07 Luglio 2020

Evitate gli scrittori evirati che riducono il corpo a un accessorio. Perché nessuno sa più scrivere di sesso?

È buffo: abbiamo un corpo e non sappiamo raccontarlo. La nudità del sesso, esilio da ogni ergonomica retorica, mette a nudo l’incompetenza degli scrittori. Di solito, lo scrittore modesto adorna il sesso scritto con velature, veli, aggettivi che rivestano ciò che – ai suoi occhi – è osceno, ma cos’altro è da mettere sulla scena della pagina se non l’osceno, l’ostacolo? Altrove, abbiamo gli iperrealisti, che cadono – fanno cascare le palle – nell’estremo opposto: la descrizione fisiologica dell’atto, nell’era di YouPorn e PornHub, non eccita, è grottesca. D’altronde, l’amore si scrive come si fa: ridotto a una seduta di palestra, puro atletismo e ‘prestazione’ – effetto dell’eccesso del porno – oppure a party tra frati, con frenato pudore (al posto di liberare selvatiche, deliberate, spudorate voglie).

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Siamo passati dalle violenze bibliche – la Bibbia narra Dio e il sesso in ogni sua variante, dalla ferocia al climax della tenerezza –, dal macello greco (Clitennestra che sgozza il marito nella vasca, con l’amante che osserva; Edipo che ingravida la madre) alle raffinatezze erotiche di Ovidio, alla cupa incultura odierna. Per gli antichi il corpo era il luogo dell’avanguardia, della missione, un panorama sofisticato, di cui sondare l’ombra, sollecitare le tigri; oggi è deprezzato ad accessorio (meglio l’anima), a oggetto (è bene agitarlo in virtù dei pettorali, a misura di glutei), a vaga macchina del godere. Esempi contrari. Questa è una scena di sesso descritta da Chiara Gamberale: “la spinge dolcemente sul letto, lei sente un vago profumo di limone, lui riprende a baciarla, i polsi la fronte il collo, eccolo il mio sogno, le dice, sei tu, ha la pelle ancora incrostata di sale, sa di mare, sa di sabbia, sa di buono” (da L’isola dell’abbandono). Questo è Francesco Piccolo: “Ma dentro di me, sempre, sia che io lo voglia sia che non lo voglia, sempre, lavora un pensiero che sta sotto tutti questi: me la scoperei, come sarà nuda, però che culo, però che tette, sembra desiderosa, sembra rigida, chissà se le piaccio…” (da L’animale che mi porto dentro). Queste sono le espettorazioni numeriche di Valeria Parrella: “non mi ricordo se me ne sono scopata più o meno di cento” (da Enciclopedia della donna. Aggiornamento), che almeno ha il dono della sintesi. Meglio un film porno, in ogni caso, qualsiasi, se si attende l’eccitazione pelvica; Le relazioni pericolose se attendiamo pure quella cerebrale.

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Il corpo è il corpo del reato della letteratura, denuda l’incompetenza degli scrittori nostri. Pare, cioè, che le parole abbiano l’abitudine di celare le vergogne, i romanzi, così, sono lo chador che implica il corpo alla vergogna, la spruzzata di Chanel che minimizza lo sgradevole odore della carne.

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Se non si è in grado di mostrarlo, il corpo va celato nel sacrario dell’ambiguo. La tragedia greca non mette in scena l’obbrobrio del corpo: l’omicidio e il sesso, la morte reale e la morte fittizia. Vi allude, tuttavia, attraverso il racconto di un terzo – testimone diretto oppure occulto – che rende l’atto, nascosto, di indimenticabile evidenza. William Faulkner fa di una pannocchia – l’oggetto con cui Popeye, feroce e impotente, violenta Temple Drake, una ragazzina – il cuore di Santuario, il suo tremendo noir, che mescola Edgar Poe a Melville, dove tutto, con plumbea rapidità, è descritto tranne la violenza, suggerita fino al giogo sessuale. D’altra parte Ennio Flaiano, in Tempo di uccidere, racconta la violenza di un tenente italiano su una minorenne etiope con frasi che reclamano la tambureggiante presenza della colpa: “Gli occhi di lei mi guardavano da duemila anni, con il muto rimprovero per un’eredità trascurata. E mi accorgevo che nella sua indolente difesa c’era anche la speranza di soccombere… Qualcosa era nato in me che non sarebbe più morto. Guardando la boscaglia la vedevo tremare come in preda ad un innocuo terremoto”. Uno dei romanzi più torbidi del secolo, La casa delle belle addormentate, narra, con prosa di cristallo, la vita in un bordello dove vecchi abbienti pagano per dormire di fianco a giovanissime condotte al sonno profondo, ignare dello schifo. I vecchi le toccano, è loro vietato penetrarle, ambiscono al miglio della giovinezza, a quella carnalità, ma Yasunari Kawabata scrive il perverso con la delicatezza di un pittore di icone.

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Se uno scrittore non sa scrivere il corpo, di lui restano le polluzioni notturne, il romanzo si sfata in clamorosa sega mentale di cui c’interessa nulla. Il corpo è cardine del verbo: pensate ai “Karamazov”, dove è descritto il corpo in putrefazione dello starec Zosima, il corpo morto di Fëdor Pavlovič, quello scorporato del figlio Ivan (a misura del male), il corpo da reato dell’aitante Grušenka, quello arso dal desiderio di Dmitrij, quello alto alla rinuncia di Alëša. Tutti i corpi, sempre, sono scandalosi: una pietra in fronte al creato, lo spioncino da cui Dio osserva la propria indulgenza.

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Lo scrittore inglese Luke Brown, sul patinato “Times Literary Supplement”, scrive un articolo, Emasculated. The problem of men writing about sex, che sancisce la resa, da parte degli artisti, di narrare il corpo, evirati dai tempi che corrono, corrodono. Un autore come Philip Roth, che ha fatto del sesso, dell’ossessione sessuale, il tema dei suoi libri sarebbe improbabile, troppo maschio, troppo bianco, troppo cinico. Già nel 2011, per dire, Carmen Callil, fondatrice della femminista Virago Press, s’era ritirata dalla giuria del Man Booker International Prize (un premio autentico, mica le noccioline italiche, con un assegno da 60mila sterline e altre 15mila per la traduzione), accusando il vincitore, Roth, appunto, di essere “intelligente, ruvido, comico, ma limitato. Non è la Austen, non è Bellow e neanche Updike. Il suo sguardo è misero. Scava brillantemente dentro se stesso, ma c’è poco altro. L’egotismo lo ostacola come romanziere”. Intendeva dire che era misogino. Il culmine dell’ampia riflessione di Brown – che cita anche Michel Houellebecq, J.M. Coetzee, George Saunders, et alii – sfocia in un pallido laghetto: “Nell’immaginario, il sesso non si è mai inserito in una struttura morale che riguarda bene o male, e gli uomini che vogliono stare dalla parte giusta di una storia potrebbero ritenere che non sia più utile scriverne… Abbiamo ascoltato per molto tempo i racconti centrati sul desiderio degli uomini, ora tocca alle donne. Gli uomini riducono sempre le donne a personaggi minori. Perché dovremmo ascoltarli, esaltando la loro lussuria?”. Quanto a me, prediligo il sesso narrato da Isaac B. Singer, in cui la carne è mescolata alla cabbala, dacché si arriva alla soglia del divino dopo aver sarchiato il corpo, sancito al creato.

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…o narrare l’inadeguato di un corpo non più proprio, espropriato, estraneo, in esilio tra altri corpi. Il corpo onirico e quello incauto.

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Il razionalismo – o la stupidità – anglosassone non va oltre il rapporto librario di causa-effetto, di detto-fatto. Ma un libro non ha una morale – può, piuttosto, occuparsi di morale – e la letteratura non è una branca della sociologia. Non si leggono i libri per capire i ‘costumi’ di un popolo, ma perché pretendiamo che lo scrittore, almeno lui, sia scostumato, ci mostri la gloria del corpo e il suo eccidio. L’arte non si occupa di razze o di generi, di generazioni o di convenienze politiche; l’arte è primariamente forma, ed è quella a dover essere giudicata. Tra l’altro, che articolata idiozia: le donne hanno scritto di sesso. Spesso – penso ad Anaïs Nin, a Anne Sexton, a Clarice Lispector, a Marguerite Duras, a Christiane Rochefort, tra le altre, penso all’adorata Murasaki Shikibu – meglio dei maschi. In un racconto di inquieta eccellenza, Anna, soror…, arteria scardinata dal Caravaggio, ad esempio, Marguerite Yourcenar ha detto l’incendio dell’incesto, il principio di un orrore saturo di nobiltà. D’altronde, non è mai una questione di dimensioni, ma di profondità. (d.b.)

*In copertina: la cosiddetta “Venere Rokeby” di Diego Velázquez, 1648 circa, alla National Gallery di Londra

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