Tempo fa un amico, esteta e uomo di lettere, mi ha chiesto qualche nome di scrittori viventi accusati o accusabili di maschilismo, misoginia, sessismo, eccetera. Ho cercato di far mente locale, e per prima cosa mi sono ricordato di una frase di Stenio Solinas a proposito di Louis Aragon, Pierre Drieu La Rochelle e gli anni Venti: “La misoginia va a braccetto con il romanticismo”.
Ho pensato che delle due l’una. O i migliori romanzieri viventi, e pure i saggisti più vivi, e in salute, più che vegeti, sono tutti dei romantici, o la misoginia è una delle possibili forme d’intelligenza fondamentali per comprendere la realtà… E poi mi sono guardato attorno. Sono partito dal mio comodino.
È carico di libri; appena sfogliati: come le Lettere alle amiche di Céline; da leggere: Pitié pour les femmes, “Folio” Gallimard, non ancora tradotto in italiano; o rileggere: Bukowski, Donne, Hamsun, Victoria, Schnitzler, Il ritorno di Casanova…
Mi sono quindi reso conto che di norma per cercare vita e vitalità e verità mi devo rivolgere ai grandi del passato. Ma scorrendo gli scaffali della mia biblioteca mi sono accorto che in fondo oggi non ce la passiamo poi così male. A parte un paio decisamente trascurabili, la lista che ho messo assieme conta gli autori contemporanei da cui non si può prescindere, forse pure la misoginia.
La Francia decadente è in ottima forma, con Michel Houellebecq (con Estensione del dominio della lotta e Le particelle elementari), Edouard Philippe (il primo ministro è anche l’autore di un poliziesco molto criticato), Michel Schneider (prima con Big Mother, poi col pamphlet La Confusion des sexes), Alain Soral (Sociologie du dragueur e Vers la féminisation sono fondamentali) ed Eric Zemmour (L’uomo maschio, la traduzione distorta del titolo Le Premier sexe).
Negli Stati Uniti nonostante tutto hanno ancora Bret Easton Ellis (sotto la superficie il più grande moralista conservatore americano), e qualche accusa è piovuta persino addosso a Stephen King, a Cormac McCarthy, a Jay McInerney e a Thomas Pynchon, ma curiosamente non a Bob Dylan, che non solo ha firmato una canzone come Idiot wind – vero capolavoro – ma ha anche spedito a Stoccolma la donna rock di servizio a ritirargli il Nobel, visto che aveva da fare.
Tra gli italofoni non latitano le voci letterariamente e relazionalmente “ribelli”, alcune episodiche come l’Enrico Brizzi di Bastogne, il Giuseppe Culicchia di Brucia la città e il Mirko Volpi di Oceano Padano, altre più costanti come Massimo Fini, autore del fondamentale Di(zion)ario erotico. Manuale contro la donna a favore della femmina, e Camillo Langone, e Claudio Risé.
Tra i trascurabili, Massimiliano Parente, che non lo manda a dire nei suoi articoli di polemista e spesso dice bene, ma fatico anche solo a sfogliarli, i romanzi di un autore che crede alla superstizione positivista di discendere dalle scimmie e non da Adamo ed Eva.
Definitivo resta forse McInerney: “Penso che gli uomini parlino alle donne per poterci andare a letto e che le donne vadano a letto con gli uomini per poterci parlare”. Da Le luci si spengono… Gli anni Ottanta gioiosi. Forse più superficiali… Di sicuro più gaudenti.
Traduttore proprio del newyorkese chic, McInerney, uno dei miei maestri – ormai rinnegato – dei miei vent’anni e di uno – non rinnegabile – dei miei trenta, il dandy normanno Drieu, e vale a dire de L’ultimo scapolo e delle Memorie di Dirk Raspe, storie di amori, amoretti e corna l’uno, di pittura, passione e zoccole l’altro, Paolo Bianchi quando non traduce e scrive, come l’americano e il francese non è tipo da nascondersi dietro la narrazione e i giochetti postmoderni.
Non esita il rischio di mettersi in prima persona nella pagina; da sempre; lo si sente. La riempie tutta. Ma non deborda.
Già lo si era visto nei suoi ultimi due lavori come romanziere, Per sempre vostro e L’intelligenza è un disturbo mentale.
E con Donne smarrite, uomini ribelli entra a pieno titolo nella lista degli anticonformisti in materia erotica e amorosa.
Anticonformista perché conforme a un modello più antico, conservatore, di sicuro misogino perché in fondo romantico.
Anticonformista perché conforme a un modello più antico, conservatore, classico, trasparente, anche nella sua scrittura.
Il suo stile ha l’asciuttezza di un minimalista – un massimalista – come Ellis, l’eleganza di un Henry de Montherlant, e infatti Donne smarrite, uomini ribelli, terzo episodio di una trilogia che qui probabilmente si conclude, sta con Le ragazze da marito, primo volume di una cinica tetralogia sulle donne nubili, e con Pierre Costals il suo protagonista, Emilio Rivolta – Rivolta il ribelle – chiaro alter ego del biellese (la “Città Piccola”) trasferito a Milano (la “Città Grande”).
Ribellione a cosa, contro cosa? Ribellione alla sua condizione. O meglio: ribellione a uno stato di cose. E ancore: ribellione silente, elegante, pacata, semplice quanto lo stile di scrittura, terso, di una semplicità che L’intelligenza è un disturbo mentale spiegava.
La semplicità, vi scriveva Bianchi, “è un punto d’arrivo. Sto attento alla banalità, quella è una scorciatoia. Ma complicare le cose, no. […] Scrivere complicato è più facile, la fatica la addossi tutta al lettore, invece per scrivere semplice bisogna aver capito bene”.
Ribellione contro la complicazione, da parte di un uomo certo complesso, non fosse altro per la sua condizione di bipolare sempre alle prese con psicoterapeuti, psicanalisti, psichiatri e psicofarmaci, e per l’innata predilezione per le donne a loro volta complicate.
Ribellione che non c’entra col ribellismo. Il ribellismo è di moda. È una moda femminile. Il ribellismo è un conformismo di massa. La ribellione è un fatto tutto individuale. E Rivolta esprime “certe idee fuori moda”. E out, a Milano, tanto quanto la galanteria.
Ribellione della speranza, “nella vita e in tutte le sue lusinghe perfette”, se non della fede.
Ribellione contro il fatto di esser “la persona meno sistemabile della Terra” e saperlo. Ribellione contro le donne che vogliono cambiare gli uomini, uno in particolare o tutti. Ribellione contro le dinamiche della Città Grande italiana, contro le infinite derive gastronomiche e linguistiche, antropologiche e psicologiche, architettoniche e urbanistiche, artistiche e culturali, o pseudo tali, e femministe, nonché (an)erotiche e dunque (an)agapitiche. Tutto si tiene. E va assieme.
Il catalogo del disprezzo, o meglio innanzitutto dello sconforto, è pressoché infinito… Le amanti della Svezia e di Tinder (“era diventato un lavoro, quasi una burocrazia, e per quanto palliativa, non era una cura sufficiente a darmi quiete”), dove Le donne da marito viene aggiornato agli anni Duemila (“Statemi lontani uomini che volete solo sesso” – “Cerco relazione con uomo serio, no sposati”), il teatro brechtiano, l’analisi junghiana, o freudiana, o lacaniana (“ho in orrore i testi di psicologia, perché si basano su presupposti criptici, sono il prodotto di dottrine esoteriche”), le presentazioni di libri, i Capodanni (di solito tristi), i week-end (detti pure we), gli psichiatri, gli sposati, i gay (per dire froci), gli psichiatri gay sposati (con un uomo), i pensieri proibiti (“Malati non so, curabili forse. Ma lui no di certo, alla sua età.”), gli intellettualismi, i film d’autore, i corsi di cucina, le uscite a quattro, gli svaghi, i diversivi, le fughe fuori porta, tra “i turisti scomposti del mordi e fuggi” (emuli degli italioti Totò e Fantozzi – certamente non di un Paul Morand), le giacche optical e gli uomini stalker, gli sms e il web, i manager, i briefing, il mobbing e i grattacieli (“arroganti imitazioni dei giardini pensili di Babilonia”), gli Spritz – sempre molto meglio il Negroni – agli aperitivi dove devi “pagare una cifra esagerata con il pretesto che ti puoi rifornire a sazietà a un buffet di cibi scadenti” per “l’eterno stare a guardarsi, l’un l’altro, l’essere insoddisfatti dell’altro, […] di sé, andare a casa soli”, e la movida del sabato in cui “moltiplicare le frustrazioni”, il cibo etnico, i circoli Arci (a esser sincero non vorrei dover mai infilare certe sigle tra le mie parole) e i centri sociali, macabri, anerotici, disperati luoghi d’ammucchiate “di fascisti travestiti da antifascisti”, i ritrovi “per anime in grado di professare solidarietà a distanza verso tutti i Vinti e i Disgraziati e i Deboli del mondo, non di questo mondo, ma proprio di tutto, soprattutto del mondo geograficamente lontano, l’Africa per esempio”, i manifesti sovietici e i poster dei Sandinisti o del Che (“icona più scontata tra i salvatori del mondo da divano”), la musica techno e Goran Bregovic, gli autori d’autofiction e i reading, la slam poetry, i social, il cool, le drag-queen, le mostre blockbuster; le “ragazze” di quarantacinque anni (“non siamo mica cresciuti in India”); quelle che vogliono fare l’albero di Natale (“voleva fare l’albero, io il presepio”); le deluse; le culone; quelle che si danno al browsing compulsivo, quelle che comprano roba da Ikea e da Coin, quelle che chiedono se hai un preservativo (“Non me li porto dietro perché lo trovo di cattivo gusto”); quelle che non sanno cucinare (“L’eredità ideologica della madre stava nel non saper cucinare”); le gelide, psicorigide, nervose (“Tutto il corpo le tremava compatto come un fascio di saggina”); le borghesi in fuga da se stesse; quelle che si tengono in forma; quelle sempre impegnate; le ecologiste; le animaliste; le vegane, le vegetariane; le spirituali non religiose; e le confuse, e le smarrite; quelle “tra due generazioni lunghe, i vecchi che invecchiano sempre più, i bambini che arrivano sempre più tardi”; quelle sole senza volerlo; e le incapaci di stare sole; le puttane gentili del mondo della notte (Bianchi preferisce le zoccole alle esibizioniste); le “Vagine Lignee nel mondo di giorno” (un virgolettato da L’intelligenza è un disturbo mentale); le pretenziose, le ipotermiche, le autoritarie, le narcisiste, le paranoiche, le disperate, le tatuate, le perforate, le autolesioniste, le emancipate, le annoiate, le femministe, le rivendicatrici, le vendicatrici e i vendicatori, le “Animalate” e gli “Animalati” che raccolgono la cacca del cane invece di pulire il sedere ai bambini, e i sottomessi, gli inaffidabili, i mimetizzati da “giovani”, i lampadati e i depilati, i battutari e i narcisisti, e i timidi, gli asociali e gli egoisti – è ciò che Rivolta dice di essere – e i “doppiogiochisti o triplogiochisti o tetragiochisti”, i cugghiuni e i figgh’i buttana (a Milano si sente sempre meno parlare il caro milanès); i lettori che tra gli scrittori suicidi o ubriaconi optano per Ernst Hemingway e Raymond Carver e David Foster Wallace, e non per i due maestri di nome Charles, Baudelaire e Bukowski, per Drieu o per Celan; le lettrici che tra le scrittrici femmine scelgono inevitabilmente Alice Munro, se non peggio, ovvero qualche italiana, e non la Yourcenar o, meglio ancora per certi secondi fini primari, l’erotofilia di Anaïs Nin; gli esteti che ai film Clint Eastwood preferiscono i dipinti di Chagall, neppure Matisse e Wesselmann, e, per farsi mancare proprio tutto, alle armonie di Mozart, Chopin e Listz la monotonia di Gideon Klein.
Eppure resta un dato di fatto, vero a Milano come in ogni altra metropoli del mondo. Come sostiene Fini nel Di(zion)ario erotico, testo fondamentale: “La città è erotica, la campagna è sessuale. In città sono i ritmi accelerati, febbrili, ossessivi, nevrotici, la prevalenza dei lavori intellettuali su quelli manuali, la mancanza di fatica fisica, gli ambienti ristretti, la contiguità di molti individui, l’importanza che vi assumono i vestiti, l’abbondanza e la fantasia degli oggetti, il contesto tecnologico, il cemento, a predisporre a un sesso di tipo mentale”.
E l’erotismo, che come scrive lo stesso Fini è un fatto mentale, per lo più maschile, in cui la donna è preda e l’uomo predatore, col paradosso per cui l’atto sessuale interessa di più la donna, nella grande città resta comunque vivo, se non che in poche ormai accettano questa dinamica, pur sollecitandola.
Nella Città Grande le donne non guardano ma vogliono che le si guardi. Peggio ancora, vogliono esser guardate ma non vogliono essere guardate. In ogni caso di base non guardano, non osano, e se osano sono smarrite. Così, “anche nei posti pubblici, anche dove si presumeva che le persone avessero interessi analoghi, la gente, se la osservavi, distoglieva gli occhi, perché girava questo luogo comune che se un uomo guardava una ragazza allora era perché voleva scoparsela e poi non richiamarla mai più, e se una donna guardava un uomo era una troia in cerca.”
È una Milano atroce che ne viene fuori male, anzi malissimo, che è specchio di una società in cui “sei vulnerabile se non sei crudele a tua volta, non sei perdonato, non sei nemmeno perdonabile”.
È una Milano ansiogena e del tutto priva di spontaneità. Una Milano che macina “vite, intenzioni e aspettative”. Una città che non perdona né la vecchiaia né la povertà. Una città nella quale le librerie “vivevano più di aperitivi che di libri, i libri non li comprava più nessuno”. Una Milano realistica, e quindi orrenda. Ricolma di donne sempre più conformi. Donne piene di pensierini prefabbricati. Che al concetto di radical chic possono esser ricondotti ma non ridotti, e qui sta l’interesse del libro. Bianchi, attraverso lo sguardo di Rivolta, si fa analista, moralista.
Un analista non da psicanalisi. Un moralista in senso classico. E un “uomo intransigente”.
L’oggettività, le evidenze, informano crudelmente il suo stile, esito di una nobile, sofferta, lucida sprezzatura conservatrice nei confronti di questo mondo e degli altri, ma anche e innanzitutto di se stesso (“sono un po’ malato e un po’ matto e un po’ coglione”).
Ma non si ferma agli oggetti e ai gesti, alle formule e alle parole. Mira dritto, per quanto possibile, al cuore, al punto del problema. Consapevole che la ricostruzione resta incerta, imprecisa, oziosa. Mezza necessità di un animo sensibile e ribelle, ovvero maschile. Mezza frivolezza di un uomo che non lavora più e vive di rendita. Eppure…
Eppure pesano i rammarichi, i gesti non fatti, i baci non dati, le parole di troppo, e quelle non dette, “tutto quello che sarebbe potuto essere e non è stato, ma non è detto che le cose sarebbero state diverse o migliori, […] le cose sarebbero andate per conto loro, anche peggio, e io comunque non posso saperlo, come sarebbero andate le cose se”.
I se, da cui Rivolta si dice attanagliato sin dalle primissime pagine di Per sempre vostro (“Per me […] ogni giorno passava con un senso vano di rimpianto”), per poi esplorarli ben più a fondo nelle memorie fanciullesche de L’intelligenza è un disturbo mentale.
I se. La ricerca delle occasioni perdute. A partire dalla prima donna di cui si era innamorato, “una matrice per un modello che lo avrebbe segnato di lì a sempre”.
I se. Il ricordo delle donne immaginate. Troppo differenti da quelle di oggi, che non sono più “le femmine, con i loro capricci e le riconciliazioni appassionate”.
I se. La decadenza della società italiana. Avesse avuto la possibilità, lui come i suoi coetanei e i più giovani, di vivere in un paese diverso, quello di decenni fa…
“Una società di vegliardi che avevano goduto dello sviluppo economico e adesso erano lì a passare l’eredità ai figli, i quali ne avrebbero goduto nello stesso tempo in cui perdevano il lavoro o si accontentava no di mezze carriere, là dove i genitori avevano riposto in loro aspettative sconvolgenti. […]
Del resto la mia era una generazione che viveva sull’eredità di un mondo in via di sparizione, su patrimoni grandi e piccoli accumulati nei decenni prima dai nonni e dai genitori, sul lavoro fatto nel dopoguerra, durante una crescita che ormai non c’era più da anni, si era fermata del tutto un decennio prima. […]
Purtroppo io da anni non avevo rapporti con la realtà vera e costruttiva di chi incide in modo pratico sul mondo, avendo frequentato la civiltà arcaica dei giornali e delle case editrici, e un mondo letterario che era ormai solo un sottobosco sociale e non contava nulla e non produceva reddito alcuno.”
Bianchi non esita a criticare i libri, specie di scrittori italiani, il giornalismo, le presentazioni, le librerie, l’editoria (“Gente di una cattiveria luciferina”), un ambiente con cui ha convissuto ed evidentemente convive controvoglia, ma non solo, dà conto di una strana impressione per cui i libri possano arrivare perfino a soffocare, a inficiare, a distruggere una storia d’amore in fieri.
“I libri ci opprimevano, per quanto ancora non ce ne fossimo accorti. I libri cercavano di distruggerci. Le idee astratte ci minacciavano. […] Alla fine eravamo sempre impantanati nei libri. […] Gira e gira e ravamo sempre in qualche libreria”…
I libri, i grandi classici, sono tuttavia il nutrimento intellettuale di Rivolta, che in Donne smarrite, uomini ribelli più volte si trova a prendere, sfogliare, chiudere e riporre i libri di autori italiani, mai citati credo per disgusto più che per rispetto, dunque per non imbrattare le pagine del suo romanzo con nomi e titoli poco degni, mentre ne L’intelligenza è un disturbo mentale facevano capolino Il grande Gatsby di F. S. Fitzgerald e la Ricerca del tempo perduto di Proust a far da spunto al lavorìo mentale tra passato e futuro, in un presente che sfugge.
Rivolta scrive su un quaderno della Cura e della Lotta. “E ci scrivo gli inizi dei libri che leggo, che sanno raccontare gli affanni. Ricopio dai grandi. Poi non sono soddisfatto nemmeno così, perché non sono neanche abbastanza piccolo da tacere sempre. Per i due terzi della mia vita ho scritto, però adesso, dopo le tempeste, scrivo per agire”.
Ricopia l’incipit delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, che informa alcune frasi d’autoanalisi, autodenigratoria, in cui si dice a sua volta odioso, malvagio, malato (“Se l’umanità era malata, lo ero anch’io” – “L’umanità era malata, e dunque io pure”), sprofondato in un sottosuolo che, come ha scritto Fausto Malcovati, “è negazione, distruzione delle abitudini sociali cristallizzate, è rifiuto delle fissità convenzionali, è maledizione della solitudine”, stato di rivolta.
Lo stato bipolare, depresso, ansioso che sia, approccia, nelle sue crisi, la verità che agli altri sovente sfugge: “Poi ho pensato che le crisi, quando si è dentro nella morsa della Tenaglia, hanno come unico vantaggio, sempre che lo sia, di conferire una forte lucidità di giudizio sul mondo. […] Per questo era così duro sopportare una crisi, perché era come se l’ansia e la verità, a un certo punto, si trovassero a coincidere. E quella cosa era abbastanza vicina alla disperazione.”
Ricorda, ancora ne L’intelligenza è un disturbo mentale, come la sofferenza non sia sempre definibile e mai davvero misurabile (“Non si può quantificare il dolore, non c’è una unità di misura, non si può calcolarlo con il dolorimetro”), e come ogni sintomo sia non solo una pena ma anche un segno (“Una mia amica psicologa dice che il sintomo è la salvezza e che senza i sintomi impazziremmo tutti”), ed eccolo sintomatologo, denunciatore della decadenza nei suoi dettagli.
Ne scrive. Ma scrive anche che: “La scrittura non è terapeutica”; sa che non guarisce; eppure vuol guarire; vivere. Non buttare via la vita con la psicanalisi. Non buttare via l’energia e la vita dagli psicanalisti. E scrive che scrivere “non aiuta, anzi ti trascina in basso”; ma sente anche che “finché scrivo, sto ancora vivendo”; e può testimoniare… E la sola maniera che conosce è scrivere.
Il suo “voglio vivere”, elegante, sommesso, trattenuto, ricorda il grido vitale di un Miller. Un grido vitale quasi sempre assente dalla sconfortante teoria di mortiferi romanzi italici. Mentre a riguardo da questo libro si può attingere in lungo e in largo quanto ad aforismi – alcuni devastanti (“Distruggere un amore è difficile quasi quanto costruirlo”) altri illuminanti:
“[R]ipenso che c’è molto della politica nell’amore. Se la politica alla Von Clausewitz è la continuazione della guerra con altri mezzi, e l’amore è guerra, anche l’amore non può essere che continuazione della politica con altri mezzi.
La politica è, come la guerra, l’arte di conquistare ed esercitare il potere. L’amore è l’arte di conquistare ed esercitare il potere. Più che l’amare, conta l’essere amati. Chi è amato vince. Il fuggire in amore è solo una ritirata strategica”.
In un paese che offre ormai per lo più romanzi inutili (di fronte alle prose di un Baricco, di un Saviano o di un Serino devo fermarmi alla prima pagina), troppo un americanismo d’accatto, da epigoni di Eggers, Ellroy e Wallace, e pseudo rocchenrol da provinciali – nel senso più negativo del termine –, sotto vuoto spinto, tra nichilismo, giochino adolescenziale e culturame paratelevisivo, in una scena cui anche le voci migliori come un Brizzi non sono più scintillanti come ai tempi di Tre ragazzi immaginari (l’ultimo romanzo italofono che – fanno esattamente vent’anni – ho letto il giorno in cui è uscito), è semplicemente bello sapere che c’è ancora un romanziere che scrive di sé, davvero di sé – ossia della realtà, l’unica vera realtà –, e delle persone, degli incontri, delle relazioni senz’altro filtro se non quello della più semplice classica eleganza, come fa Bianchi in Donne smarrite, uomini ribelli…
Un libro buono per non dimenticare che, donne e uomini, maschi e femmine, in fondo ci troviamo “nella stessa barca di altri innumerevoli ricercatori di sé, di un senso e di un posto nel mondo”. Eppure, è in realtà un romanzo più di disamore che d’amore. Perché è un libro in cui la storia d’amore è l’allegoria di altro. Ovvero di un mondo culturale, letterario in totale decadenza. Nel quadro di un paese ideologizzato, e anch’esso alla deriva.
Rivolta, e come lui lo stesso Bianchi, è l’uomo in rivolta, l’uomo necessario nelle lettere ma anche e soprattutto fuori dai libri. È l’uomo che ama, che vuole aprirsi al mondo, al sensuale, al possibile, al futuro, ma anche conservarsi, conservando il meglio. A dispetto del fatto che ciò possa dare l’impressione d’indietreggiare risospinti dalle onde del tempo (“Se il mondo cambia e noi non cambiamo di conseguenza, se siamo conservatori, abbiamo l’impressione di essere lasciati indietro”). E anche a dispetto del fatto che ciò possa dare l’impressione di esser dei provocatori e dei ribelli (“Chissà quanto cafone mi aveva trovato, fare il provocatore e poi mettermi addirittura a leggere, senza contare quanto avevo bevuto”). Perché, e questo è il dato che emerge prepotentemente dal romanzo di Bianchi, in questa drammatica fase storica e ideologica, una cosa sembra comportare necessariamente l’altra.
O forse si tratta soltanto del ritorno eterno di ciò che sottolineava Solinas relativamente ai grandi romanzieri degli anni Venti, misoginia e romanticismo vanno a braccetto.
Con intelligenza e sensibilità, a dispetto di tutto e più di tutto della stupidità delle tentazioni gnosticiste che allignano ovunque: nella censura puritana di sedicenti eletti, in una vera e propria caccia alle streghe; in una sorta di maccartismo progressista; in una moralizzazione sempre più pervasiva; nelle tentazioni delle astrazioni ideologiche; peggiori di ogni tentazione erotica o carnale. E se l’amore non può esser saldo come una roccia, che sia vivo come un albero o un felino, o magari come una piccola onda…
Ricordandosi che, come ha scritto Ernst Jünger nel suo Trattato del Ribelle, anche se si è cavalieri: “Il ribelle non si aspetta che il nemico accetti i suoi ragionamenti, né, tanto meno, che si comporti secondo le regole della cavalleria. […] Il ribelle conosce una nuova solitudine introdotta dalla malvagità che si è accresciuta in modo satanico”.
Jünger è decisamente puntuale… L’etimologia è d’altronde chiara: il modus satanico è quello della divisione, l’opposizione, l’ostilità, la separazione, il complotto contro l’altro; e se l’angelo del male è ribelle a Dio, nel romanzo di Bianchi s’intravede pure una possibile rivolta del bene.
La definiremo amore e speranza.
Per chiudere, mi perdonerà il romanziere se ho esagerato con l’identificazione tra autore e personaggio, la quale d’altronde mi pare vada quasi tutta a sua gloria.
Marco Settimini