19 Settembre 2018

Sessomane, cattolico, antisemita: Marcel Jouhandeau, lo scrittore vampiro

Nel manifesto di Caryathis, disegnato mescolando liberty a primitivismo dal russo Léon Bakst, Élisabeth Toulemont si contorce, mezza nuda, stringendosi al corpo veli simili a pitoni. Erik Satie ha composto la musica – nota anche come La belle excentrique – per lei, Jean Cocteau ha messo mano alla scenografia. Siamo nel 1920. Nove anni dopo Élisabeth, donna virile e di rude sensualità, il 4 di giugno, si cede al più grande – e misconosciuto in questo lato bastardo delle Alpi – scrittore francese del Novecento. Hanno la stessa età, quest’anno, entrambi, farebbero 130 anni: lui ha il viso di cristallo, e le ha tutte – è omosessuale, è cattolico, è sessomane. Élisabeth, dopo aver portato all’altare Marcel Jouhandeau – che sa di infilarsi tra le lenzuola di una satanassa – diventa, per la storia della letteratura, Élise, donna icona e vampira, martirizzata dallo scrittore, audace e definitiva, inafferrabile e dentata, altro che la Bovary, ha l’avventatezza di Anna Karenina, la ferocia di Lady Macbeth, la paradisiaca forza di punire e assolvere, è una Madonna livida, bruna, a contrario.

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cronache maritaliLi chiamavano «la coppia infernale», lei morì otto anni prima di lui, nel 1971. A lei, lui dedica il libro d’amore più spietato mai scritto, qualcosa che sta tra Pascal e il Marchese De Sade, tra il trattato delle colpe medioevali e la luminescenza dell’eros. Nel 1953 l’Osservatore romano scrisse di Jouhandeau in questo modo: «egli è l’alchimista del demoniaco… a questo signore dalla penna d’oro, non sarebbe salutare la minaccia di un nodo scorsoio? Scrittore europeo a cui Iddio aveva concesso il raro privilegio di poter correre, se avesse voluto, tra altitudini eccelse, degne di Pascal, preferisce le vie più ardue e più impervie degli imbrattacarte di mestiere». Cronache maritali, il libro sommo di Jouhandeau, devota e diabolica cronistoria del suo amore con Élise, è pubblico nel 1938, ed è uno dei libri più remoti e assoluti della letteratura del Novecento, più corrosivo di Céline – perché denuda la mostruosità della vita di coppia, che riguarda tutti – più profondo di Camus, più austero di Montherlant. Jouhandeau è uno stilita dello stile, uno scrittore totale, per cui la scrittura è la vita e la vita senza scrittura è morte: i suoi diari, i fatidici Journaliers, pubblicati dal 1957 al 1974, occupano 28 volumi, editi da Gallimard, un classico in Francia, intradotti da noi, il Paese incontinente di stupidaggini, con titoli bellissimi (Magnificat, La Possession, Jeux de miroirs, Du singulier à l’éternel). Cronache maritali esce per Feltrinelli, per la traduzione di Guido Neri, nel 1961, nella collana ‘I classici moderni’, su supervisione di Giorgio Bassani (della stessa serie, Casa Howard di E. M. Forster, La mia Africa di Karen Blixen, L’Aleph di Jorge Luis Borges, ma pure Tarr di Wyndham Lewis); nel 1999 ristampa Adelphi, ora è il nulla. Marcel Jouhandeau, editorialmente, non tira, eccita troppo, è troppo violento in un panorama editoriale normato dal noto e dall’ovvio. Viva, il divo Marcel dà ancora scandalo.

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Jouhandeau le ha tutte. Oltre ad essere cattolico, omosessuale, pervertito dalla moglie, è anche antisemita. Nel 1942, insieme a Drieu la Rochelle e Brasillach partecipa al congresso letterario di Weimar, organizzato da Goebbels, ma questo poco conta (vi partecipò anche Elio Vittorini). Piuttosto, conta il pamphlet, scritto nel 1938 e ribadito nel 1972, Le péril juif, per certi versi più esplicito delle Bagatelle di Céline («Ricordati di difenderti con tutti i mezzi contro coloro che stanno lavorando per distruggerti tramite il loro razzismo esacerbato, il loro sogno demoniaco di dominare il mondo e soprattutto non dimenticare che il loro potere esiste a causa della nostra bassezza, della nostra futilità, della nostra vigliaccheria»).

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Soltanto uno scrittore esplicitamente devoto alla contraddizione e all’inimicizia può pensare un libro in cui l’inno d’amore si muta in ghigno, in cui ci si espone fino al ludibrio, si istiga l’odio, il lampo dell’astio.

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Disintegrare il sé nella scrittura, ambire a frasi monastiche, a qualcosa che abbia il sentore di cella e di stalla, di salvezza.

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Cronache maritali è un libro claustrofobico – una adornata camera delle torture – il bavaglio in bocca, a struggere mascella e sfacciare lingua. Così spudorato, andrebbe regalato a tutti gli sposini, perché si ama sempre fino allo spasmo, si ama uccidendosi, macerando l’anello nel cilicio. (Davide Brullo)

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cronache maritaliIo non amo che disilluso; e non c’è essere al mondo che possa deludermi: quando abbiamo trovato tutto da ridire, resta sempre da ridire su qualche cosa, ma più ancora da amare.

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Provo una grata sensazione da quando sono apparsi da noi dei serpenti, che vagano lungo i muri. Se tutto tace, subito si dileguano, al più vago accenno di musica, mostrano il muso, inoffensivi. Rivolti verso ciò che canta, insensibili ormai alla paura come a qualsiasi altro desiderio, irrigiditi, il collo teso, la testa alta, con quegli occhi dolci come occhi di giraffa, troppo grandi per loro, occhi che pare non abbiano bisogno l’uno dell’altro, a quale mondo appartengono mai questi esseri?

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Le rane non chiedono di meglio che farsi mangiare, ma i serpenti le rifiutano. Élise non riuscirà mai a credere che si possa vivere d’aria, e li guarda angosciata. Se i serpenti dovessero trionfare della loro fame, li adorerà e non tarderà a volerli imitare. Élise: «Sono animali troppo solitari perché a toccarli non restino feriti. Io credo che sotto uno sguardo i serpenti sono morti, perché, non avendo palpebre, non possono chiudere gli occhi».

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Sono felice che la mia casa abbia la fama di casa del peccato, e che questo non sia vero; poiché, anzi, essa è forse l’asilo della virtù. Quando pensano a Élise, le persone per bene, si figurano la figlia del diavolo. Arrivano a dire che fa apposta a girare nuda per la casa, con la finestra aperta davanti a un pubblico di curiosi.

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Non ho mai avuto, non ho e certamente non avrò mai un nemico mortale come lei. Al punto che se dovessi sentirmi male, chiederei per prima cosa di essere sottratto alle sue cure, alla sua custodia.

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Ho preso su di me la vita di una donna quando non ne avevo in realtà alcun bisogno, e credo proprio di essermi scelto – se mai si può dire che io abbia avuto voce in capitolo – quella che a prima vita appariva la meno adatta. Moi padre e mia madre andavano poco d’accordo. E io passerò la vita, a mia volta, con una donna che meno di ogni altra pare destinata a comprendermi. Può anche darsi che l’abbia scelta proprio per questo. Scegliamo sempre ciò che non è fatto per noi, perché a nulla siamo tanto sensibili quanto a ciò che sorprende. Attratti da quanto dovremmo temere, non ci accade quasi immancabilmente di amare per un’ora ciò che farà il supplizio del resto della vita, e forse dell’eternità?

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La vedo lavorare a maglia, nuda, sul letto. Atteggiamento di una sconvenienza urtante, se non fosse per quell’espressione intenta che le irrigidisce i tratti del viso, dissipando ogni possibilità di equivoco. La sua nudità non può avere che questo aspetto: eroico. Élise è al mio fianco e legge la Bibbia: la mia Bibbia, che mi ha accompagnato ovunque, ancora quasi nuova dopo trent’anni che me ne servo, piena di penne di pavone e di ghiandaia, di fiori secchi, di foglie di pruno colte lungo il cammino, di alghe marine, di edelweiss. Élise, nuda, la tiene ora appoggiata sull’inguine, e i peli si arrampicano all’assalto delle pagine. Interrompe un momento la lettura per dirmi, «Ti pare che si dia pensiero della decenza, Mosè? Non crederai anche tu che stare nudi sia peccato». Devo ammetterlo: per lei, per lei sola, non è peccato. Lo fa con troppa naturalezza.

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Ieri ho tenuto Élise vicinissima a me, come due bambini. Prima di andare a dormire (faceva molto freddo) in mancanza di prodotti di bellezza, si era spalmata il viso di olio d’oliva, come fosse un’insalata. Io mi ero ficcato in testa un’indescrivibile cappello viola. «I fenomeni viventi non saranno visibili fino a domani», annunciai solennemente, e spensi la candela; poi, al buio, a avvoltolarci fino a piangere di piacere.

Marcel Jouhandeau

 

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