17 Settembre 2020

Elogio di Silvio D’Arzo, scrittore corsaro, e del suo capolavoro, “Casa d’altri”

Casa d’altri non è “un racconto perfetto”, come lo ha definito Eugenio Montale – sintesi usata da tutti, poi, come una liquidazione, come un plotone d’esecuzione, dida che diventa benda, museruola. È un racconto impossibile. Un racconto come non bisogna scriverlo. Un racconto inimitabile. È un racconto che brucia, che procede per ustioni, come la grande poesia – “All’improvviso dal sentiero dei pascoli, ma ancora molto lontano, arrivò l’abbaiare di un cane. Tutti alzammo la testa. E poi di due o di tre cani. E poi il rumore dei campanacci di bronzo. Chini attorno al saccone di foglie, al lume della candela, c’eravamo io, due o tre donne di casa, più in là qualche vecchia del borgo”. Mostra un mondo, intero e integro, per bagliori, sotto la sollecitazione di una candela, ed è dalla cenere che dobbiamo risalire al bosco. Di un volto resta il calco, lo schizzo preparatorio, l’occhio sinistro, senza ciglia, che ti fissa. Delle cose, ecco, si dice l’ombra – anzi, il buio. Un racconto può dire il buio, come se tra notte oscura e oscurità non vi fosse intaglio d’azzurro?

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Silvio D’Arzo si chiamava Ezio Comparoni, è nato nel 1920 a Reggio Emilia, da Rosalinda Comparoni e padre ignoto. Inventò diversi nomi con cui mascherarsi, forse per devozione all’ignoto. Cominciò a scrivere prestissimo, il suo esordio letterario, Maschere, a 15 anni, accade con il nome Raffaele C. Studente prodigio – fa la maturità classica a 16 anni, si iscrive all’Università di Bologna, discute in pochi anni una tesi in glottologia – incassò svariati rifiuti. Casa d’altri, ad esempio, fu rifiutato da Einaudi – che lo pubblicherà, con sfarzo, molto dopo – e da Vallecchi. Vallecchi, piuttosto, editò All’insegna del Buon Corsiero, nel 1942: Ezio Comparoni aveva 22 anni, nacque così Silvio D’Arzo – non pubblicò altro.

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Per il centenario dalla morte di Silvio D’Arzo, forse la figura più evanescente della letteratura italiana, piccola pietra che dà luce allo sferico movimento del lago, è uscita una versione di Casa d’altri per Marietti – con nota di Silvano Petrosino – e una, che contempla “altri racconti”, a cura di Roberto Carnero (che di D’Arzo ha curato anche Essi pensano ad altro), per Bompiani; Einaudi pubblicherà “un romanzo inedito e incompiuto di Silvio D’Arzo… ritrovato e trascritto da Alberto Sebastiani” e terminato (si parla di “un finale possibile”) da Eraldo Affinati, Gec dell’avventura; per Consulta Librieprogetti sono edite Le poesie. Silvio D’Arzo muore, una settimana prima di compiere 32 anni, nel 1952, per una grave forma di leucemia. La letteratura fu la sua vita, non gli diede soddisfazioni pubbliche. Poco dopo la morte, Giorgio Bassani pubblicò Casa d’altri su “Botteghe Oscure”, seguì l’edizione Sansoni. Nel 1953 Casa d’altri è selezionato dal Premio Strega, vinto quell’anno da Massimo Bontempelli. Uscì di scena alla prima votazione.

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Silvio D’Arzo – di cui la Biblioteca “Panizzi” di Reggio Emilia detiene un fondo – è uno scrittore corsaro, uno arruolato con Stevenson; mescolava Kipling a Pascoli, trovò una forma vitrea, tutta sua, per certi versi – ma si parla di fantasticherie narrative, di fantascienza bibliomane – rivive nel primo Truman Capote, nei racconti lievi, intrisi d’alba, di James Agee.

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Di Casa d’altri esistono diverse edizioni: quella edita da Aragno, per cura di Stefano Costanzi, è “critico-genetica”. L’edizione che preferisco è d’arte: l’ha pubblicata Nuages nel 2008, con i disegni di Georgia Galanti. Oltre al testo è incorporata la riduzione teatrale di Andrea Nanni per lo spettacolo portato in scena da Silvio Castiglioni, straordinario interprete di testi letterari. Così scriveva di quella messa in scena, allora, Franco Cordelli, sul Corriere della sera: “Per Giorgio Bassani, che pubblicò il racconto nel 1952, il paesaggio di Casa d’altri è d’una «solennità dolce e spoglia, da fondo-oro. La sua prosa intensamente lirica, contesta di elementi decasillabici, ha un ritmo unico». Ma non è una questione di paesaggio, per quanto cruciale esso sia. Né di prosa lirica, che era la mia pietra d’inciampo. Castiglioni scarnifica ulteriormente questa prosa, la priva, appunto, del suo lirismo e ne mostra, al di là degli accenti invece colloquiali, la durezza di fondo, l’immedicabile ferita che essa apre in quel desolato paesaggio”. 

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In Casa d’altri c’è un paese di monte, muto, l’anonimato della vita, la pioggia che scandisce remote malinconie come un’Ave Maria perpetua. I monti, simili a mani, ti si chiudono sopra; ed è come se una pena fossile mettesse in sovraesposizione i secoli. D’Arzo scava la scorza dell’uomo fino all’osso primigenio, fino alla pretesa prima. Di norma, non c’è trama, ma ritmo; non c’è storia – il ranch dove il lettore piglia biada fasulla – ma vita. Un prete in disuso, “un prete da sagre e nient’altro, su questo non c’è dubbio”, si dice, è stupefatto dalla figura – irta di sapienza corrosiva – di “Zelinda Icci fu Primo, aveva compiuto i sessantatre l’otto agosto, e adesso lavava stracci e budella dalla mattina alla sera laggiù dal canale per qualcuno o qualcosa di un paese di valle dove c’era già qualche industria”. La domanda di Zelinda, di inquietudine ferma, esplode come una noce nera nel cuore del prete. La vecchia porta all’uomo di Dio l’interrogativo sulla vita e sulla morte, gli chiede il dono di ammazzarsi. “Ecco, nella lettera c’era scritto se in qualche caso speciale, tutto diverso dagli altri, senza fare dispetto a nessuno, qualcuno potesse avere il permesso di finire un po’ prima… anche uccidersi… sì, spiegò lei con una tranquillità da bambina”. Da lì è il tormento che fa decollare edifici interi: di chi è la casa, chi sono gli altri, chi ve per l’esilio?

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Della vita di un uomo l’importante è indicibile – scandalo di stelle, statuario abisso. È lì che Silvio D’Arzo, con ago in cristallo, lavora, nell’attimo prima che sia dichiarata la sentenza. C’è chi, scrivendo, descrive una montagna, chi s’impiglia nei pensieri del montanaro, chi si sofferma sul precipizio. Ecco. Silvio D’Arzo della montagna dice di quando diverrà sabbia, maceria certa, e dell’uomo il crisma che lo fa figlio. “C’è quassù una cert’ora. I calanchi ed i boschi e i sentieri ed i prati dei pascoli si fanno color ruggine vecchia, e poi viola, e poi blu: nel primo buio le donne se ne stanno a soffiar sui fornelli chine sopra il gradino di casa, e i campanacci di bronzo arrivan chiari lì giù fino a borgo. Le capre s’affacciano agli usci con degli occhi che sembrano i nostri”. Basta dire una cert’ora per portarci in un palmo il giudizio, l’affittuario della fuga, il complice. Ciò che mai fu detto, mai si dirà. (d.b.)

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