06 Aprile 2019

Che ci faccio qui? Viaggio in Siria: dalla città martoriata (e dove la parola guerra è un tabù) al monastero nel deserto, che ti cambia la vita

Sono partita per la Siria il 18 luglio 2018, in piena estate. Atterrata in Libano alle 3 di mattina, intraprendo il viaggio verso la Siria la mattina successiva. Ho un amore smisurato nei confronti del Medio Oriente, dell’Islam, delle persone che vi vivono e nessuno sarebbe riuscito a fermarmi. Ho intrapreso questo viaggio per sete di conoscenza. La mia vera destinazione era il monastero di Deir Mar Musa Al-habashi, a 80 km da Damasco, in provincia di al-Nabk, nel deserto. Prima della guerra, il monastero, risalente al 1200, era una meta turistica che accoglieva il mondo e, invece, quest’estate ero l’unica straniera. Nei due mesi trascorsi in Siria ho potuto osservare attentamente il viso delle persone che intravedevo o con cui ho stretto un legame di amicizia. Tra tante persone che ho conosciuto, tutti avevano una cosa in comune: erano sorpresi che fossi lì. Si domandavano per quale motivo avessi scelto la Siria e non un altro paese non martoriato dalla guerra. Era difficile far capire loro che volevo stare in quel posto e che nessuno mi aveva obbligato a farlo. Per loro ero una curiosità da studiare attentamente. Ricordo una ragazza che ho conosciuto lì, di nome Rita, l’unica che mi parlò della guerra, per tutti era un tabù, che mi disse: “il mio villaggio è distrutto, ma continuo a studiare e il mio sogno è vedere Venezia”. La parola “guerra” era tabù. Non si nominava. La vita, lentamente, riprende. Le donne si recano al “suq” (mercato) e in “majid” (moschea); i bambini giocano a calcio in strada. Tutto, piano, ha un nuovo inizio.

Ho trascorso qualche giorno a Damasco e ad Homs e ho visto palazzi distrutti o colmi di buchi di armi da fuoco e cercavo di immaginare come fosse la vita prima della guerra, come fossero quei palazzi, tentavo di immedesimarmi nelle vite di quella gente. Una suora di nome Houda mi disse che per tre giorni di seguito lasciarono un uomo morto per strada per far capire al nemico che sarebbe successa la medesima cosa a lui. Continuò dicendo: “uscivo ogni mattina per prendere il pane e la verdura, perché sono l’unica non sposata, non volevo che i miei nipoti rimanessero senza genitori se fosse accaduto qualcosa”.

In questa grande città ho anche conosciuto un ragazzo di quindici anni di nome Nicola: “una bomba verso le 13, uscito da scuola, volò dal cielo e colpì settantadue ragazzi, due di loro sono morti, io sono rimasto ferito al ginocchio”. Per paura che potesse ricapitare di nuovo quel bambino ha preferito non andare più a scuola.

In ogni caso, la mia vera destinazione era il monastero Deir Mar Musa Al-Habashi (a 80 km da Damasco), rifondato da Padre Paolo Dall’Oglio nel 1992. Sono arrivata intorno alle 18 ed ero immersa nel silenzio del deserto. Quel silenzio che dà pace. I miei occhi vedono il monastero incastrato nella roccia ed alto 1200 m. Mi sembrava tutto irreale, non credevo ancora di essere lì. Le montagne mi sembravano cartapesta. Erano talmente meravigliose che sembrava parlassero, che mi dicessero qualcosa. Si, quel posto ha una voce. Perfino il silenzio fa rumore. Per arrivare al monastero bisogna salire circa quattrocento scalini ed anche essi parlano, mi parlava tutto, come se ogni singola roccia mi volesse dire qualcosa e, per forza di cose, dovevo interpretare quelle parole nascoste. Anche nel deserto, ho capito, che c’è vita. Per entrare nel monastero bisogna attraversare una porta molto piccola e molto antica, risalente al secolo XI- XII, e varcata la soglia, ho ammirato altre meraviglie: il cielo pieno di colori. Era di un celeste e un rosa sorprendente. E poi, quella distesa di sabbia che paragonavo all’infinito.

Mar Musa è un ponte costruito nel deserto. Un ponte tra persone di religione diversa. Musulmani e cristiani si incontrano per aprire un dialogo. Mar Musa è luogo di ospitalità e di condivisione. Una cara amica conosciuta al monastero mi disse “non ho mai visto nessuna persona, andata via da qui, che non si è portata con sé qualcosa o che non è cambiata”. Ed è una verità.

Sono ritornata in Italia il 10 settembre, dopo due mesi passati in questo bellissimo paese. Concludo questo ricordo con un frammento del film Treno di notte per Lisbona, un passo che mi fa pensare molto a questo luogo magico e alle persone conosciute lì e che un giorno, sicuramente, incontrerò di nuovo: “Lasciamo sempre qualcosa di noi, quando ce ne andiamo da un posto: rimaniamo lì; anche una volta andati via e ci sono cose di noi che possiamo ritrovare solo tornando in quei luoghi. Viaggiamo in noi stessi quando andiamo in posti che hanno fatto da cornice alla nostra vita”.

Federica Paglia

Gruppo MAGOG