08 Maggio 2019

Altro che Capitan America, Iron Man e Hulk: il vero supereroe, più grande di tutti gli “Avengers” messi insieme (un soporifero ronzio), è Stefano Simoncelli, il poeta che ha preso la Musa per i capelli

Mio figlio mi intima di andarlo a vedere, assolutamente. Per questo, vado. Con mia figlia e una sua amica. Avengers: Endgame. Dopo tre ore – che palle – ne riemergo con la bocca impastata dal disgusto. Che palle, e due. Psicologia da psicolabili, emozioni tonanti, patetiche ammissioni di debolezza da parte dei supereroi – che sono, sempre, ostinatamente, bellissimi. Per lo più, una idea di bene, di benessere e di felicità, dopata dall’idiozia: macchine fighe e scattanti, occhiali giusti, donna adatta, casa sul lago, bimba adorante, la morte che calcifica quanto ci siamo amati su questa terra. Per altro: le scorribande non sono epiche come Il Signore degli Anelli o epocali come il ciclo di ‘Star Wars’; la sceneggiatura non è adorabilmente complessa come quella di Matrix; poi, ecco, non c’è una mente registica funambolica come quella di Christopher Nolan (Inception sarà un garbuglio, ma è un gran bel film). Insomma, non ho detto che è meglio Ingmar Bergman o Fellini degli Avengers – snobistica tautologia – dico che quel film, nel suo genere, è una palla, affari miei.

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D’altronde, ammetto, non ho mai amato i supereroi. Il mio prototipo di eroe è Ulisse, uno che usa la testa – super – e sa sedurre con le parole. E Davide, il piccolo che con l’astuzia strazia il gigante, ma la cui gloria è equilibrata dall’obbedienza, la voluttà temprata dal salmeggio.

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Di primo schianto, non apprezzo la vendetta. In realtà, vendetta e perdono sono la stessa cosa: dove la Giustizia non arriva – e arriva sempre tardi, sempre di sbieco – è giusto agire. E l’azione possibile è doppia: la vendetta, cioè “ovviare a un fallo… far giustizia da sé”; oppure perdonare, che significa scomporre l’offesa in un patto che ustiona, giustiziare il giustizialismo. Da una parte punisci, recidi, dall’altra sancisci un legame (senza redenzione).

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Il giorno in cui sono andato, malauguratamente, a vedere Avengers: Endgame, ho incontrato Stefano Simoncelli, il poeta. Era alla Biblioteca ‘Baldini’ di Santarcangelo a parlare del suo ultimo libro, Residence Cielo e della placca (di notevole bellezza grafica, con uno scritto di Mario Santagostini), La paura dei tuoni. Stefano Simoncelli, penso, pensando agli Avengers, è un supereroe, il supereroe della poesia.

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Simoncelli è un supereroe per due ragioni. Primo. Scrive continuamente. Scrive poesia tutti i giorni. È continuamente connesso con la poesia, come una ossessione, come una fame infinita. Come se dentro di sé avesse un centinaio di poeti, che si chiamano tutti come lui, e battono pentole, rotaie, maniglie, muri per farsi sentire. Questa furia ha una spiegazione. Simoncelli esordisce come poeta in grande stile, nel 1981, per Guanda, con Via dei Platani (presenta Giovanni Raboni, benedice Franco Fortini). Poi pubblica, diversi anni dopo, Poesie d’avventura (sotto l’egida di Enzo Siciliano). Poi più nulla. La morte dell’amico Ferruccio Benzoni (“a cui devo tutto, se sono un poeta, lo devo a lui, io non sapevo fare niente, lui ha visto il poeta che era dentro di me”), con cui aveva ferocemente litigato, tempo prima, nel 1997, e poco dopo quella della madre, lo immerge in una depressione letale. Da cui lo eleva, poco alla volta, la poesia (“io l’ho detto, la poesia mi ha salvato la vita più di una volta”, dice lui, frugale & brutale). Nel 2004 pubblica Giocavo all’ala, poi, nel 2006, La rissa degli angeli. Pubblica sempre Pequod, con cui instaura un sodalizio totale. Da Terza copia del gelo, del 2012, Simoncelli esce praticamente con un libro all’anno, “e mi devo calmare”, perché la poesia – nostalgica, tormentata, indocile, di cruenta dolcezza – lo abita costantemente. Ci sono poeti che scrivono una poesia all’anno e poeti che ne scrivono una al giorno, ognuno tiene a bada il muso da cagna della Musa come può. Simoncelli, la Musa, la tiene per i capelli.

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Penso che non ci sia poeta più lontano dal mio quartiere poetico – roba di raffinate lame e di canini – di Simoncelli. Eppure, lui è uno che rischia tutto nella poesia, l’ultimo sangue e l’ultima lacrima, si difende facendo lo smargiasso – alla presentazione con mezz’ora di ritardo, lo apostrofo: ma chi ti credi di essere, Mick Jagger? – ma poi si commuove quando pensa ai suoi morti, quando pensa a quanto beveva Benzoni (“dal mattino fino a notte, beveva fino a uccidersi, voleva deliberatamente uccidersi”, dice, e dice tanto dell’ansia superomistica ma soprattutto suicidale dei poeti). Anche per questo, è un supereroe.

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Per convincermi ad andare alla presentazione, Simoncelli mi invia una poesia a cui giustappone una dedica fittizia a Davide Brullo, “per farti capire perché scrivo”, mi scrive. La poesia è questa:

Non assomiglio più a nessuno
quando mi incontro sulla specchiera
di un bar con mezza sigaretta in bocca

o un bicchiere di qualche amabile veleno.
Certe volte sembro un banco di nebbia,
impenetrabile e neutro, come quelli

che arrivano dal mare a tradimento
verso mezzogiorno e nascondono tutto:
i ponti, i canali, le insegne delle botteghe,

le case basse degli ex ferrovieri, le strade
e i platani con le ombre immense. Tutto.
Altre volte sono pulito e trasparente

come un vetro attraverso il quale
vedo quello che ero, un ragazzo
svelto, aggressivo e arrogante

che va incontro alla notte,
vedo in me mio padre
logorato dal dolore

e poi più niente.

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Penso, a volte, che non si scrive per capirsi né per cercarsi – ma per sconfiggere l’ultimo oro dell’io. Per disintegrarsi. Per farsi irriconoscibile – e lasciare ad altri la grazia di darci un nome.

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Simoncelli è un supereroe anche perché con grazia, sportivamente, con spavalderia da Gatsby (“Per la prima volta nella vita mi sono illuso// di essere il Grande Gatsby”) si è risollevato, pimpante, dopo l’ictus “che mi ha colpito il 6 dicembre 2017”. Anche di quella residenza nell’ospedale e in un corpo frantumato, espropriato dal male, è voce Residence Cielo – e di “un viaggio/ chissà per dove/ sapendo// che non ritornerò più quello che sono”. Il dialogo con i morti, proprio di chi tanto ha vissuto, fino all’osso di ogni seduzione, è continuo – la nostalgia brutale, il rimorso una voracità del fato. Poi ci sono gli scatti, che squassano tutto con l’epifania del sogno, del vento: “Sarebbe bello rivederci/ una volta ogni tanto/ per raccontarci storie// strampalate e fuori dal tempo/ come, ad esempio, che ho costruito una mongolfiera/ con corde, un cesto e le tende del terrazzo// per metterci in salvo”.

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Altro che Capitan America, ecco. (d.b.)

*In copertina: Stefano Simoncelli in una fotografia di Daniele Ferroni

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