10 Maggio 2019

“Siamo tutti figli di Sherwood Anderson”. Compie 100 anni “Winesburg, Ohio”, il libro più influente della letteratura americana moderna. A lui si sono ispirati Faulkner, Hemingway, Dos Passos (e pure Pavese)

Nell’autunno del 1915, quando viveva in una pensione bohemienne nella Chicago nord, Sherwood Anderson prese a lavorare ad una raccolta di racconti che descrivevano le vite strangolate degli abitanti di Winesburg, un centro di sua invenzione e collocato nella Ohio degli anni Novanta dell’Ottocento. Trasse materia dalla sua propria esperienza, quando cresceva nel borgo agricolo di Clyde, sempre in Ohio, dove viveva a stretto contatto con una banda di sperduti e nevrotici alla deriva nelle pianure del Midwest, quando tutti i membri del gruppo tentavano – fallendo – di inquadrarsi nelle strade di quel centro, contornato d’olmi, ciascuno alla ricerca di un significato, di un rapporto umano, di un amore.

Questi personaggi “grotteschi”, come Anderson li chiamava, avevano lasciato che il dubbio e la paura prevalessero sui loro istinti migliori. Erano, così credeva lo scrittore, delle casualità all’interno di una cultura chiusissima, e condannati da questa a viverne fuori, da soli, avulsi. “Winesburg” divenne presto una parola d’ordine, una metafora per la vuotaggine di una vita rurale sempre intesa a sbadigliare.

Oggi il libro, “Winesburg, Ohio” è la base nelle lezioni di inglese a fine liceo, è un classico riconosciuto, il numero 24 dell’elenco stilato da Modern Library in una lista di 100 autori nordamericani. Ma il percorso di quel libro, pubblicato un secolo fa l’8 maggio del 1919, prima di giungere all’accoglimento da parte del pubblico, fu tutt’altro che semplice.

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Prima che l’editore di “Winesburg, Ohio” leggesse il manoscritto di Anderson nell’agosto del 1918, questo era già stato respinto da entrambe le sponde dell’Atlantico. Persino la compagnia londinese John Lane che aveva pubblicato i lavori precedenti di Anderson (due racconti e un libro in versi, quando nessun editore a New York nemmeno li toccava) rifiutò il nuovo testo come “troppo cupo”. Ma Huebsch, che aveva già introdotto in USA James Joyce e D.H. Lawrence, fu d’accordo per la pubblicazione.

Nei primi due anni il libro vendette 5000 modeste copie, come gli scettici avevano previsto. All’opposto, il take on sui piccoli centri di Sinclair Lewis, “Main Street”, pubblicato un anno dopo Anderson, vendette oltre 390000 copie nello stesso periodo di due anni.

Il libro di Anderson riuscì poco meglio coi critici. Benché alcuni, tra i quali il sovrano delle patrie lettere, H.L. Mencken, ricoprissero Anderson di elogi – “qui davvero abbiamo un lavoro che si staglia sul consueto corso dell’invenzione narrativa allo stesso modo delle Alpi sopra la piana del Piemonte” – molti recensori furono barbarici. Il giornalista Heywood Broun riteneva “monotono” il libro, mentre altri lamentarono che le descrizioni di Anderson mancassero di profondità e che i suoi personaggi fossero a una dimensione, “marionette con un loro nome”.

Ma gli attacchi più veementi colpirono la presunta preoccupazione di Anderson per il sesso. E infatti molte delle sue storie contraddicendo le regole prevalenti in campo letterario, esploravano apertamente gli effetti distruttivi del desiderio soffocato, della repressione sessuale, della perversione. Anderson divenne celebre per essere “un Cechov fallico” i cui libri, secondo un recensore anonimo di The New York Evening Post, “nessun uomo desidererebbe finissero nella mani di sua figlia o di sua sorella”.

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Forse Anderson non fu mai disprezzato tanto quanto nel suo paese natale, Clyde. La principale libreria del posto bruciò a migliaia le copie dei suoi libri e per molti anni qualsiasi frequentatore della biblioteca civica che li richiedesse riceveva il cipiglio dell’impiegato che cercava la chiave per il ripostiglio chiuso dove era tenuta, insieme ad altri “libri pessimi”, la sola copia sopravvissuta alle fiamme.

Scrivendo le sue memorie a un ventennio da questi avvenimenti, Anderson ricordava che, dopo l’uscita del libro, “per settimane e mesi la mia cassetta delle lettere fu intasata da lettere che mi davano del lurido, uno scopritore di fogne”. Le critiche, diceva, “mi fecero ammalare”.

Un secolo dopo è difficile capire il perché di tanto chiasso. Nessun lettore moderno arrossisce per come Anderson tratta il sesso, trattamento casto per gli standard attuali. “Winesburg, Ohio” deve la sua durevolezza non ai valori scioccanti ma al modo col quale cattura alla perfezione una società sul ciglio di un mutamento colossale. Decenni dopo la pubblicazione del libro, Waldo Frank, il quale aveva stampato sulla sua rivista The Seven Arts alcuni racconti poi finiti in “Winesburg, Ohio”, sottolineava che Anderson si era messo a descrivere “un mondo degli USA di mezzo che già allora era una generazione finita”

Infatti “Winesburg, Ohio” – con le sue strade sporche, cavalli e luci a gas, coi suoi contadini, negozianti e artigiani – rappresentava una cultura rurale che presto doveva essere spazzato via da un fermento socio-tecnologico senza precedenti. Quando il soprintendente al censimento degli USA dichiarò che la frontiera americana avrebbe chiuso nel 1890, due terzi degli Americani ancora abitavano in piccoli villaggi rurali non molto diversi da Winesburg. Ma entro gli anni Venti, per la prima volta nella storia della nazione, la maggioranza degli Americani erano residenti di aree urbane.

Un insieme di fattori contribuì a questa svolta demografica, e tra questi il boom industriale nordamericano durante la Prima guerra mondiale che portò milioni di lavoratori in città alla ricerca del lavoro, poi un gran numero di immigrati dall’Europa dell’est e del sud, infine la Grande Migrazione di quasi mezzo milione di afroamericani dal sud degli USA (includendo la percentuale sconcertante del 10,4% data dalla risultante della popolazione nera di Alabama e Mississippi) verso le città del Midwest, dell’Ovest e lungo tutta la costa atlantica.

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Allo stesso tempo, la vita quotidiana si accelerava. Nel 1900 il cavallo restava il principale mezzo di locomozione e meno di 14000 automobili – viste dalla maggioranza come giocattoli per ricchi – spuntarono sulle strade nazionali piene di fossi. Entro gli anni Venti ve ne erano nove milioni. I passeggeri sui treni più che duplicarono il numero delle loro corse e triplicarono il numero di miglia percorse nella decade che precede il censimento del 1920, e questo aiutò a trasformare l’industria stradale nella più grande per fatturato e numero d’impiegati. Macchine a conduzione elettrica sviluppate nel 1898 scorrevano adesso in centinaia di centri e di città quasi fossero gli araldi dell’età dei pendolari. Il rumore e la sporcizia della vita urbana, insieme ai pregiudizi degli abitanti ricchi che fuggivano dai sobborghi sempre più misti quanto a diversità etniche, furono il corollario dei “sobborghi di auto”, dove i viali tranquilli e alberati imitavano l’estetica del piccolo villaggio del tempo andato.

Prima di farsi scrittore a tempo pieno, Anderson era stato catturato dalla nuova “fame di moneta” che lo fece diventare proprietario di un’industria di colori a Elyria in Ohio. Ma nel 1913, dopo un crollo nervoso, lasciò moglie e figli e si trasferì a Chicago. Lì fu inghiottito dall’ambiente culturale che il critico Carl Van Doren chiamò “la rivota che viene dal villaggio”, il quale era composto da nuovi inurbati che, al pari di Anderson, si allenavano letterariamente negli scenari rurali che si erano lasciati alle spalle. Il maggiore esponente del movimento era Edgar Lee Masters con la sua “Antologia di Spoon River” pubblica nel 1915: una raccolta di versi esposti tramite le voci di gente seppellita nel cimitero di un villaggio, in un Illinois fittizio. Il libro, con le sue visioni fosche della vita di paese, divenne un improbabile best seller e ispirò Anderson quando prese a scrivere quel che sarebbe diventato “Winesburg, Ohio”.

La rivolta del villaggio giunse presto al capolinea, come anche la carriera di Anderson. Continuò a pubblicare ed ebbe qualche anno di fama negli anni Venti, anche se i suoi libri, eccetto Riso nero, non vendettero bene. Fu presto subissato dai nuovi scrittori: Ernest Hemingway, William Faulkner, Thomas Wolfe, John Dos Passos, Erskine Caldwell, William Saroyan, John Steinbeck – tutti trassero la loro vena da “Winesburg, Ohio” coi suoi ritmi semplici ed espositivi, con la sua costante preoccupazione per la situazione critica della gente comune.

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Hemingway e Faulkner, in particolare, cercarono Anderson per consigli e supporto, e Anderson li diede agendo da mentore per entrambi e aiutandoli a far pubblicare i primi libri. Come le loro fortune si libravano in alto e la sua calava, tentarono di distanziarsi da Anderson con romanzi che deridevano crudelmente la sua personalità e la sua prosa: “Zanzare” di Faulkner e “Torrenti di primavera” di Hemingway.

Anderson morì nel marzo del ’41 per infezione intestinale dopo aver ingoiato uno stuzzicadenti mentre era a un cocktail newyorkese. Ma la sua influenza letteraria rimase vivissima – e Faulkner lo ammise in seguito. Nel dicembre del 1950, ricevendo il Nobel, disse a al municipio di Stoccolma che lui e tutta la sua generazione nordamericana erano “figli di Sherwood Anderson”.

Bruce Falconer

[traduzione italiana di Andrea Bianchi]

*Il testo è stato pubblicato originariamente sul “New York Times” l’8 maggio 2019 come “Sherwood Anderson’s Revolutionary Small Town”. Appena è il caso di ricordare i legami di Cesare Pavese – e quindi della cultura letteraria italiana – con Sherwood Anderson, testimoniati, tra l’altro, nel saggio “Middle West e Piemonte”. “Winseburg, Ohio” è in catalogo Einaudi, nella traduzione di Giuseppe Trevisani, 2011.

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