29 Settembre 2020

“Teneva il proprio cuore in mano, e se ne cibava”. Storia rapace di Stephen Crane, un precursore

La festa di Natale del 1899, quella che precedeva l’anno 0 del nuovo secolo, fu meravigliosa. Durò parecchi giorni, fin sulla soglia del Capodanno, vi parteciparono, tra i tanti, Henry James, Joseph Conrad, H.G. Wells. Sfiorì in tragedia. Lo adoravano tutti, comunque: sapeva coniugare uno stile ruvido e lirico all’audacia, all’ansia speciale per l’avventura, per l’avventatezza. La festa esplose nella casa nel Sussex; Stephen Crane, lo scrittore sulla bocca di tutti, finì, poco dopo, con una emorragia polmonare. Non fu la prima; era cagionevole da ragazzo – per questo, forse, quell’ardore, quella scrittura tanto fisica. Avrebbe voluto fare un reportage sull’Isola di Sant’Elena, dove, in una prigione inaccessibile, era rinchiusi cinquemila Boeri. “Soffriva… capii che non c’era speranza”, ricordò Conrad. Crane morì a 28 anni, nel giugno del 1900; troppo giovane, troppo bello, tutelato da un talento allo stesso tempo d’acciaio e di vetro. Harold Bloom lo riassume così: “Il contributo di Stephen Crane al canone letterario americano è leggero ma decisivo: un classico, tre racconti, una manciata di poesie… tutta l’opera di questo scrittore sta in un libro, non troppo spesso. Crane è morto a 28 anni dopo una vita frenetica, ma se fosse vissuto più a lungo non credo che avrebbe aggiunto molto alla sua eredità letteraria. È stato uno scrittore del tutto americano, un taglio sulla fronte del cielo mattutino, che sbiadisce nell’atroce mezzogiorno della nostra terra ferale. Un originale, non un Grande Originario, Crane ha profetizzato Hemingway e molti altri giornalisti-scrittori; per certi versi è ancora un precursore” (da Stephen Crane, 2007, nella serie “Bloom’s Modern Critical Views”).

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Esatto emblema della letteratura americana, Stephen Crane era un uomo in corsa, era il proiettile scagliato dalla fionda sulla fronte del nuovo secolo. Mesceva Eden e catacombe, nuvole & fango, se ne fregava dell’accademia e dei suoi labirinti, sapeva infondere a testi altrimenti smilzi, molli, sgrammaticati l’elettricità. La sua prosa è come un cilindro di vipere sopra le ninfee di Monet. Nacque nel 1871, quattordicesimo figlio di un ministro metodista; a vent’anni scrisse il primo articolo: raccontava la spossante ricerca di David Livingstone, nella tenebra africana, da parte di Henry M. Stanley. Maggie, romanzo su “una ragazza di strada”, fu pubblicato a spese dell’autore, presso un tipografo, nel 1893. Il libro fu un disastro. Crane si risollevò con un’altra idea, quasi opposta: dare potenza epica agli eroi della Guerra Civile americana. The Red Badge of Courage fu pubblicato nel 1895, garantì a Crane, giovanissimo, fama e viaggi. “I nostri migliori scrittori sono Henry James, Stephen Crane e Mark Twain. Ma badi, non li ho messi in ordine di valore. Non è possibile fare una classifica dei buoni scrittori…”, scrive Hemingway quarant’anni dopo, in Verdi colline d’Africa.Crane cominciò vorticosamente a viaggiare: Messico, Cuba (a seguire i conflitti tra Usa e Spagna), Atene (a seguire il conflitto greco-turco)… Un incidente marino – il Commodore su cui era imbarcato, direzione Caraibi, fece naufragio – gli consentì un racconto di pregio, La scialuppa, e l’incontro con la donna della sua vita, Cora Taylor, giornalista, tenutaria di bordelli, tipa tosta, che aveva mollato due mariti e si lavava nel motto: “Potrei osare cose insolite, senza battere ciglio, anche ora, mi è ignota ogni forma di timore”.

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Fino a poco fa Stephen Crane – che occupa il numero 18 della Library of America – era snocciolato tra i rari pionieri della letteratura statunitense. In Italia trovò un traduttore fedele in Luciano Bianciardi; de Il segno rosso del coraggio esiste una dozzina di traduzioni (tra cui quelle di Giulio Bollati, Giacomo Prampolini, Alessandro Barbero, Bruno Fonzi); quel libro, nel 1951, fu tradotto al cinema da John Huston. Ora: chi lo legge Crane? Castelvecchi ha pubblicato, per la prima volta in Italia, come Ferite nella pioggia, “Wounds in the Rain”, la raccolta di racconti sulla guerra ispano-americana a Cuba del 1898. Crane, preso dalla folgore del reportage, pubblicò il tomo nel 1900, ultimo atto di una rapidissima carriera letteraria. Memorabile, in appendice – la curatela è di Fabrizio Bagatti – il ‘coccodrillo’ firmato da Willa Cather per “The Library”, che ci offre un cammeo dello scrittore (“Un tipo magro, stretto di torace, trasandato abito grigio, con un morbido cappello di feltro tirato sugli occhi… I suoi occhi li ricordo come i più belli che abbia mai visto, grandi, scuri e pieni di luminosità e cangianti, ma con dentro una profonda malinconia sempre in agguato. Erano occhi che sembravano bruciare”), del suo carattere (“era lunatico, in cattiva salute e sembrava profondamente scoraggiato… andava in giro con l’intensa, preoccupata, aria egocentrica di un uomo che sta rimuginando su qualche disastro imminente”), del suo talento radicale: “Bevve la vita fino alla fine, ma dal tavolo del banchetto, dove altri siedono a proprio agio e scherzano sul vino, si è alzata una figura scura e silenziosa, cupa come lo stesso Poe, e che non voleva essere capita”. Era un uomo che aveva fretta, Crane, che bruciò le tappe bruciandosi, ma nei suoi tesi, rapaci e aerei, c’è una fragilità che resta, anatomia degli angeli caduti.

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Forse i 120 anni dalla morte hanno il merito di un disvelamento. Oltre a Ferite nella pioggia, infatti, vengono dissotterrati sull’ultimo numero della rivista “Poesia” i versi di Crane, radunati in due raccolte non estemporanee, The Black Riders and Other Lines (1895) e War is Kind (1899), apprezzate, tra gli altri, da Harriet Monroe, Ezra Pound, Robert Frost. A volte le dolorose voluttà della vita vanno dette in versi. “Quella di Crane è una poesia enigmatica e indecifrabile, ed è difficile individuarne possibili influenze o incasellarla in una precisa categoria”, scrive Franco Lonati che cura il quaderno. In un’epoca stretta tra i titani, Walt Whitman e Emily Dickinson, la poesia di Crane “nell’insieme, risulta oggi la più originale e rilevante del suo tempo”.

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In A Personal Record Joseph Conrad stende una efficace memoria dell’amico. “Era un uomo quasi infantile nei moti impulsivi del proprio genio, selvatico, è stato uno dei più singolari e risoluti impressionisti del verbo… La sua arte, la sua ispirazione grezza, non ha ottenuto il rispetto pieno che avrebbe meritato. Parlo di Stephen Crane, l’autore di The Red Badge of Courage, opera che trovò un momento di vasta celebrità. Scrisse altri libri. Non troppi. Era un talento individuale, completo, arrogante… Confesso di amare quella figura potente e esile, fragile, intensamente viva, transitoria. Mi faceva notare, con grande serietà e una certa severità, che ‘un uomo dovrebbe sempre avere con sé un cane’. Sospetto che sia rimasto scioccato da quanto trascurassi i miei doveri di genitore”. A me ricorda I racconti di Sebastopoli di Tolstoj – che tanto piacevano a Hemingway – e mi pare – in una visione che se ne frega della cronologia – parente de L’armata a cavallo di Isaak Babel’. Inseguì le guerre, gli piaceva, precipitando, guardare il cielo, quell’azzurro ostile e pago, più indifferente che pacifico. (d.b.)

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Si pubblicano alcune poesie di Stephen Crane, tradotte da Franco Lonati e pubblicate nell’ultimo numero di “Poesia” (Settembre/Ottobre 2020, 3, Nuova serie).

Nel deserto

vidi una creatura nuda, bestiale,

che, accovacciata a terra,

teneva il proprio cuore in mano,

e se ne cibava.

Dissi: “È buono, amico?”

“È amaro, davvero amaro, rispose lui;

“ma mi piace

perché è amaro,

e perché è il mio cuore”.  

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Tanti diavoli rossi scapparono dal mio cuore

e si sparsero sulla pagina.

Erano così minuscoli

che la penna avrebbe potuto schiacciarli.

E molti si dibattevano nell’inchiostro.

Fu strano

scrivere con quella poltiglia rossa

le cose che avevo nel cuore.

*

Vuoi dirmi perché, dietro di te,

vedo sempre l’ombra di un altro amore?

È reale

o è lo stramaledetto ricordo di una felicità più grande?

Che sia maledetto se è morto

che sia maledetto se è vivo

quel lurido idiota

che sempre insinua la sua ombra

fra me e la mia pace.

*

Un giornale è un simbolo;

è un’inutile cronaca della vita,

una collezione di storie chiassose

che concentrano idiozie eterne,

che nei tempi antichi vivevano libere da capestri,

vagando in un mondo senza barriere.

Stephen Crane

*la traduzione è di Franco Lonati

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