, che raramente arrivavano ai 70 anni. Filippo vide la morte di figli, nipoti, parenti, amici e di ben quattro mogli (tra le quali vi fu Mary Tudor, ‘Maria la Sanguinaria’: e chi sa che piega avrebbe preso la storia se dalla loro unione fosse nato un erede!), e solo dalla quarta consorte ebbe il figlio maschio che sarebbe stato destinato a succedergli.

Gregorio Leti, nella Vita del Cattolico Re Filippo II (1678) lo definì politico con tutti, amico della pace, pio verso la Chiesa, severo col suo sangue; ma anche invidioso, simulatore, incapace di dimenticare e propenso alla crudeltà, e ombroso. Uno dei pochi personaggi con cui entrò in vera sintonia era Vespasiano Gonzaga, il signore di Sabbioneta, ingegnere militare, insignito del Toson D’Oro che, come speciale concessione, Vespasiano, caso unico, poté conservare dopo la morte, venendo sepolto con l’ambita onoreficenza.

Chi fu il vero Filippo? La risposta va cercata nelle pieghe di una vita condotta all’insegna della ragion di stato, ricca di fasto e ricchezze, ma anche di contraddizioni, dolori e solitudine. A partire dal fatto che Filippo era spagnolo fino al midollo, cosa che certamente non si poteva dire del padre Carlo V, culturalmente più legato alla Germania e, soprattutto, alla Borgogna, la terra di sua nonna, Maria, unica figlia di Carlo il Temerario e sposa di Massimiliano I d’Asburgo.

Filippo rimase orfano di madre a 12 anni e convolò a nozze a 16 anni, nel 1543, con la principessa portoghese Maria Manuela, sua coetanea, che, tuttavia, morì poco dopo, nel 1545: la giovane aveva appena dato alla luce a Valladolid il principe Carlos, quando le dame che l’avevano assistita la abbandonarono per presenziare ad un autodafeé (vuoi mettere la ghiotta occasione mondana?) in cui sarebbero stati messi al rogo alcuni eretici. Maria Manuela, dicono le fonti, rimasta sola, si alzò dal letto, e mangiò un melone, frutto che agli Absburgo, evidentemente, portava sfortuna, visto che anche il bisnonno di Filippo, Massimiliano I, morì, si dice, a causa di una indigestione di questo cibo; tempo quattro giorni, anche Maria Manuela morì, poco dopo il battesimo del figlio. A questo decesso seguì un periodo di vedovanza di 9 anni, che preoccupò non poco il padre di Filippo, Carlo V, il quale, sin dal 1548 esortava il figlio a risposarsi, in quanto riteneva che l’elemento più adatto a trattenere i vassalli nella fedeltà verso i loro signori era vedere che essi garantivano il perpetuarsi della dinastia generando numerosi figli.

Il desiderio dell’Imperatore si realizzò solo nel 1554, quando il ventisettenne Filippo si adattò, assai di malavoglia, a sposare la trentottenne Maria Tudor: ma il titolo di re consorte d’Inghilterra e la prospettiva di un figlio di sangue per metà asburgico che avrebbe un giorno occupato il trono inglese valeva il sacrificio, anche se Filippo si adattò, per i pochi anni in cui durò il matrimonio, a essere re in Inghilterra (Carlo V aveva rinunciato a Milano e al Regno di Napoli, perchéi il figlio, nel momento in cui sposava una regina, fosse anch’egli un sovrano), piuttosto che re d’Inghilterra. Purtroppo, sappiamo bene quale sia stata la fine di questo connubio.

A trentadue anni, quindi, nel 1559, Filippo prese in moglie Elisabetta, figlia dei re di Francia Enrico II di Valois e Caterina De Medici. La sposa aveva meno di 14 anni e alla sua mano aspirava anche il duca di Savoia Emanuele Filiberto, più o meno coetaneo di Filippo (era nato nel 1528), che però dovette accontentarsi della sorella trentaseienne del Valois, Margherita. Al quarto matrimonio, nel 1570, Filippo prese invece in moglie Anna d’Austria, ventunenne, nata in Spagna come il nonno imperatore Ferdinando, e prima arciduchessa a sedere sul trono spagnolo. Rimasto ancora vedovo, pare abbia sondato le vie diplomatiche nel tentativo di organizzare un quinto matrimonio, ma desistette presto dal tale intento.

La biografia di Spagnoletti apre squarci interessanti anche sulla sorte delle regine: che cosa significava essere consorti di monarchi nel XVI secolo e oltre? Le sovrane, sposate in giovanissima età, erano delle sradicate di lusso, che lasciavano, spesso ancora adolescenti, la loro patria e la loro nazione, con il solo fine di condurre in porto numerose gravidanze: esse avevano quindi, in prima battuta, il potere che derivava loro dall’essere madri, soprattutto dell’erede al trono, e dall’assicurare la continuità dinastica, soddisfacendo i desideri non soltanto del sovrano loro consorte, ma anche della corte, che le sottoponeva a inaudite pressioni perché procreassero prima possibile il tanto sospirato erede maschio. Inoltre, le regine, essendo spessissimo straniere (perché quasi mai un sovrano sposava una sua suddita, sia pure di alta condizione), costituivano un collegamento formale e informale tra le due dinastie, fungendo da mediatrici fra la politica del padre o del fratello e quella del marito, fra quella del Paese d’origine e quella della patria d’adozione, e dando luogo a una diplomazia parallela che spesso si sovrapponeva a quella curata dall’ambasciatore ufficiale. Questo avvenne negli anni di regno di Carlo V, che si servì spesso della moglie Isabella come reggente dei reami iberici durante le sue numerose assenze, e della terzogenita Giovanna (1535-1573), che, in un certo qual modo, supplì anche alle assenze di Filippo sia quando era l’erede designato sia quando era il sovrano effettivo.

Per quel che concerne il potere informale di cui erano titolari, le regine dispiegavano una attività fatta di consigli al marito, educazione dei figli, influenza e committenze artistiche, patronage religioso e partecipazione, infine, a tutti quelli che potremmo definire i “riti della regalità” che contribuivano ad accreditare la visione del potere sovrano.

La vita di Filippo II mostra non solo la gloria del potere, ma anche le restrizioni, le limitazioni, i compromessi, le contraddizioni dei tempi, e questo anche nella morte: Filippo, che amava scrivere, ebbe, negli ultimi tempi della sua vita, durante la sua interminabile agonia, le articolazioni bloccate dalla gotta, con il pollice della mano destra amputato per scongiurare la cancrena; era un maniaco della pulizia e morì tra i suoi escrementi, nella sporcizia, indossando abiti ormai lerci che non gli si riusciva a cambiare, e attaccato da una miriade di pidocchi. La sua morte, prevista, pubblica, annunciata e seguita da prodigi celesti, inquadrata nelle devozioni del Cattolicesimo tridentino, non ebbe le stimmate di un semplice trapasso, ma di un transito dalla vita terrena a quella celeste, dove avrebbe regnato nella gloria, ricevendo il meritato premio per le sue tante imprese e per le sue fatiche. Ovvero, per dirla diversamente, morir es ganar.

Silvia Stucchi

Gruppo MAGOG