13 Aprile 2018

Storia di ordinaria ossessione per la cultura (e per Dostoevskij). Ovvero: quella volta che un calzettino fu la risposta al mio malessere esistenziale

Sono un ignorante, un idiota, un idrocefalo, mi dico. Non ho cultura, non scrivo libri, non vado da Fazio. La cultura mi ossessiona. Non riesco proprio a convivere con l’idea di non aver letto i classici, di non comprendere il secondo principio della termodinamica e, soprattutto, di non possedere uno straccio di laurea. La cultura mi ha da sempre tormentato. Appena posso, a casa, per strada, nei locali, alle poste, al cimitero, cerco di leggere quanti più libri possibile. Anche ora, mentre guido, leggo. Un occhio sulla strada e l’altro su I fratelli Karamazov. La mano mi fa male perché questo capolavoro è pesante. Devo resistere, mi dico, è il peso della cultura.

Mia moglie – una bambola gonfiabile presa da Aliexpress – mi ha incaricato di acquistare un cetriolo, due banane e della curcuma – pare sia vegana – all’Eurospin. «Almeno oggi fai qualcosa», mi ha detto, «invece di stare tutto il santo giorno a leggere». L’inconveniente di vivere con una bambola gonfiabile è che, qualunque cosa tu le dica, non riuscirà mai a capirti. È come parlare con un muro di gomma. Tuttavia, non riuscirei a farne a meno. La solitudine mi perseguita da sempre. Di giorno, di notte, sempre. Noi uomini dalla coscienza ipertrofica siamo afflitti da un vuoto doloroso e la cultura cos’è se non riempire questo vuoto? La cultura come mancanza.

Oggi mi sono dato malato. Il mio umile lavoro non ha importanza. Il mio medico è compiacente. Capisce il peso della cultura e mi concede giorni di malattia quando voglio. Durante la finta convalescenza ne approfitto per leggere, studiare, riflettere. Quando mia moglie va dal gommista per farsi dare una gonfiata ne approfitto per immergermi nel mio studio matto e disperatissimo. Devo recuperare il tempo perduto, mi dico, esercitare l’intelletto, non cedere all’atrofia cerebrale.

E così ora mi ritrovo in macchina, nel parcheggio del supermercato, con due buste in una mano e Memorie dal sottosuolo nell’altra – sono nel periodo Dostoevskij. Porterò con me Ivan e la sua coscienza ipertrofica all’Eurospin, mi ripeto come un ossesso. La sua compagnia mi aiuterà a riflettere su questa malattia che affligge entrambi. Mi appresto ad avviarmi verso l’ingresso del supermercato sotto lo sguardo indagatore del mendicante, che sicuramente starà pensando che sono un intellettuale. Perché sono vestito da intellettuale: giacca a quadri con toppe ai gomiti di una taglia più grande, pantaloni a coste marroni, maglione nero girocollo, occhiali da vista d’ordinanza anche se ci vedo a occhio nudo. Ho il volto da intellettuale: barba lunga e curata, capelli trasandati e gonfi con un pizzico di forfora che non guasta mai, sguardo pensieroso a lasciar intendere che stia sempre raccolto in riflessioni di alto livello. Mi muovo pure come un intellettuale, un po’ claudicante, impacciato, con passo svelto per sfuggire ai comuni mortali, ma che rallenta eccessivamente nei pressi di una libreria indipendente. Colto da un improvviso raptus d’intelletto, decido di rivolgere la parola al mendicante e lasciare che questa sia per lui una giornata di illuminazione spirituale. Sarà la mia coscienza ipertrofica a parlare, citando con voce ferma e decisa le parole con cui Ivan, il protagonista di Memorie dal sottosuolo, presenta sé stesso: «Mio caro e umile mendicante, “io sono un mascalzone, il più abietto, il più ridicolo, il più dappoco, il più stupido, il più invidioso di tutti i vermi della terra. Un cialtrone, il più viscido, il più patetico, il più idiota, il più mediocre, il più bugiardo di tutti i farabutti della terra”».

Dopo un interminabile minuto di silenzio, il mendicante mi si avvicina e dalla sua bocca escono queste parole: «Duttò lasciat stà stì strunzat che fann mal e’cervell, nun v’affaticat, a’soluzion a teng ij pe’vuj e o’sapit qual è? Accattatev o’cazettin».

Rimango pietrificato, senza fiato. Di colpo ogni architettura, ogni inutile sovrastruttura mentale, è crollata e capisco che o’cazettin è la risposta al mio malessere esistenziale. La sua beata ignoranza mi ha colpito a tal punto da lasciar perdere ogni proposito di acquisto, ogni proposito di lettura. Devo tagliare i ponti con la cultura, penso, mandare al rogo la coscienza ipertrofica attraverso il fuoco vivo del calzettino. Lascio una lauta ricompensa al saggio mendicante acquistando non uno ma ben tre paia di calzettini nella speranza di non dover più soccombere al macigno del mio intelletto.

Sono sul divano di casa. Mia moglie riposa a letto, è sgonfia. Apro la prima immacolata confezione di calzettini e aspiro forte. Attendo qualche minuto. Niente. Apro la seconda confezione e aspiro di nuovo. Ancora niente. Terza e ultima confezione. Aspiro. Il nulla. Sarà forse questa la risposta, il nulla? Sarà forse questo il significato della vita? Lascio cadere i calzettini, vado sul letto e abbraccio mia moglie sgonfia. Ti voglio bene, le sussurro, nonostante il nulla.

Marco Nutricula

 

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