23 Settembre 2018

“Sono un poeta reazionario perché, di fronte al tramonto, non si può che tornare indietro”: Luca Ormelli esordisce a 43 anni, già postumo, con una raccolta poetica che non lascia scampo

Gangbang di Luca Ormelli (Controluna, 2018) descrive il mondo come una gigantesca ammucchiata definitiva. Il narratore resta però escluso, praticamente emarginato dalla festa. Non gli resta che guardare gli altri divertirsi, a debita distanza: “Potrei essere davvero/ felice/ non con voi/ né tra di voi/ ma contro di voi/ ancora/ più lontano/ da Dio”.

Di fronte agli occhi del poeta si para dunque il peggiore dei disastri: un’umanità allo sfacelo che morde per sopravvivere, dalle fermate della metro, agli uffici dove gli impiegati siedono allucinati di fronte allo schermo del computer. Difficilmente in Italia possiamo trovare una simile attenzione per la realtà contemporanea come quella che l’autore dispiega nei suoi versi, in cui i temi scottanti dell’attualità vengono trattati senza alcuna traccia di retorica (“La vecchiaia è una coperta/ piagata di urina. E sarebbe già buona sorte./ Da baciarsi le mani. Dritto & rovescio./ Il minimo che ti può capitare è un cancro./ Di lavorare in ufficio fino alla nausea./ Parlate pure di negri e vegani. Di economia./ Io alla morte ho dato la vita”). Ancora più rara è una trattazione di questi temi aliena a intenti moralizzatori. Non solo infatti i nostri autori sono quasi tutti degli inutili politicanti, ma anche, sotto questo punto di vista, amanti delle vittorie facili. Chi scrive dovrebbe evitare di adagiarsi su pensieri comodi, politicamente conformi al pensiero diffuso. Non è il caso di Ormelli che, infatti, così referta, per esempio, il meltinpot, la realtà multiculturale: “Il tram è in ritardo anche oggi./ Un guasto forse./ Stupide donne velate squittiscono/ dirette al mercato./ Incubatrici al curry./ Lo scirocco attorciglia le rotaie./ Mi domando che razza d’uomo possa scoparle”. E ancora, “Certi occhi rompono il vetro/ quando li incontri./ Dietro la curva un muro divorato/ dalle notti in fabbrica./ Strade sventrate dai camion/ fuggono mute tra i casolari./ Gli slavi ti esplodono in mano/ come una Molotov. Si incendiano/ subito”.

La raccolta in questione, invece di scadere nel moralismo, dalla politica all’attualità, si apre alla riflessione esistenziale come un vero testo poetico dovrebbe fare: la morte è la sola tradizione che siamo chiamati a rispettare e da questa unica considerazione principia l’opera.

OrmelliPartiamo da questo titolo, Gangbang: perché?

Gangbang perché la società, questo Occidente al tramonto in cui stiamo vivendo, è una colossale forma di promiscuità tra capitale e vendita di lavoro sottopagato. Fondamentalmente, una ciclopica prostituzione. Per cui l’immagine dell’orgia, della mescolanza promiscua dei corpi disumanizzati, mi sembra rendere al meglio l’idea di un sistema sociale ormai in frantumi. Partendo da una simile condizione, l’uomo, così come l’abbiamo conosciuto almeno fino alla prima guerra mondiale, è andato a farsi fottere. Ci siamo serializzati, o ci hanno serializzato. Non voglio entrare in ambito politico perché non mi appartiene, anche se indubbiamente chi scrive è portatore di un messaggio che non può non rimandare a questa dimensione. Tutto è politica, in fin dei conti, come diceva Thomas Mann.

Proprio a questo proposito, visto che chi scrive è portatore di un messaggio politico, perché sei un “autore postumo”, come ti definisci tu stesso e ribadisce il tuo prefatore?

Sono un postumo perché, nella mia immaginazione, da adolescente, ho sempre pensato a me stesso come a un autore che sarebbe morto giovane. Purtroppo, sono ancora qui a scassare il cazzo e il mio libro andrà a infestare anche la posterità. Sono un postumo in vita in quanto, al di là delle celie, mi sento un sopravvissuto, per via dei miei trascorsi biografici che mi hanno portato attraverso un cancro, gli psicofarmaci, una separazione, il lutto per la morte di mio padre in gioventù. Capisco che definirsi un sopravvissuto potrebbe sembrare paradossale per un autore postumo. Però, in quanto sopravvissuto, mi vedo a posteriori. E il libro è un libro postumo perché, pur essendo scritto da una persona vivente, questa si vede con un’ottica estranea, come se avesse già vissuto una vita. Forse se ne sta aprendo una seconda, non lo so, però una sicuramente è trascorsa.

Partendo da queste premesse, non siamo tutti un poco postumi, compreso il lettore?

Il lettore è sicuramente postumo, rispetto all’opera. Non ci sarebbe lettore, se non ci fosse l’opera, per cui il lettore è postumo ab origine, per principio. Direi quasi, facendo l’intellettuale che non sono, che ontologicamente siamo tutti un po’ postumi. Però così sembro Fusaro, quindi questa tagliala (ride).

A proposito di postumi, c’è un altro grande trapassato che nomini in esergo al testo, quando dici “Holden è morto”. Perché il povero, caro, amato giovane della letteratura americana, – e che, presumibilmente, sempre rimarrà tale –, tu lo uccidi così? O forse è il suo cadavere quello che hai trovato nel tuo percorso?

Innanzitutto, volevo muovere un attacco frontale a quel co***one di Baricco e alla sua scuola Holden. Perché non ritengo che sia necessaria una scuola di scrittura, per imparare a scrivere. Bastano le elementari per quello. In secondo luogo, Il giovane Holden è un libro che trovo datatissimo e circoscritto al periodo storico in cui è stato concepito, a quell’innocenza, a un’ingenuità che attraversa le pagine di Salinger, ma che non ritrovo più nel 2018. Perciò ritengo che Holden sia morto, perché, se Salinger fosse andato oltre e avesse scritto una sorta di Recherche del personaggio, probabilmente ne avrebbe decretato anche la fine. Quelle romanticherie, quei sentimentalismi che attraversano e pervadono l’opera fatico a ritrovarli in una società come questa, preda del degrado, del disfacimento e della putredine.

Veniamo ai testi. Io trovo che la cifra contenutistica dell’opera possa essere collocata nel solco aperto dal Realismo Terminale, per quanto tu non abbia certo scritto con i principi del movimento affissi di fronte. Ma, come direbbe il mio amico Guido Oldani – il teorico di tale corrente –, il realismo terminale è una tendenza che in parte sopravanza la nostra volontà. La “predominanza dell’oggetto” e “l’accatastamento dei popoli” sono semplicemente aspetti del reale che si impongono, che è impossibile non vedere. Anche nelle tue liriche si trovano similitudini rovesciate, in cui gli oggetti, icone comprese, entrano prepotentemente in scena, come i cavi del tram che sono una specie di filo spinato posto tra noi e la trascendenza, impedendo qualsiasi possibilità di un rapporto diretto. Per quanto riguarda poi l’accatastamento dei popoli, penso per esempio alle donne velate alla fermata della metro. Tu le definisci come delle “incubatrici al curry” e ti chiedi “chi cazzo si possa scopare donne simili”. Anche questo è sintomatico del realismo terminale. Per te l’accatastamento dei popoli è negativo e, infatti, nei tuoi versi rivela i suoi esiti più nefasti – Oldani non la penserebbe allo stesso modo, ma questo adesso è secondario. Non so se ti riconosci in questa analogia che ho tracciato?

Secondo quella che è la tua esposizione dei requisiti per essere assimilato a un realista terminale, mi ci riconosco. Certo, quando utilizzi il termine “accatastamento”, non riesco a dargli una valenza positiva. Mi sa di una mescolanza indistinta e tutto ciò che è indistinto genera caos. Il caos mi affascina, ma solo osservarlo. In tal senso mi ritengo più un espressionista, perché descrivo, o provo a descrivere, la società da un punto di vista che sia simultaneamente interno ed esterno. Quelli che sono i riflessi degli oggetti e delle persone – che ormai sono oggetti –, sulla mia psiche deviata, assumono una distorsione ancora maggiore che porta a degli stravolgimenti, molto spesso con effetti parossistici. Però mi riconosco in quello che hai detto, concordo.

Venendo alla cifra stilistica dei testi, c’è una predominanza di immagini forti, brutali, altamente evocative. Mi pare però, se posso avanzare una riserva, che le tue liriche abbiano – pur riprendono in parte la sempre valida lezione di Simone Cattaneo, – una carenza a livello strutturale. Sembra che lo slancio iniziale non riesca a portare a una strutturazione ampia. Molte volte, insomma, percepisco l’assenza di qualche verso in più che completerebbe il discorso.

Allungando in qualche modo il testo o il metro, mi sarebbe sembrato di stemperare l’effetto detonante, o comunque d’impatto, che avevano alcune immagini. Il rischio, sul testo lungo, almeno per come io leggo la poesia, è che queste si accavallino. Volevo, invece, che fossero ben nitide e distinte, per evitare quell’accatastamento di cui facevamo cenno poc’anzi.

Verso la fine della raccolta, la poesia acquisisce quel vago respiro in più e quella complessità che la porta a un livello superiore. Si attenua la tendenza di cui parlavo prima, quella che ti spinge a fermarti anzitempo, quando si potrebbe ancora dare qualcosa di più.

Con ogni probabilità, nel momento in cui io le ho scritte, quello era il quoziente di ossigeno che avevo, in senso proprio fisico, prima di andare in apnea. Per me quelle liriche, soprattutto le prime, hanno un valore prevalentemente terapeutico, di autoliberazione, una sorta di catarsi da alcuni nodi che stavo affrontando in quel momento e avevo necessità di mettere a fuoco senza altre commistioni né deviazioni. Verso la fine, come hai correttamente sottolineato tu, si osserva un allungamento del testo, perché riuscivo già a respirare meglio e, di conseguenza, anche a scrivere meglio. La mia scrittura è molto corporea e necessita di avere per questo delle condizioni psicofisiche idonee. Difatti il lavoro che sto approntando al momento è di impianto radicalmente diverso, molto più classico, se mi passi il termine, con testi mediamente più lunghi rispetto a quelli di Gangbang. Poi che siano migliori o peggiori non lo so, non sta a me giudicarlo. Sicuramente è diversa. Questa prima raccolta voleva essere un pugno e, come tutti i pugni, deve essere diretto, veloce, rapido, incisivo. Non poteva dilungarsi troppo. Almeno questo era il mio intento e credo di averlo in qualche modo reso nella brevità della raccolta. Poi, che Cattaneo fosse un riferimento non ci sono dubbi. Ho voluto evitare, invece, di rifarmi a Houellebecq stilisticamente. Lui ricorre a un verso quale la quartina, un verso classico, tipicamente francese, che con l’italiano si sposa poco. Volevo evitare di essere imbrigliato da forme che un autore contemporaneo, in questo momento, non può permettersi – non perché non valgano, ma perché bisogna essere contemporanei, più che moderni, come diceva Rimbaud. E, per essere contemporaneo, devi uscire dalla metrica tradizionale. O ti chiami Houellebecq, e allora ti puoi permettere le quartine, altrimenti scivoli nel manierismo.

Potrai immaginare le critiche che verranno mosse a certi tuoi versi come “Stupide donne velate squittiscono/ dirette al mercato./ incubatrici al curry./ […] Mi domando che razza d’uomo possa scoparle”. Altrettanto dicasi per quelli in cui proclami che al poeta non resta se non di “prendere a calci nel culo/ chi marcia per l’accoglienza”. Ti definiranno un poeta nazista. Cosa vogliamo rispondere ai tuoi futuri detrattori?

Non mi sento per niente affiliato al nazionalsocialismo. Sono senz’altro un reazionario. Fusaro potrebbe definirmi un rosso-bruno. Mi sento tale perché, di fronte al tramonto, non si può che tornare indietro. Andare oltre vorrebbe dire precipitare nella notte e nella notte non sai mai cosa potrai incontrare. Io mi sono fermato sul ciglio dell’abisso, a guardare il sole scendere e, in questo tramonto che vedo, mi sento di richiamarmi alla reazione. Essa consiste nel “riprendiamoci ciò che è nostro, o quantomeno non lasciamoci fottere troppo facilmente. Vendiamo caro il culo”.

Perché arrivare a quarantatré anni, per pubblicare?

Alla mia età, nel diciannovesimo secolo – il mio secolo preferito –, sarei già morto di tisi o di sifilide. Ma ritengo che per scrivere si debba prima vivere. Arrivato a questo punto, di esperienze ne ho accumulate a sufficienza da potermelo permettere. Prima, il rischio sarebbe stato quello dell’autoreferenzialità. Se inizi a sedici anni, come chiunque abbia una vaga sensibilità poetica, o sei Rimbaud, dunque un genio, altrimenti devi passare attraverso le esperienze e ti ci vuole comunque un discreto numero di anni per rigettarle poi sulla pagina. Io la vedo così. Quarantatré anni mi è sembrata una età sufficiente per provare a dire quello che sento. Vedete un po’ voi, poi, se vi ci ritrovate.

Introduzione di Alessandro Paglialunga

Intervista di Matteo Fais

 

 

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