11 Agosto 2020

“È un guerriero nato, fallo combattere ancora”. Gabriella Sica e il canzoniere per Valentino Zeichen

Libro originale e pungente, di “congedo cerimonioso” per usare un titolo di Giorgio Caproni da poeti noti, a volte amici, e da un’epoca tramontata (tanto più alla luce degli ultimi eventi di pandemia), quest’ultimo di Gabriella Sica, che si riaffaccia sulla scena della poesia a dieci anni dal suo ultimo libro.

Viene da pensare per incredibile analogia di sorte al Valentino dei Canti di Castelvecchio di pascoliana memoria, ma quello che si legge in Tu io e Montale a cena, Poesie per Zeichen per i tipi Interno Poesia Editore è un Valentino Zeichen affatto sentimentale, sia pure intimo e delicato, e pur sempre “coriaceo al vetriolo”, evocato nel canto struggente e malinconico dalla penna di Gabriella Sica, tra le più riconosciute voci della poesia italiana. Inseparabile amica di sempre, la Sica dedica al poeta e profugo istriano la sua ultima fatica letteraria, in memoria del più estroso e irregolare tra i poeti italiani contemporanei, personaggio già in vita ai limiti della leggenda. Si tratta di 44 poesie (più due prose) divise in tre sezioni: la prima formata da due poesie sul poeta in vita, la seconda, Quaranta poesie, sul poeta in morte, e la terza, ancora di due sole poesie, dopo il tempo del lutto stretto.

Come in un’epopea classica, la raccolta si apre con un’invocazione alla madremadonnina perché lo liberi da un letto di ospedale: «se ci sei salvalo salvalo tu se mi ascolti/fallo tornare tra noi/al dolce tepore d’aprile/questo non è uno scherzetto/prometto lo inviterò di più a cena/è un guerriero nato/fallo combattere ancora». Zeichen è visto come un combattente costretto da bambino nel dopo guerra a lasciare Fiume per ricostruire la sua patria a Roma, un Enea disperso dopo la fuga dall’incendio: «Anche tu sei dall’est in fiamme sceso/dall’Adriatico agitato/al Tirreno che gli scogli stanca/dal vecchio Oriente/al periglioso Occidente/per la pianura in là verso il Lazio/sei giunto fino a Roma».

Il ricordo si fa più intenso quando affiora l’osso della parola, vera vis poetica, ingrediente madre del ricettario lirico di Zeichen: «Sta nella sua officina il fabbro romano/ crea e vende manufatti originali/di una lingua povera elementare/ minima e assoluta poco melodiosa/ dove il fulmine è radice e fine/ […] Privo di tutto laconico operoso/fino all’ultimo respiro/ non sta dove si può vivere una casa/vera lui non la vuole/ quel poco cura solo il poco/ esule come si sente con i suoi morti/ ascolta qualche tortora che canta/ mette un po’ di briciole sul davanzale».

Il tempo, come bizzarra e inflessibile misura di tutte le cose, grande meccanismo regolatore della vita e del mondo fa da basso continuo alla raccolta, fiume carsico che attraversa le colline, i pini di Roma, Ponte Milvio, Piazza del Popolo, Villa Strohl Fern col suo Rilke, la Galleria d’Arte Moderna, Villa Borghese, fino ad arrivare lì, “nell’Arcadia di via Flaminia, nella Casa del poeta incarnata a Roma di tutta la vita” respirando la città eterna e la sua immagine bifronte, accogliente e crudele, struggente e carica di una bellezza malinconica in tutto il suo incanto di una primavera in fiore, prima ancora della rovinosa putrefazione della “grande bellezza”: «È una leggenda la baracca a Roma/ sta in un vicolo cieco sulla Flaminia/ all’ombra di una collina di pini/ nel cielo celeste alti intagliati/più sotto macchie gonfie di lecci/e mimose come in un bel quadro/ […] siede pensoso sul da farsi il poeta/lì coltiva una coppia di piante/ un fico e una vite americana/tra steli di lillà penduli in trionfo».

La casa-baracca, dove la Sica in un afflato nostalgico cerca ancora di imbastire quelle serate conviviali con i punti lenti di una cena che apre il cuore: «pensaci cosa possiamo ancora fare/  insieme cucinare/ […] pochi ingredienti ben scelti/ nel fulgido impasto di rose e spine/ invitare ospiti d’onore/ […] scrivere le care nostre ricette/ profumo senza l’aspro dei limoni/brace di rosmarino alla griglia/ salvia bruciata in fumo/ fuoco scoppiettante d’alloro/ nel bel piacere conviviale/ […] e stare come verde foglia stare».

Verde come l’esistenza nel tempo tra fine e inizio secolo, in cui amicizie, incontri e cene mondane riempiono il solitario Zeichen. Intanto Gabriella Sica cura per Rai Cultura (allora Rai Educational), alcuni film documentari sui poeti del Novecento, tra cui uno su Eugenio Montale (si possono vedere ora su RaiPlay). Un insolito Montale a cena, che canticchia, da ex baritono, l’aria rossiniana “La calunnia è un venticello”, proprio come nella poesia centrale di Sica, quella che dà il titolo al libro. Immagina infatti, la poetessa, di invitare il cantore immortale di Clizia e del girasole impazzito a una cena tutta personale, intima a tre: «Non è un gioco questo di/ stasera è un incontro a sorpresa/ il più imprevedibile per noi due/tu io e Montale a cena./ Dall’aldilà fremente di piacere/ […] banchettando ilari noi tre insieme/al secolo nuovo brindando/come un niente lo snodo al/Novecento il rallentato addio».

Un addio che si fa sempre più serrato nella vuota malinconia: «ogni cosa dice addio all’altra/ e tu dici addio a noi e a ogni/ amico nessuno trova più le parole/ un gran silenzio è sceso su/ Roma come un’ampia ombra». Valentino è nel vento col suo invisibile “palloncino blu notte”, stretto al polso e mai più sciolto fin da bambino quando la madre Evelina l’aveva legato per il lungo esilio: «incurante di proiettili e spari/aveva resistito alle “Fortezze/Volanti B17” e ai “rabbiosi 88 antiaerei”».

Anita Piscazzi

*In copertina: Valentino Zeichen in un ritratto fotografico di Dino Ignani

 

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