28 Maggio 2020

“A quel punto, il buio diventerà luce, e vedremo lettere nere apparire sul foglio nero della nera notte”. Lux in tenebris: la pandemia e i suoi simboli

Gli slogan ottimisti diffusisi a macchia d’olio in questo annus horribilis sono testimonianza evidente del permanere, al cuore della coscienza occidentale, dell’umano troppo umano pregiudizio soggettivista e volontarista denunciato a più riprese, nel secolo scorso, dal filosofo tedesco Martin Heidegger. “#L’Italiariparte”, ad esempio, è un mantra secolarizzato, fondato sulla fede antropocentrica nella piena e libera autodeterminazione essenziale della collettività – e dell’individuo che ne è l’atomo primario e indispensabile. Locuzione sublimata dal sigillo sacrale dell’hashtag, porta regale verso un Altrove utopisticamente disposto, un de-lirium perenne, l’uscita ad infinitum dal solco dei ritmi più intimi del cosmo verso il non-luogo del virtuale. Solo il commercium – questa è la cantilena della mantica postmoderna – ci potrà salvare.

C’è, anche qui, lo zampino di Cartesio, il cui «compito» – è proprio Heidegger a spiegarlo – «fu quello di fondare il fondamento metafisico per la liberazione dell’uomo nella nuova libertà in quanto autolegislazione sicura di se stessa» (Il nichilismo europeo). Già qui si scorgono, in nuce, le radici della nietzscheana volontà di potenza. L’irrefrenabile volontà di volontà che oggi dispone, a colpi di tecnica (Gestell, nel linguaggio heideggeriano) e strategie economiche, l’oblio di ogni forma di alterità mediante la sua sistematica normalizzazione: non vi è tragedia, nel mondo soggettivista, solo posticipazione d’intenti in un futuro lontano (migliore, ça va sans dire) e dislocazione delle ragioni in un flusso infinito. Questo processo non è certo nuovo. È, anzi, ben più antico di quanto si possa pensare, eppure le condizioni storico-politiche degli ultimi mesi lo squadernano in tutta la banale atrocità di cui è portatore.

Al contempo, l’opacità dei giorni della clausura conduce alla riappropriazione di una dimensione domestica: Vesta – o la sua postmoderna parodia – torna a calcare la scena della storia. La visuale su di un mondo che sta per ripartire ma che sempre sottende il rischio estremo – quello dell’escatologia e dell’Apocalissi, residui inestirpabili dall’immaginario collettivo, persino quello dell’homo saecularis – è relegata alla propria dimora. La visione umana – sia essa lineare o sinestetica – è costretta a comprimere l’ampiezza del proprio raggio: #viewfrommywindow è il risultato ultimo degli infiniti orizzonti promessi dal virtuale. Palese eterogenesi dei fini. D’altra parte, nulla di nuovo sotto il sole: il Covid 19 si limita a mettere in risalto fenomeni già in atto. Con una impressionante potenza iconica, tuttavia. Quasi cinematografica.

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Anche il pericolo del demonico palesarsi di nuove forme di catarismo è alle porte. Riemerge quando le dita sulla tastiera, battendo sincopate, digitano: #SafeHands. Il cosmo è riletto sulla scorta del dualismo manicheo: le mani pulite, crisma di elezione, definiscono la comunità dei giusti. Gli infetti, tali per responsabilità propria, sono sottratti alla Grazia, in quanto esclusi, nell’hic et nunc, dalla Guarigione. Infatti «vi è un dio o un principio maligno, la malattia, appunto, i cui agenti specifici sono i batteri e i virus, e un dio o un principio benefico, che non è la salute, ma la guarigione, i cui agenti cultuali sono i medici e la terapia. Come in ogni fede gnostica, i due principi sono chiaramente separati, ma nella prassi possono contaminarsi e il principio benefico e il medico che lo rappresenta possono sbagliare e collaborare inconsapevolmente con il loro nemico, senza che questo invalidi in alcun modo la realtà del dualismo e la necessità del culto attraverso cui il principio benefico combatte la sua battaglia» (Giorgio Agamben). Lo spirito non soffia più dove vuole, ma solo dove l’umana ragione, per il tramite della scienza, impone e proclama.

Scompare il tempo vissuto, l’istante qualitativo frutto delle decisioni radicali, la sua multimensionale struttura spiraliforme: a regnare è il tempo uniforme e quantitativo scandito dagli orologi digitali che imbrigliano il tempo della vita. Ciò fa da pendant alla circoscrizione del luogo, tramite la riduzione degli orizzonti vasti, che profumano di avventura, all’angusto domicilio urbano – carcere, o cella di clausura, dalla fisionomia metropolitana. Anche questo dice del culmine dell’antropocene. La mascherina è, a sua volta, una maschera fallita, o forse un simulacro: testimonia il naufragio di una svolta antropologica che, principiando dall’individuo, anziché condurre alle vette assiali della persona (o del tipo) trascina all’indifferenziata e intercambiabile orizzontalità dell’atomo o rizoma. Un’altra conferma – non fossero bastate tutte le altre – dell’avanzata del postmoderno.

La peste che affligge l’umanità richiede d’altra parte dei responsabili: si ricerca l’untore, sia esso un animale esotico, uno Stato “canaglia”, i servizi segreti o la violenza degli ignoranti irresponsabili che mancano di rispetto all’ecclesia ecologista (e a Greta, sua somma profetessa). L’importante, tuttavia, è rimanere #TogetherAtHome, rinvenire, pionieri del Futuro, una nuova educazione alla socialità, scoprirsi umani con la prassi ritualistica di #QuarantineAndChill. Spetta a ciascuno di noi adattarsi, comprendere in interiore homine le rivelazioni della Scienza, adeguare la propria affettività, sessualità e spiritualità “ai tempi del Covid”. Per poi “ricostruire”: padroni, ancora una volta del “nostro” fato – oggi non più fatum, “ciò che è stato detto”, nell’orizzonte della trascendenza, ma semplice factum, “ciò che è stato compiuto”, nell’esperienza della prassi volontaristica dell’individuo che materializza nella cosa che fa la propria essenza orizzontale e reificata.

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Anche la filosofia contemporanea si è dedicata all’interpretazione di questo evento epocale, giungendo a conclusioni distinte, persino antitetiche: sottolineando i rischi biopolitici, in senso totalitario, che si evidenziano nei provvedimenti di emergenza adottati dalle democrazie occidentali – e non solo –, entro quell’ormai perenne “stato d’eccezione” che riduce l’umano alla nuda vita (Giorgio Agamben); discutendo il carattere ambivalente del virus, dotato di potenzialità trasformative di segno opposto, tanto dell’ambito politico, come di quello sociale ed economico: o il peggioramento dello status quo capitalista o l’auspicabile sviluppo di una consapevolezza nuova, a fronte della parziale delegittimazione del Sistema a causa dei suoi numerosi fallimenti (Slavoj Žižek); approfondendo la funzione del Covid come cartina tornasole rispetto a un’autorità statale ormai da tempo decaduta e “medicalizzata” (Roberto Esposito); mostrando le implicazioni di carattere metapolitico e simbolico in un processo che mina alle radici l’ordine unipolare della globalizzazione liberista e la sua ideologia mondialista (Aleksandr Dugin); rilevando (di contro alle interpretazioni precedenti), come proprio l’emergenza pandemica abbia richiamato la politica alle proprie responsabilità concrete e, al contempo, abbia abbattuto la logica del muro – «Se la “cultura” desolidarizza, se erige steccati e costruisce generi, se definisce gradazioni nella partecipazione al titolo di essere umano e istituisce orrendi confini tra “noi” e i “barbari”, il virus “accomuna” e costringe a pensare a soluzioni “comuni”. Nessuno nel tempo del virus può più pensare di salvarsi da solo né può pensare di farlo senza coinvolgere in questo processo la natura» (Rocco Ronchi).

Comprensibilmente, si tentano avvicinamenti – più o meno plausibili – al cuore pulsante di questo evento globale. Il logos filosofico fatica, tuttavia, a inquadrare la radicalità e contraddittorietà di un fenomeno dai contorni al contempo biologici, socio-politici, comunicativi, emotivi, simbolici e spirituali.

Se vissuto come tragedia, il nostro tempo provoca. Invita a simbolizzare la pandemia, a reagirvi individualmente e, al contempo, a entrare in contatto con un vasto flusso collettivo di intenzioni, aspirazioni, volontà. Il contemporaneo regno della quantità, tuttavia, impedisce una chiara formalizzazione intersoggettiva del fondo metafisico che vi rimane celato: i simboli sono rattrappiti, l’occhio spirituale è quasi cieco, la sintonia con l’invisibile è pura nostalgia – una ferita lacerante della Bellezza. Tradizionalmente, spiega l’artista Anselm Kiefer, «il senso è infinitamente presente nel segno». E precisa, con uno splendido esempio: «In ebraico (…) la lettera è sacra, è sempre carica di senso, anche nelle configurazioni fortuite e apparentemente assurde. Il suo significato può rivelarsi all’improvviso, nel momento in cui le lettere si riuniscono per formare dei concetti sensati, anche se la loro comprensione dovesse giungere secoli dopo» (L’arte sopravviverà alle sue rovine). Ma oggi, nessuno pensa di avere più tutto questo tempo. L’arte è tuttora anamnesi, ma invertita di segno: opaca, condensa stimoli provenienti da un futuro vacuo. L’Origine – che è insieme passata e futura – fatica a farsi presenza sensibile.

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Nello squallore contemporaneo, agli apparati epici, alle intuizioni profetiche, alle raffigurazioni esegetiche si sostituiscono invocazioni alla coscienza civile, vaghi riferimenti al patrimonio valoriale (ancora, dopo Heidegger e Schmitt, ci si può fidare dei valori?), la consacrazione, infine, della “resilienza” umana e della sua “performatività”. Come minuscoli insetti operosi, ci affanniamo a addurre spiegazioni razionali e concettose nella sala della formica regina: si persegue la decriptazione totale della realtà, la si saccheggia, ma di essa non si coglie che la punta estrema, quella più visibile, materiale, concreta, inoppugnabile. La si rischiara fino a farla sfavillare, ma si perde tutto il resto. Secondo alcuni – fra cui il già citato Ronchi – l’ombra del virus mostra, assurgendo a pedagogia, la precarietà dell’esistenza umana, ci abitua a un’idea più “sobria” della libertà. Eppure, a questo auspicio ottimistico, si contrappone la logica cartesiana che ammanta anche i nostri più buoni sentimenti: rimaniamo quegli «animali intelligenti» che «scoprirono la conoscenza», come spiega sconvolto Nietzsche, nel «minuto più tracotante e menzognero della “storia universale”» (Su verità e menzogna in senso extramorale): da quell’ardito tentativo di illuminare il cosmo si è pervenuti, nei secoli, alla sclerotizzazione illuminista (il “lumino” meccanico e castrante dell’Aufklärung). La “sobria” libertà ci è del tutto aliena.

A tanta lucentezza e visibilità esteriore, spasmodicamente ricercata, fa però da contraltare una tenebra – un regno dimenticato nella modernità (e postmodernità) – che rimane fonte viva, indicibile eccedenza, richiamo all’Ulteriore. È tale regno mitico e originario che «dischiude i suoi tesori surreali quando l’uomo è riuscito a oltrepassare la linea. Qui si posa l’eccedenza del mondo» (Ernst Jünger).

E se la luce che percepiamo fosse solo l’ombra di una luce oscura, ben più accecante?

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Non ogni notte è uguale a se stessa. Così, non ogni notte è una sola. Al suo interno si incrociano piani diversi. Una triade, stando ad Aleksandr Dugin: foschia, oscurità e tenebra. La foschia è un sintomo acqueo della notte (un cielo nebuloso), l’oscurità è invece uno «stato di estinzione» (il tramonto come processo di annullamento), la tenebra è «il cuore stesso della notte», la sua essenza. Anche la noche obscura de l’alma cantata da San Juan de la Cruz è tenebra: diversamente dal buio pandemico, si riempie di una luce metafisica folgorante. «I cristiani normali – ricorda Dugin – passavano la notte a pregare». E prosegue, volgendosi alla ritualità dell’ortodossia slava: «Nella Rus’ moscovita, chi non dormiva di giorno, dopo pranzo, era considerato un erotomane o un servitore del diavolo. Dopo la celebrazione, si mangiava e si andava a letto. Poi ci si svegliava, si mangiava di nuovo e si tornava a dormire. La sera, si celebrava. Nel ciclo cristiano, notte e giorno erano invertiti» (Teoria e fenomenologia del Soggetto Radicale).

Qui si penetra nei domini della mistica. Dei suoi silenzi abissali. E, pure, nel regno del mito. Il silenzio di cui vive ogni parola è infatti proprio quello del mito. Etimologicamente, la radice my- contiene il senso di chiudere gli occhi e la bocca (da cui il latino mutus): il mito è dunque il silenzio della parola; non la sua negazione o antitesi, ma il suo lato umbratile e originario. Una narrazione potente dell’umano richiede il rischiaramento del logos, come pure la tacita cura dell’enigma propria del mythos.

Come si può vivere il virtuale e l’età della disintermediazione alla luce del mythos? Sarà mai possibile comporre hashtag mitico-simbolici, inveramento – e non più parodistica inversione – dell’antica sapienza? Zolla, nel suo Uscite dal mondo, guardava con entusiasmo alla «creazione di realtà virtuali mediante occhiali magici». Vi scorgeva uno strumento di dissoluzione della realtà scientista del moderno attraverso un’espansione dei confini dell’esperienza (e della coscienza). Sarà davvero possibile, ci chiediamo ancora, che dal mondo della tecnica sgorghi rinnovata quella scintilla in direzione dello stato interiore descritto dalla letteratura indù come il regno in cui «è assente il desiderio, il futuro non è più atteso, nel presente non ci si posa, il passato non si rammemora, si è svegli dormendo e si dorme vegliando»?

Si tratta, in ogni caso, di acquisire un passo analogico: anche l’epidemia è un segno. Rappresenta un mondo di oscurità esteriori, materiali, che il razionalista epigono di Cartesio intende comprendere con strumenti di luce meccanici. Ma ci mostra anche, nella sua chiaroscura silhouette, quella tenebra interiore che brilla di una luce invisibile ma accecante. «Per leggere la notte, per decifrarne i caratteri, occorre trovare un luogo ancora più oscuro, scavare fino a raggiungere la massima coagulazione della tenebra. A quel punto, il buio diventerà luce, e vedremo lettere nere apparire sul foglio nero della nera notte» (Aleksandr Dugin).

Quella scrittura su cui, forse, proprio oggi, varrebbe la pena gettare uno sguardo. Per vivere paradossalmente quel contatto con la «luce che folgora al momento della morte» su cui lo storico delle religioni Mircea Eliade ha scritto pagine splendide. Intuendo che tale fiamma altro non è che «la stessa luce interiore che le Upanishad identificano con l’âtman: durante la vita terrena, questa è accessibile solamente a coloro che vi sono preparati spiritualmente attraverso le pratiche yoga o la gnosi. In fondo, la stessa situazione si ripete al momento della morte: la Luce si mostra a tutti, ma non è accettata – e fatta propria – che dagli iniziati» (Mefistofele e l’androgine).

Insistiamo: se la luce che percepiamo fosse solo l’ombra di una luce oscura, ben più accecante?

Luca Siniscalco

*In copertina: Anselm Kiefer, “Walhalla”, 2016

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