23 Giugno 2019

“Che Simone Cattaneo sia ogni giorno alla mia tavola, questo, è anche inutile ribadirlo”

Inevitabilmente, la morte di Simone Cattaneo è l’opera. Da quel baratro, un buco di sangue nero, si risale al verbo. Come da ogni suicidio – lì, come un interrogativo a uncino – si risale alla vita del suicida e alla sua interpretazione, di solito forzata, spesso fraintesa. Alterando di un tratto – il soffio di qualche ora – la cronologia, ho collocato la morte di Simone Cattaneo il 9 settembre del 2009. Non solo per eleganza, per dare cronometro al fato (9.9.09: per 3 volte ricorre il numero 9, che è la trinità triplicata, 3×3, abisso nell’abisso, strapotere del divino, il rovescio salvifico del numero addebitato al demonio). Mio nonno è nato il 9 settembre. Il padre di mio padre. Mio padre è nato nel 1949, sessant’anni prima del suicidio di Simone. Mio padre è un suicida. Si uccide nel 1989, vent’anni prima del suicidio di Simone Cattaneo. Così, immagino, l’icona del padre e quella di Simone coincidono, almeno nella teca del cervello.

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Nel 2004, nell’ennesima “Antologia dei poeti nati negli anni Settanta”, Lavori di scavo, Simone Cattaneo si presenta così: “Un desiderio di rappresentare la realtà mai colmato e insieme un desiderio di verità. Entro questi due termini gioco la mia poesia in un continuo rimbalzare spinto da un motore sconosciuto, in uno spazio privo di giustificazione e intriso di mistero”. Verità – che è desiderio – e realtà coincidono, sono entrambe intangibili: la realtà è vera e a quale verità allude? La poesia è ciò che è ingiustificato, sonda il mistero, lo sconosciuto. Simone Cattaneo, poeta d’acciaio, si esprime con la nitidezza di un monaco.

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Al contrario: non è la vita a fagocitare la poesia, si vive per poterne scrivere, perché ogni singolo gesto è alfabetico e anche la mano, infine, è una lettera, è un verso, la natura illuminata dell’endecasillabo.

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Verso il suicida si attua l’esagerata ammirazione – che è poi commiserazione – o il miserevole surplus di colpa. Simone Cattaneo è un grande poeta in sé, non certo perché si è suicidato.

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Dieci anni dopo possiamo scarcerare Simone Cattaneo – continuo a chiamarlo così, nome&cognome, per evitare il vaglio dei sentimenti, ora – dalla sua vita terrena, che è cenere, e concentrarsi sulla sua poesia, che ne è il resto, il residuo, il ghepardo d’argento. Da La pioggia regge la danza – la ‘placca’ del 1999 stampata da Atelier – a Peace & Love (Il Ponte del Sale, 2012), Simone Cattaneo ha compiuto la sua opera poetica, si è snidato del tutto, si è sondato fin nei recessi. La morte gli ha impedito il lusso della replica, lo ha conservato candido, ingiustificato, semmai.

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Dagli epigrammi, lampeggiate cuciture sottopelle, con cui Simone Cattaneo inizia, vent’anni fa (“Le tue dita sono un taglio aperto/ sulle mie spalle, condannano il sole/ ad una fugace apnea e frantumano/ la mia ombra che ancora/ ti viene a cercare”), Eraclito che predica asfalto, all’ultima natura, narrativa, che brutalizza i versi in un incrocio tra gli sketch di Martin Scorsese e le fustigate di Tacito (“Mia figlia ha finito la scuola dell’obbligo, ma non riesce a trovare/ un cazzo di lavoro, è troppo brutta./ Ogni tanto per fare qualche soldo, organizzo degli incontri con gli amici a casa mia./ Faccio accoppiare quelle due schifezze e gli amici mi lasciano qualcosa a fine serata”), c’è una continuità che esplora l’esatta ampiezza del proprio ossario verbale. Ciò che è costante – e che costa, rileggere, perché frantuma la mascella dei giorni – è la statura etica, in ustione, dei versi (“A fine agosto il tuono morde i lampi prima che piova e/ il cielo sembra sempre avere bisogno di un’autopsia/… Ormai è un furto ogni prospettiva di fuga”). Come si entra nella cella di un padre del deserto, piena di feci e di ratti felici, di morbo e di Bibbia, di carie e di ceri, e si urla per eccesso di sacro, cioè di dissacrato.

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Il 29 ottobre del 2012, esagitato dal ricordo, parlando del numero di Atelier dedicato a Simone Cattaneo (Numero 67, Settembre 2012), che resta la più importante rassegna critica dedicata al poeta, scrivevo, su il Giornale: “Perché la letteratura si accorgesse di un poeta ci è voluto il morto, il volo pindarico dal settimo piano di una palazzina di Saronno. La lirica dominante (quei brandelli di poesia che le grandi major editoriali stampano come morfina) degli ultimi trent’anni è corrotta dal clientelismo, favorita dall’indifferenza pubblica. Ciò non significa che qualcosa d’interessante non sia sbucato: le cattive azioni finiscono per procrearne di buone. Ma io non credo più a ciò che leggo in libreria. Per me la poesia è un tizio che svogliatamente mi offre il suo libro di liriche, fabbricato in casa, con la sapienza che le cose belle vanno custodite nel pudore. Simone mi ha insegnato che l’unico metro estetico ragionevole, in un tempo che non conosce cos’è bene e cosa è male, è il dolore. Quanti morti hai subito? Quanti dolori ti hanno trapanato? Più ne hai più la tua opera sarà autentica. Cari poeti, per scrivere una grande opera fatevi spaccare la faccia”. Nell’editoriale di quel numero di Atelier, Andrea Temporelli ribadiva che “fare letteratura davvero vuol dire sfondarla continuamente, andare sempre al di là di essa. Oggi più che mai, ciò significa avventurarsi nella propria solitudine e prendere terribilmente sul serio ogni cosa, con tutta la leggerezza di cui si è capaci… Gli scrittori sono bambini innocenti e crudeli, che nascondono sassi nelle loro palle di neve. Non serve mai in letteratura, alla lunga, far comunella, piuttosto condividere la fatica di una dura disciplina personale. Senza lagne. Anzi, a tratti, persino con gioia”. Che io rimpianga quella disciplina, che mi ha portato a questa clausura, è naturale, credo, per chi ha solo un paio d’occhi – ma molteplici sguardi – e li ha seminati da tempo.

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In ogni caso, ho scritto una sciocchezza. Non è vero che il dolore nobilita l’opera, che la grande sofferenza autentica la poesia. Il poeta è dentro ogni cosa, soffre ogni cosa, e resta se stesso – inspiegabile innocenza. Ma la poesia – questo è vero – ha un destinatario che non è di questo mondo, che trascende il proprio presente, il tempo. Se non ci fosse questa disparità verbale – la comunicazione tra gli incomunicabili e gli incomunicanti – non sarebbe poesia. Emily Dickinson che conserva i suoi fogli in un cassetto, nel nastro, perché siamo noi a scioglierli, ora; Arthur Rimbaud che dimentica i libri dal tipografo, ha altro da fare; Friedrich Hölderlin che regala i quaderni fitti di versi a un passante; Simone Cattaneo che dona manciate di versi per una edizione fuori commercio, per gioco. La poesia, per esistere, non basta da sola, non basta il poeta, non basta il verbo, non basta il lettore mortale; è affidata al caso, si perde predata dal rischio, ha cemento nel destino: può salvarsi o sbriciolarsi. Che Simone Cattaneo sia ogni giorno alla mia tavola, questo, è anche inutile ribadirlo.

Davide Brullo

*Ciò che si pubblica funge da introduzione al libro esegetico di Giorgio Anelli, “Simone Cattaneo. Di culto et orfico”, Giuliano Ladolfi Editore, 2019

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Ho imparato il termine infame

e il valore del digiuno

ho tramutato il sudore in fiore

e il fumo in benzina,

ho scavato la mia carne

come fosse una vela

e ho gettato sabbia sopra il pianto

ho creduto nella pena, nel silenzio,

nella domanda liscia della fame.

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Ti tagli le labbra con i denti

e mi sputi sangue più o meno infetto chissà poi da cosa,

sarà il tuo modo particolare

per scrivermi lettere d’amore e

rimango con il pomo d’Adamo imprigionato

in uno schiaccianoci a dirti solo

che è andato tutto come non avrei voluto

giuro, è andato proprio tutto come non avrei mai voluto.

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Non venirmi a parlare d’amore né di lavoro

non so nemmeno paragonarti al vento

figurati se mi può succedere qualcosa,

potrei svegliarmi di soprassalto dal rumore

del vetro sbriciolato e trovarmi riempito

di cinghiate chiuso nel baule della tua Alfa,

sarebbe un sogno, sbiadire piano nella mattina

in un lampo liquido di metallo.

Simone Cattano

Gruppo MAGOG