03 Luglio 2018

“Sono tutte stronza@@ quelle dei giornali super partes!”: Alessandro Sallusti dialoga con Matteo Fais di giornalismo, Montanelli, Travaglio, Feltri, Berlusconi…

Parlandogli, ho come la sensazione di conoscerlo da sempre. Ma è solo dopo, ripensandoci, che comprendo: in realtà lo frequento a sua insaputa da anni, da che lo leggo sui fondi di “Il Giornale” e “Libero”. Ho studiato la sua prosa, le sue frasi, i punti e le virgole. Non so se se ne renda conto, ma c’è un qualcosa di intimo e bonario nel modo in cui mi si rivolge, un senso di comprensione paterna. Per una volta penso che sia bello entrare in contatto con uno dei propri miti, “di solito sempre deludenti” dice lui. Non è questo il caso. L’uomo che si definisce noioso, chiuso, poco propenso al contatto e per niente brillante come nei suoi scritti, ha invece in sé una forza inscalfibile che manifesta con compostezza e insolita umiltà. Come spesso mi capita quando incontro qualcuno che, pur senza averlo fatto intenzionalmente, mi ha dato molto, sento una strana forma di gratitudine nei suoi confronti di cui un po’ mi vergogno. In fondo, sono pochi quelli, almeno tra i giornalisti, verso cui senta di avere un debito: lui, Indro Montanelli, Oriana Fallaci, Vittorio Feltri. Degli altri salverei forse Travaglio e Scanzi. Quando finalmente riesco a mettermi in contatto con Alessandro Sallusti, lo travolgo con una mitragliata di domande. Non so dove abbia trovato la pazienza per starmi dietro. Scusandomi, senza che mi venisse chiesto, gli ho detto che mi serviva per tracciare un ritratto umano a tutto tondo. Era vero. Ancora di più, però, desideravo semplicemente parlargli e così mi sono diviso tra il ruolo di intervistatore e quello di spettatore di un momento che aspettavo da tempo.

Direttore, non le viene mai la voglia di mollare tutto? La criticano, la insultano, le danno del servo, la costringono agli arresti domiciliari. Come fa a sopportare tutto questo odio? Non si ritrova mai esausto e privo delle forze necessarie per continuare?

No, mai. Ho avuto una grande fortuna nella vita, fare il mestiere che sognavo fin da bambino. Di solito a quell’età si desidera diventare un astronauta, un calciatore, un attore. Io sognavo di fare il giornalista. E, per tutta una serie di fortuite coincidenze, ci sono riuscito. Conosco invece molte persone, amici, che nella vita hanno avuto successo, ben più di me, eppure quasi tutti sono tormentati dal pensiero di non aver fatto esattamente ciò che avrebbero voluto. Io, al contrario, ho avuto questo privilegio. Se mi dovessero chiedere “Hai mai lavorato un giorno in tutta la tua vita?”, risponderei di no. Essere pagati per ciò che si sognava di fare, non è un lavoro. Infatti, in sessant’anni, non mi sono mai alzato la mattina pensando “Oddio, devo andare a lavorare”. Una passione così forte non può che farti da corazza contro qualsiasi avversità.

Quando ha sentito per la prima volta la pulsione alla scrittura, prima o dopo essere entrato nella sede di un giornale?

In principio ci fu un grande equivoco, perché io immaginavo che fare il giornalista non consistesse nello scrivere, ma nel trovarsi nei posti giusti al momento giusto ed essere testimone degli accadimenti, dalla guerra a una partita di calcio. Mi piaceva l’idea di trovarmi sul posto e non avevo molto chiaro che poi, a un certo punto, il giornalista deve smettere di girovagare e cominciare a scrivere. Sicché, prima di un certo periodo, non avevo mai esercitato la scrittura. La mia storia è quella di una modesta famiglia di Como, una città di provincia, in cui il primogenito veniva mandato a studiare per fare da ascensore sociale alla famiglia. È il caso, per esempio, di mio fratello, che ha seguito tutto l’iter fino a diventare medico. Il secondogenito, cioè io, veniva solitamente mandato a lavorare. Pertanto i miei mi iscrissero all’Istituto Tecnico – sono perito chimico –, cosicché avrei poi avuto un posto sicuro in fabbrica. Io, però, che sognavo e brigavo per fare il giornalista, in quel periodo in cui nascevano le prime radio e tv private, nella seconda metà degli anni ’70, invece di andare a scuola, andavo a fare il galoppino. Addirittura portavo il caffè nelle redazioni, in particolare alla sede distaccata che “La Notte” di Milano aveva a Como. Morale della favola, marinavo la scuola e non aprivo libro. Così non fui ammesso alla Maturità… A furia di bazzicare nei posti giusti, cominciarono ad affidarmi i primi articoli e mi ritrovai nella situazione che, quando dovevo scrivere la parola “scienza”, non sapevo se ci andasse la “i” o meno. Avevo anche dei seri problemi con i congiuntivi. Mi ricordo che stavo alla scrivania, con davanti la macchina da scrivere, tenendo il vocabolario aperto sulle ginocchia per non farmi vedere dai colleghi. A quel tempo non ero ancora assunto, ero abusivo – realtà diffusissima allora. Ogni due parole controllavo se ci volesse o meno una doppia. Per cui, in principio, scrivere per me fu una sofferenza – proprio non sapevo farlo. Il rovescio della medaglia di tanta ignoranza è che sei portato a semplificare i problemi più articolati, non essendo in grado di trattarli nella loro complessità. Che cosa mi è rimasto di quell’inizio traumatico? Per cominciare, ancora oggi, quando mi siedo al pc per scrivere, soffro: una specie di trauma infantile, come quando si viene morsi da un cane e si continua di conseguenza a serbarne la paura a vita. La seconda cosa è che, in ragione della mia tendenza a semplificare, spesso mi capita che, quando qualche lettore mi incontra, la prima cosa che mi fa notare di un articolo non è tanto il fatto che sia interessante, quanto che sia scritto in modo chiaro. E questa chiarezza che mi è riconosciuta è, appunto, figlia dell’ignoranza, del non poter scrivere complesso a causa delle mie carenze. In ultimo, la semplicità è diventata un valore per me – la mia personale risposta a questo mondo in cui tutti complicano tutto, compresa la scrittura. Per fortuna, a quanto pare, qualcuno apprezza la mia scelta.

Su quali letture ha formato il suo stile?

Non sono state tante, perché da giovane non leggevo molto. Diciamo che la lettura è diventata solo dopo un dovere e una passione, con la maturità. Da ragazzino lessi comunque Salgari, interamente, perché accendeva le mie fantasie di poter essere un giorno un inviato in luoghi esotici. Da adolescente, credo di essere stato uno dei pochi ad aver letto tutto Buzzati. È un autore dotato di una semplicità di scrittura e una malinconia nelle quali mi ritrovo particolarmente. Non so se sia tanto o poco ma, se ho avuto un maestro di scrittura, quello è stato lui. Poi, un po’ più avanti con l’età, quando iniziai a bazzicare i giornali, presi a leggere le grandi firme come Montanelli, Prezzolini, Brera. Insomma, sono cresciuto leggendo “Il Giornale”.

Qual è il collega da cui ha imparato maggiormente?

In assoluto Vittorio Feltri, che è anche quello a cui mi sento maggiormente affine. Vittorio è ineguagliabile. Ho lavorato dodici anni con lui ed è stato un po’ il mio fratello maggiore. Devo a lui la mia maturazione finale. Tra gli altri citerei Paolo Mieli, del “Corriere”. Mi ha aperto gli occhi. È l’opposto di me, ma vedere in faccia l’opposto ti aiuta a capire chi sei e cosa vuoi.

Cosa legge Alessandro Sallusti oggi, quando non legge giornali o ricontrolla articoli altrui?

Per lavoro un po’ di tutto, ma nel tempo libero mi appassiona la saggistica, quella storica. Più che dal punto di vista degli eventi, però, la storia mi interessa come sguardo su alcune figure da Giulio Cesare a Napoleone, dagli Sforza a Benito Mussolini e così via. Mi piacciono molto anche le vite di matematici e filosofi.

Ho letto in una sua intervista che lei si definisce una persona scarsamente propensa all’affettività, a causa di una madre piuttosto fredda. I suoi editoriali, però, sembrano tutto fuorché algidi, distaccati e poco partecipati. A tal proposito mi chiedevo se per lei la scrittura, anche se giornalistica, sia una forma di terapia, cioè un modo per trasporre all’esterno quel che altrimenti la consumerebbe non trovando un altro canale di espressione?

Povera mamma, non essendo più qui, non può smentire… Guarda, non saprei dirti perché non sono uno psicologo. Non mi pongo mai domande di questo tipo, essendo un individuo molto pragmatico. Probabilmente è come dici tu, ma io non la vivo così. Nella realtà, sono molto più noioso di quanto possa apparire a volte leggendomi. Noioso e chiuso… In effetti, nella scrittura, mi concedo delle libertà che nella vita non mi prenderei. Però, sai, ognuno è figlio della sua storia, quindi… Forse hai ragione, ma non me ne faccio un problema.

Lei una volta ha dichiarato “Il giornalismo per tanti è una professione intellettuale, per me è un mestiere, nel senso più nobile della parola. È come fare l’artigiano, il fabbro, il calzolaio”. Le vorrei chiedere se sottoscriverebbe sul serio una simile affermazione. Non le pare che, nel suo caso – ma potrei citare anche quello di Vittorio Feltri –, ci sia un qualcosa che va oltre, diciamo una misura di dote artistica?

I talenti si esprimono in un mestiere. Quando dico che il giornalismo non è una professione, dico insomma che le lauree in giornalismo sono un’invenzione sciocca, un fatto di business. In che cosa dovrebbe essere laureato un giornalista? Un giornalista si occupa di sport, di cronaca nera, di economia. Non c’è una laurea che possa fornire tutti questi strumenti. Se uno vuole fare il medico, si deve laureare è ovvio. Così per l’ingegnere, o l’avvocato. Ma il giornalista!? Non è un caso che Vittorio Feltri non sia laureato, che io non sia laureato e che tanti bravi giornalisti di successo non lo siano. Perché il giornalismo è un talento che si seleziona e si esprime nella bottega e la bottega è il giornale. È come per lo chef. Non c’è un percorso di studi da giornalista. La professione, invece, presuppone una preparazione specifica. Il nostro mestiere è un mix tra capacità nelle pubbliche relazioni, nel senso che per fare il giornalista tu devi avere un network, qualcuno che ti passi le notizie, e una mentalità investigativa, perché devi saper vedere oltre ciò che appare – quello che appare è spesso una sceneggiata, è quello che accade dietro a essere interessante. Ci vuole inoltre capacità di sintesi e devi essere veloce, scrivere un articolo in tempi e spazi che non decidi tu. Tutte queste doti presuppongono un talento che o si ha o non si ha. I giovani che arrivano dalle scuole di giornalismo, e che non hanno frequentato la bottega, spesso non hanno questo talento. Potrebbero essere degli ottimi assistenti universitari o docenti, ma la furbizia e la velocità di fare il giornalista secondo me non ce l’hanno come ce l’avevano quelli che uscivano dalle redazioni dei giornali.

Lei come lo scrive un articolo? Prende appunti prima, butta giù di getto? E, soprattutto, quanto lavora su un pezzo prima di giudicarlo valido per la pubblicazione?

No, non ci lavoro granché. Tra il trauma di cui parlavo prima, per cui per me iniziare un pezzo è una sofferenza, e una certa pigrizia, mi metto a lavorare sempre all’ultimo momento utile. Di solito non ho idea di cosa scriverò. Quando inizio, poi, spesso non so come svilupperò il pezzo, o come lo concluderò. Mi metto lì e scrivo tutto di getto, cercando di essere breve. È uno degli insegnamenti che mi ha trasmesso Montanelli: “Alessandro, quello che non riesci a dire in 60 righe è inutile che lo scrivi, perché non riuscirai a dirlo neanche in seimila”. Un altro suo consiglio, che sempre seguo, diceva invece: “Se scrivi di una persona, devi dire che è una testa di cazzo. Se scrivi di un paese, devi dire che è un paese di merda”. Quindi, per intenderci, prendiamo il fondo di domani. Ho deciso che lo farò io. Sono le 17:45. Tra un’ora, mi siederò davanti alla tastiera e non ho la più pallida idea di cosa scriverò. Se mi dovessi chiedere: “Ma almeno l’argomento di cui parlerà?”. Niente, non ne ho la minima idea.

Volevo chiederle, giustappunto, di Montanelli. Ci racconterebbe qualcosa del grande giornalista che lei conobbe nei primi anni di lavoro a “Il Giornale”?

Mah, guarda… È inutile che lo dica io, Montanelli è Montanelli. L’ho conosciuto perché venni a lavorare qui a “Il Giornale”, verso la fine degli anni ’80. Immagina l’emozione. Ero cresciuto, come ti ho detto, con il suo giornale in tasca. Era l’unico quotidiano che leggessi, quindi lui per me era una specie di mito. Però, lascia che te lo dica, i propri miti è meglio non conoscerli. Perché scopri che sono degli uomini come tutti noi, con le loro debolezze, le loro furbizie, i loro egoismi, le loro cattiverie… Sono degli uomini, straordinari, ma pur sempre uomini. E lui, che per me era un monumento, una specie di Dio, dopo averci lavorato un anno… non è che cambiai il giudizio di merito, ma era anche un po’ stronzo, un dio stronzo.

Un giornalista della parte avversa che apprezza particolarmente e perché?

Marco Travaglio. Ho in corso ventisette cause con lui e ci diamo reciprocamente del figlio di puttana in televisione, ma trovo che sia molto bravo. Secondo me recita una parte e crede forse al cinquanta percento di quello che scrive, se non a niente, però devo dire che ciò che fa lo fa bene. È un po’ come Gianfranco Fini. Mio padre, che era un suo ammiratore, mi disse che gli piaceva perché non dice niente, ma lo dice benissimo. Secondo me Travaglio è della stessa pasta: non dice un cazzo, ma lo dice talmente bene che sembra tutto interessantissimo.

Anche Vittorio Feltri mi ha confessato di ammirarlo. In generale, direi che Travaglio è ben visto dai giornalisti di destra.

Non solo dai giornalisti! Ti dirò di più. Una delle mie più grandi frustrazioni è che il Presidente Berlusconi, al mattino, non manca mai di leggere per primo “Il Fatto Quotidiano”. Ma, giustamente, le persone intelligenti piacciono alle persone intelligenti. Ci tengo comunque a dire che io non odio Travaglio e non ho nemici personali, solo politici. Altrettanto dicasi per Santoro, che adesso sembra bollito, una specie di guru che vaga per il mondo senza sapere cosa fare. Ma il Santoro di dieci anni fa era tutta un’altra cosa! Di recente l’ho incontrato al Quirinale, per la festa del 2 giugno. Gli sono andato vicino per salutarlo e per domandargli come stesse. Mi ha risposto: “Sto male, sono malato, molto malato”. “Oh cielo”, gli ho chiesto, “ma cos’hai?”. “Una malattia tremenda”, mi ha fatto lui, “comincio a pensarla come te”.

Lei come ha cominciato, con la macchina da scrivere? Com’è stato, poi, il passaggio al computer? Feltri mi ha detto che scriveva con l’Olivetti fino all’anno scorso, poi è stato costretto a passare all’iPad perché nessuno gli trascriveva più gli articoli…

Vittorio ha appena dieci anni più di me, però quei dieci anni hanno segnato una differenza di prospettiva fondamentale. Io ho avuto l’onore di essere tra i primissimi giornalisti in Italia a usare le nuove tecnologie. “Avvenire”, dove ero andato a fare danni, prima di approdare a “Il Giornale”, fu all’avanguardia in tal senso, sostituendo fin da allora le macchine da scrivere con i computer. Devo dire che comunque io non sono mai stato contrario, perché li trovo di una comodità unica. Questo a differenza di Vittorio che ci ha fatti impazzire per anni con quella cazzo di macchina da scrivere! Anche lui, come me, ha la tendenza a tirarla fino all’ultimo minuto. Poi, dopo che ha scritto, deve far sistemare il pezzo dal suo correttore di bozze personale, poi torna indietro e poi lo rilegge e poi deve essere ribattuto, ma la battitura deve essere riletta – roba che, per pubblicare un suo pezzo, ci vogliono tre ore di lavoro. Io glielo dicevo, ma non c’era verso. Adesso, ha confessato anche a me di essersi convertito.

L’impressione che ho, quando vedo una sua apparizione televisiva, è che lei si senta vagamente a disagio. Si trova meglio a scrivere, giusto? C’è qualcosa che le dà in più la scrittura rispetto al trovarsi sul piccolo schermo?

Sì, perché la scrittura esclude la fisicità. Io sono molto timido, un po’ orso, introverso, e quindi la televisione per me è una sofferenza. Mi pesa dover cercare di apparire vivace, brillante. È molto faticoso. Tant’è vero che ritengo più interessante la radio, malgrado ne faccia poca, perché è più simile alla scrittura, escludendo anch’essa, completamente, la dimensione fisica. Sai, in tivù non è importante solo quello che dici, ma conta la postura, l’inquadratura, la faccia che fai. È un lavoro, un lavoro che io non so fare, ma che riesce invece benissimo per esempio a Marco Travaglio, un attore nato. Quindi vado in tivù soprattutto per dovere, oramai. Malgrado ciò, ti dirò, all’inizio è anche gratificante, perché il grande pubblico ti riconosce soprattutto attraverso il piccolo schermo e non certo per gli articoli. Ma, insomma, mentirei se ti dicessi che non provo ogni volta una pena terribile.

Come si trovava al “Corriere della Sera”? Ha qualche episodio particolare da raccontare?

Beh, per un giornalista, entrare al “Corriere”, è come per un pilota salire sulla Ferrari – è il coronamento di una vita, un traguardo pazzesco. Di quei tempi ho tre ricordi, in particolare. Il primo è che, quando arrivai, il Direttore Stille mi rovinò il sogno che attendevo da una vita. Il giorno in cui mi doveva assumere, aspettavo nel corridoio della direzione. Dopo mezz’ora spuntò questo ometto, Ugo Stille appunto, con due borse dell’Esselunga piene di frutta, verdura e quant’altro. La segretaria mi disse di accomodarmi. Aveva appoggiato le due borse sulla scrivania. Lo odiai, perché non è possibile, mi capisci, che tu aspetti tutta una vita di essere assunto al “Corriere” e questo ti mette le buste della spesa sulla scrivania che fu di Albertini. Ciò per quel che riguarda il mio ingresso. Il durante, tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, fu molto avvincente perché, quando alzavi il telefono e dicevi “Buongiorno, sono Sallusti del ‘Corriere della Sera’”, dall’altra parte sentivi sbattere i tacchi. L’Italia, chiunque, politici e non, si mettevano sull’attenti. È certamente vero che i colleghi del “Corriere” sono molto bravi e molto professionali, perché selezionati bene, ma è anche vero che hanno un biglietto da visita che da solo fa il settanta percento del lavoro. Vorrei far osservare, comunque, che non si tratta di un giornale indipendente come vorrebbero far credere. Ho avuto più problemi lì che non a “Il Giornale”, in quanto a indipendenza dall’editore. Ma non solo io, anche i colleghi più alti in grado e i direttori. Il terzo ricordo è quello del mio abbandono, dopo tangentopoli. Avevo capito che, entro quella linea giustizialista, non mi ritrovavo. Mi sentivo a disagio, e te lo dice quello che allora tirò fuori l’avviso di garanzia per Berlusconi. Quando andai a dimettermi, non ci volevano credere, perché nessuno si dimette dal “Corriere”. Pensavano scherzassi e, quando alla fine si convinsero – e questo è uno dei momenti che ricordo con maggior orgoglio –, alla sera dell’ultimo giorno, mi chiamarono in sala Albertini, la sala grande delle riunioni, con una scusa e… Non dico ci sia stato tutto il “Corriere”, ma c’era tanta gente. I colleghi mi avevano fatto fare una targa, come regalo.

Che responsabilità comporta essere il Direttore di un grande quotidiano nazionale? Quanto deve lavorare ogni giorno e in coordinamento con quante persone?

Cominciamo con il dire che ognuno fa il direttore un po’ a modo suo. Personalmente, ne ho avuti tanti e ti posso garantire che non esiste una modalità standard per svolgere questo ruolo. Io, al di là della retorica, lo faccio come facevo il cronista. Certo, c’è una responsabilità maggiore, ma sai, i giornali medi e grandi hanno delle strutture tali per cui si fanno in buona parte da soli. Il direttore, più che altro, sceglie e coordina. Io, comunque, amo stare in redazione il più possibile e realizzarlo materialmente. Sono quasi più un caporedattore che un direttore. Partecipo a tutte le riunioni. Per quel che riguarda il lavoro in comune, sai, la cosa importante è, come in ogni staff, circondarsi di gente brava, in sintonia, che non ti crei problemi ma che te li risolva.

Dei giornali attualmente presenti sul mercato, secondo lei, qual è il peggiore e perché?

“La Repubblica”. Non che mi voglia ergere a loro giudice, ma un giornale deve avere un’anima, degli amici e dei nemici. Sono tutte stronzate quelle dei giornali super partes. I giornali sono sempre di qualcuno, quindi sono di una parte! Se mi dicono che io sono super partes mi incazzo, perché un uomo o tifa Inter o tifa Milan, o è etero o è gay, o crede in Dio o non crede in Dio, quindi non è super partes, bensì ha le sue idee. Un’altra cosa è dire che l’informazione deve essere onesta e leale… Quello sì, ma non super partes! “La Repubblica”, da diversi anni, diciamo dal tramonto del berlusconismo nel 2011, ha perso il suo baricentro. Adesso è un giornale che vaga, senza che si capisca dove, e lo fa in maniera retorica, a volte patetica. Ha fatto tutta la campagna elettorale parlando del pericolo di un fascismo di ritorno in Italia, con Casapound che poi ha preso lo 0,6 %. È un giornale radical chic che, avendo smarrito il suo nemico, ha perso la bussola. Io fatico anche a sfogliarlo.

“Il Giornale”, quando fu fondato da Montanelli, aveva nella sua rosa di collaboratori delle firme d’eccezione come Nicola Abbagnano per la filosofia, Mario Praz per la saggistica, Sergio Quinzio per la teologia. Secondo lei, la squadra attuale può ancora reggere il confronto con quella delle origini?

No, non può. Io mi vergogno profondamente di essere seduto in questo momento alla scrivania che fu di Montanelli, perché il paragone non tiene nella maniera più assoluta. Ma come mi salvo? Come salvo me e tutti i colleghi? Ognuno è figlio del suo tempo. Quel tempo lì, quella classe intellettuale e giornalistica di allora, figlia dell’Ottocento, formatasi alla scuola dell’Ottocento e che ha attraversato buona parte del Novecento, non c’è più; ma, se Dio vuole, è l’Ottocento a non esserci più. Siamo nel 2018 e non sussiste la possibilità di un paragone. In secondo luogo, se è pur vero che “Il Giornale” aveva tutto quel fior fiore di menti, non dimentichiamo che c’erano anche degli editori che a fine anno sanavano i bilanci, senza battere ciglio, qualsiasi fosse la cifra. Questo è stato un grande giornale, un giornale con firme importantissime, ma allora perdeva miliardi di lire e poi milioni di euro, per cui, per sistemare i conti, arrivava il perfido editore Berlusconi a staccare un assegno. Oggi nessuno stacca più l’assegno. Sono dei costi che non sono attualmente sostenibili e non solo dalla nostra redazione. Io ho fatto l’inviato in un’epoca in cui, per una sparatoria a Tripoli, partivano due giornalisti e tre fotografi. Adesso non è più così, ma non avrebbe nemmeno più senso, dal momento che la sparatoria la si può vedere in diretta su YouTube. Per rispondere alla tua domanda, dunque, se tu paragoni Montanelli a Sallusti viene da ridere e io sono il primo a farlo. Sallusti è un figlio del Novecento proiettato nel 2000, Montanelli è un figlio dell’Ottocento proiettato nel ’900.

Cosa è rimasto a “Il Giornale” dello spirito e delle motivazioni che animarono Montanelli al momento della fondazione?

Tanto! Lo so che può non sembrare così e che pochi ci crederanno, ma c’è ancora quello spirito liberale e liberista, quella volontà di contrapposizione al pensiero unico dominante. Questo patrimonio, sia pure in tempi e in modi diversi, la famiglia Berlusconi l’ha difeso con le unghie e con i denti. Tu dirai che non può essere, dato che a un certo punto Montanelli se ne andò… La vera storia di Montanelli, e del perché se ne sia andato, forse qualcuno la scriverà un giorno, ammesso che qualcuno la conosca realmente, perché ne girano talmente tante versioni. Quella a cui credo io è che, essendo il suo editore entrato in politica, lui si sia detto: “Se ne scrivo bene, mi diranno che sono un servo. Se ne scrivo male, mi diranno che sono un ingrato. Quindi, non posso più stare qui”. Quello però era un problema che si poneva lui. Io, sinceramente, non mi faccio remore né dello scrivere male né dello scrivere bene di Berlusconi. Se ne scrivo bene è perché la penso esattamente come la sua parte politica. Ho girato tredici giornali, grandi, piccoli e medi, per cui ho conosciuto almeno tredici editori e ti dico che, uno liberale e rispettoso come la famiglia Berlusconi, non l’ho mai incontrato. Quando racconto questa storia, qualcuno fa una smorfia e mi dice: “Ci credo, ti paga”. L’obiezione è lecita, ma non corrisponde al vero. Certo domani mattina non troverai un fondo in cui dico che Silvio Berlusconi è un mafioso testa di cazzo, ma non perché mi dà da mangiare, solamente perché quello non sarebbe un gesto di libertà ma piuttosto un’idiozia. Questo giornale, del resto, non è solo “Viva Forza Italia, abbasso il PD”, ma ha delle sue idee sulla cultura, la società, l’etica. Questa è la nostra libertà e il patrimonio che ci portiamo appresso tentando di difenderlo, grazie a un editore che ci permette di farlo. Chi ci compra ne è consapevole e, infatti, non lo fa per caso, ma perché si sente legato a tutto ciò che noi rappresentiamo e che va ben oltre il partito di Berlusconi. Guarda, ti confesso che, se io ho dei nemici nell’apparato politico della classe dirigente del paese, questi si trovano in Forza Italia, proprio perché un politico inevitabilmente concepisce il giornale di riferimento di quell’area come la house organ del suo partito. Ma chi se ne frega di Forza Italia! Noi la sosteniamo, ma fare il giornale non è solo sostenere Forza Italia, piuttosto si tratta di portare avanti un’idea liberale che attraversa tutti i settori della vita.

Se posso permettermi una riflessione sul caso di Montanelli: era abbastanza chiaro che, nel momento in cui il mio editore, quello che mi aveva sostenuto salvandomi da morte certa, fosse sceso in politica… Beh, parliamoci chiaro Direttore, era ovvio che avrebbe chiesto un sostegno.

Certamente, poi soprattutto in quel momento. Ma la cosa paradossale è che Montanelli, dopo aver passato la vita a combattere le sinistre e il comunismo, quando arriva uno che scende in politica con il suo stesso obiettivo che fa, gli dice di no? A me sembra più una lotta tra prime donne. Per logica avrebbe dovuto sostenerlo, dire: “Finalmente arriva uno che vuole portare in politica quelle stesse idee che io su ‘Il Giornale’ difendo da decenni”. E, invece, se ne andò. Ripeto, il fatto è che due galli in un pollaio non possono starci.

In quella contingenza storica, a prescindere da quel che se ne può pensare, era chiaro che bisognava sostenere Berlusconi. E Montanelli avrebbe dovuto farlo per lo stesso motivo per cui lui per primo, in passato, aveva invitato a votare Democrazia Cristiana turandosi il naso: bisognava fermare a qualsiasi costo l’avanzata dei comunisti che, anche se non si dichiaravano più tali, erano pur sempre gli stessi di sempre.

Esatto. È per questo che non capisco quella decisione di Montanelli, che così facendo andò a portare acqua al mulino della Sinistra. Sbagliò nella sua valutazione. Ma c’è da dire che, allora, l’uomo era già in decadenza, purtroppo.

Con tutto il dovuto rispetto, ma dimostrò anche una certa ingratitudine…

Direi bene, visto che Berlusconi arrivava a fine anno e staccava l’assegno, senza nemmeno preoccuparsi della cifra… e non era piccola. Comunque, volevo salutarti con un bel ricordo che conservo del Maestro. Andando via, lui passava sempre dalla stanza dei giovani caporedattori e si fermava per una chiacchierata, mentre noi puntualmente parlavamo di figa. Una volta ci disse: “Beati voi, ragazzi, perché, vedete, a me non è che non mi tira più, è che non so più quando mi tira”.

Matteo Fais

 

Gruppo MAGOG