30 Maggio 2018

Silvio D’Arzo: un esempio in faccia all’industria editoriale che propina intrattenimento e urla sempre al capolavoro

Che delizia! Dieci anni fa. L’ho letto in una edizione d’arte, stampata dalla casa d’edizioni artistiche Nuages. Incipit memorabile. “All’improvviso dal sentiero dei pascoli, ma ancora molto lontano, arrivò l’abbaiare di un cane. Tutti alzammo la testa”. Proprio così, all’improvviso, nasce alla letteratura italiana un piccolo genio, un folletto narrativo, autore di quel testo, Casa d’altri, che pare folata angelica in bottiglia. Non l’ho letto nell’edizione d’ufficio, Einaudi; ma in quella Nuages, appunto. Tormentata dai disegni, d’infantile splendore, di Georgia Galanti. Un libro speciale. Che ti sta in palmo di mano. In appendice al testo, “la riduzione teatrale” di Andrea Nanni. Andiamo a teatro, allora. Che delizia decuplicata! Casa d’altri è, come si dice, ‘il cavallo di battaglia’ di Silvio Castiglioni (nella foto), attore di anomala bravura – nel senso che fa anomala l’attorialità, nasconde la ‘bravura’, “eccelle nel togliere, nello sfoltire”, come ha scritto Franco Cordelli – lo posso dire perché l’ho visto dal vero e dal vivo (insieme facciamo una rivoluzionaria lettura dei poeti russi del primo Novecento, per me è stato Ingmar Bergman). Silvio D’Arzo, ovvero Ezio Comparoni, morto troppo giovane (una settimana prima dei 32 anni) è davvero troppo bravo per essere vero, tant’è che quando, nel 1976, per la cura di Paolo Lagazzi, indagatore di magici orienti letterari, Garzanti pubblica il romanzo incompiuto Essi pensano ad altro, i più s’incazzano. Quel gesto fu preso come una laida macchia, una lordura a inacidire il ‘mito’. Il poeta pluridecorato Giovanni Raboni sbottò, “l’iniziativa rischia… di mettere in crisi anche la piccola, ma tenace ‘leggenda D’Arzo’ che per tutti questi anni ha perlomeno salvaguardato la sua fisionomia e la sua opera dalla cancrena dei fraintendimenti e dei semplicismi critici”. Ora, con un surplus di coraggio editoriale, Bompiani ristampa il libro (pp.224, euro 7,00; la prima edizione era di sedici anni fa), scoperto tra le reliquie inedite di D’Arzo, opera spavalda e giovanile – siamo a Bologna, anni Trenta, un Riccardo è in città per studiare e s’intende con Alberto, amico del padre, in un contesto di “visionarietà fantastica e un po’ stralunata” – confortato da una densa intro di Roberto Carnero (in totale, quasi cinquanta pagine), che non ‘giustifica’ ma contestualizza – e suggerisce nuovi legami, con Pirandello, ad esempio – il lavoro. E lo libera dalle mannaie critiche di quarant’anni fa, restituendolo alla gloria dei lettori. Ormai, non occorre più salvaguardare un ‘mito’, ma studiare con coerenza il tragitto narrativo di un grande scrittore.

Silvio D’Arzo. Definitivamente, delinea il suo ruolo nella narrativa italiana del Novecento. E poi: ha avuto seguaci oltre che segugi?

Sotto molti aspetti, D’Arzo rimane un unicum nella letteratura italiana del Novecento. È stato un grande minore e a lungo un grande dimenticato, prima della riscoperta a partire dalla fine degli anni Settanta e poi dagli anni Ottanta, con l’importante lavoro critico di Anna Luce Lenzi e di Eraldo Affinati. Non è un caso che questo revival darziano si collochi proprio soprattutto negli anni Ottanta. Se il racconto lungo (o romanzo breve) Casa d’altri è il capovaloro di D’Arzo, Casa di nessuno (prima edizione 1981) è il titolo del romanzo d’esordio di Claudio Piersanti. È evidente che Piersanti ha mutuato il titolo del suo libro, in sintomatica variatio, da quello di D’Arzo. Entrambi, D’Arzo e Piersanti, esprimono e rappresentano artisticamente un disagio, che è senz’altro individuale, ma che è anche soprattutto il disagio di due momenti storici (il secondo dopoguerra e gli anni Ottanta) in cui ci si sente irrimediabilmente “postumi”: rispetto ai combattimenti bellici e alla lotta per gli ideali di libertà nei tardi anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta; rispetto alle ideologie e al senso di un impegno politico militante ormai impossibile all’inizio degli anni Ottanta.

BompianiCommenti “Essi pensano ad altro” facendo un discorso generale, bilanciato su Blanchot e Benjamin, che riguarda il rapporto tra pubblico e arte. “La folla”, scrivi, nel romanzo di D’Arzo, “dell’arte non vuole sapere più nulla”. Analisi cocente. Che sintetizzo in due domande. Intanto: che senso ha riproporre un romanzo tanto acerbo – così la fantomatica critica – di D’Arzo? Poi: anche oggi la folla non vuole saperne di arte o esiste l’arte ‘di massa’ o è proprio il concetto di ‘arte’ che è mutato inderogabilmente?

È vero, Essi pensano ad altro è un romanzo ‘acerbo’, tanto che quando uscì per la prima volta nel 1976 per la cura di Paolo Lagazzi, Giovanni Raboni disse che sarebbe stato meglio lasciar perdere, perché pubblicando quelle pagine si rischiava di fare un torto allo scrittore. Analoga posizione fu espressa da un altro dei più importanti studiosi darziani, Rodolfo Macchionio Jodi. Personalmente non sono d’accordo: è vero che, scritto tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta, il testo risente di certi vezzi stilistici di allora (come ad esempio un certo sfuocato e trasognato lirismo da ‘realismo magico’), ma si tratta di un romanzo denso di temi e motivi estremamente interessanti in sé e anche in relazione al prosieguo della produzione darziana. La seconda parte della domanda è molto più difficile: oggi ho l’impressione che il pubblico cerchi, più che l’arte, l’intrattenimento, e che l’industria editoriale, anziché sforzarsi di orientare i gusti dei lettori in una direzione più alta e più profonda, tenda ad assecondare pedissequamente le richieste deteriori. Così vengono continuamente propinati ai poveri recensori libri improbabili da uffici stampa che gridano ogni volta al capolavoro, mentre si fa fatica a trovare sugli scaffali delle librerie opere di qualità.

Recentemente Tondelli, ora D’Arzo. Hai come una attrazione verso giovani scrittori e ‘scapigliati’ – faccio il verso all’antologia che hai curato sul moto degli Scapigliati, appunto. Esiste a tuo avviso una categoria narrativa ed estetica, diciamo così, ‘della giovinezza’?

Forse è vero, sono inconsciamente attratto da scrittori giovani scomparsi da giovani: oltre che di ‘’Arzo e Tondelli, mi sono occupato a lungo, in passato, anche di Gozzano. Probabilmente non solo perché “muore giovane chi al Cielo è caro”, come dicevano gli antichi, ma perché, non avendo avuto purtroppo la possibilità di invecchiare, questi scrittori non hanno corso il rischio di deludere, magari proseguendo stancamente un lavoro creativo non sostenuto da motivazioni autentiche e profonde, ma soltanto da quelle di un mestiere retribuito. Cosa che è accaduta a molti, anzi a troppi…

…e oggi? Da critico militante, anche, sui giornali, cosa ti piace leggere? Ci sono nuovi D’Arzo all’orizzonte? Quali sono i nuovi valori e le nuove tendenze a tuo avviso della narrativa italiana recente?

Ci sono senz’altro autori degni di nota e anche autori capaci di sorprendere positivamente. Non vorrei essere sembrato, con quanto ho detto prima, troppo apocalittico, giacché non lo sono affatto (altrimenti avrei cambiato lavoro e non continuerei a leggere e a scrivere di nuova narrativa italiana). Nel concludere il mio saggio su Tondelli (Lo scrittore giovane. Pier Vittorio Tondelli e la nuova narrativa italiana, Bompiani, 2018) ho provato a delineare brevemente una mia ‘poetica di critico’ sulla base della quale misurare il valore dei romanzi che escono oggi. A fronte di una critica che fa da grancassa pubblicitaria ad autori dal valore discutibile, un’attenta capacità di lettura dovrebbe valorizzare un altro tipo di letteratura. Quale? I libri che sanno raccontare certi stati d’animo o le inquietudini delle metropoli e della provincia o le contraddizioni della società, più che quelli che provano a parlare il linguaggio della televisione o dei new media. I libri che non sono giochi fine a se stessi, ma che partono dalla vita di chi scrive per parlare alla vita di chi legge. I libri che della realtà dei nostri giorni ci fanno scoprire aspetti inediti o spazi inesplorati. I libri in cui l’urgenza emotiva si coniuga con una forte tensione stilistica. Una lingua letteraria che sappia mettersi in rapporto, in maniera feconda, al tempo stesso con la contemporaneità e con il passato. Meno letteratura di genere e più diversità dei singoli, libri e autori. Anche D’Arzo, con la sua singolarissima produzione, insegna queste cose.

 

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