11 Settembre 2019

“Di chi amiamo alla fine non sappiamo niente, ed è questo vuoto che ci attira”. Se siete stanchi di credere alle favole, leggete Simona Vinci

Leggete Simona Vinci, non un libro in particolare, in questo caso potete davvero scegliere senza sbagliare, solo se siete stanchi di credere alla favole, se avete finito la pazienza coi lieto fine, se volete una lingua vera e diretta, se siete stufi degli sbrodolamenti letterari. Leggete Stanza 411 (Einaudi, 2006; 2018) solo se avete creduto in un amore che potesse essere speciale, sfondare il muro della felicità, mentre invece ha sfondato solo una cosa, il vostro cuore, quel che ne rimane, un residuo cardiaco che pompa per metà. Simona Vinci è brava, c’è poco da fare, una volta che si inizia con un suo libro poi si cercano gli altri, parte la sete e la voracità. Se però si parla di amore anche per i più bravi il terreno diventa incerto, il terriccio morbido da coltura diventa palude.

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La Vinci in Stanza 411 continua nel suo stile: narra di una storia d’amore e come tutte le storie che hanno un inizio e una fine, non è una favola, è una storia reale, e nella realtà non si finisce quasi mai in “vissero felici e contenti”. Che la fine sia diversa dall’immaginario romantico lo capiamo subito, il tono è amaro, non lascia grandi slanci di speranza, è una storia raccontata da chi rimane. E di solito chi rimane è solo, cerca le parole per trovare nella narrazione un indizio, una forma di premonizione contenuta già nei primi incontri con l’altro: “Gli inizi raccontano già tutto, a saperli, e volerli, guardare”. Se leggete questo libro per cercare delle risposte scordatevelo, in questa storia non ci sono vinti o sconfitti, non si trova l’amore e non lo si perde. Lo si vive, e l’amore ha tante forme, anche quando lo neghiamo “l’amore sa travestirsi, convincerti di essere qualcos’altro. Si rivela a distanza di anni, in gesti che credevi di avere rimosso, in volti che credevi di poter dimenticare. E ogni volta, ci si reinventa una prima volta”.

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Simona Vinci parla di un uomo e una donna che si incontrano per la prima volta dopo essersi immaginati e creati nelle lettere via e-mail scambiate prima. Sono due odori diversi, due pelli diverse, due ritmi diversi. Si incontrano, vogliono cose diverse, sono sinceri. Si amano, comunque, ci provano. I corpi che incontriamo spesso sono mutilati da dentro, hanno ferite luminose, invisibili, inaccessibili. Noi incontriamo la superficie, ed è solo il tempo e la volontà che ci aprono il vaso. Questa è una storia di due involucri perfetti fuori che si innamorano, un uomo e una donna che hanno vissuto, che hanno già amato, che hanno già fallito. Non è l’amore delle favole, non ci sono ragazzi, ci sono dei corpi adulti nella stanza 411 di un albergo a Roma, che sanno cosa stanno per fare, che sono consapevoli di quello che viene dopo. Eppure l’amore si traveste, a volte “Forse è di questo che ci si innamora: di qualcuno che ci viene incontro portando per mano noi stessi. Che ci riconsegna noi stessi. Di qualcuno che pare farci nascere di nuovo”.

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E quindi dell’altro cosa amiamo davvero? Forse abbiamo bisogno di ammetterci un po’ di falsità, cerchiamo e cerchiamo un altro. Ma un altro per cosa. Se quello che vogliamo forse è prepararci per ore e scendere sperando che qualcuno ci restituisca dai suoi occhi belli e eterni. Dell’altro amiamo la restituzione, quello che ci può dare, dell’amore conosciamo la mentalità commerciale, e la Vinci lo dice “è questo che ho sempre odiato – senza peraltro riuscire a sottrarmene – dell’amore: la sua mentalità da bottegaio”. Perché di chi amiamo alla fine non sappiamo mai niente, ed è questo vuoto che ci attira, che riempiamo con tutte le nostre proiezioni, con le aspettative, a volte anche con le speranze. Rendiamoci conto che le favole sono irreali, buone forse nemmeno per i bambini.

Clery Celeste

Gruppo MAGOG