17 Ottobre 2019

Nessuno vuole le stroncature, apriamo uno spazio pubblico. Sergio Claudio Perroni stronca Maurizio Cucchi, “si danna a strimpellare versi ma gli vengon fuori stecche e stonature… a Mauri’, mó facce Tarzan!”

Non l’ho conosciuto, dicono che fosse impossibile, certamente geniale, forse ci saremmo piaciuti. Un groviglio giudiziario – aizzato dalla mia palese avventatezza e arretratezza relazionale – di cui ho già detto ci ha impedito l’incontro. Sergio Claudio Perroni, editor, traduttore – tra gli altri, di David Foster Wallace, di Albert Camus, di John Steinbeck, di Michel Houellebecq –, scrittore, ha svolto, tra l’altro, una feroce (e necessaria) attività giornalistica. Le sue stroncature, pubblicate spesso su “Il Foglio”, poi convogliate in un sito di culto, “Poeti e poetastri. Consigli e stroncature per chi ama la poesia”, sono salutari, spesso memorabili. Per sua natura, lo stroncatore si fa segno di contraddizione e agnello sacrificale: guai a pensarla come lui. Piuttosto, stimola l’intelligenza a ceffoni, nel paese dei salamelecchi e dei balocchi editoriali. È un antidoto, una pugnalata energetica, un bombardamento in assenzio, nell’assenza, plateale, di una critica letteraria vera, seria. Anche SCP, da ciò che mi dicono, si è scavato il vuoto: i romanzieri sono pavidi tanto quanto i poeti sono permalosi. Naturalmente, dopo la fatidica vicenda, nessuno degli stroncati s’è fatto vivo, nessuno ha preteso uno spazio di lotta libera sui giornali, uno spazio per la stroncatura. Al contrario, tutti, silenziosamente, son felici della zanzara schiacciata, di un problema in meno. Siamo nel deserto: al posto degli eremiti, però, siamo afflitti dagli egocentrici con il capolavoro nel cassetto. Per rimediare, apro io lo spazio. Comincio a darlo a Sergio Claudio Perroni, appunto, un maestro nel ‘genere’. Questo articolo su Maurizio Cucchi, guru della poesia lombarda, artefice delle scelte – spesso incomprensibili – de ‘Lo Specchio’ Mondadori, è uscito su “Il Foglio” il primo novembre del 2003 con il titolo “Il premio Carducci l’ha vinto Cucchi. Risarcite Giosuè”. Utile, cattivo, spassoso. Ad ogni modo, lo spazio è questo gente. Accolgo stroncature. A patto che siano aspre, oneste, generosamente geniali. (d.b.)

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Maurizio Cucchi fa il poeta, e spesso scrive di poesia. Ne scrive sull’Unità e su Tuttolibri, cura il Dizionario della Poesia Italiana e ha una rubrica di consigli poetici sullo Specchio (non quello della leggendaria Cronaca Bizantina, purtroppo defunto; l’altro, quello che si finge vivo a colpi di restyling).

“Maurizio Cucchi, dicevamo, fa il poeta. Non lo è, lo fa”

Maurizio Cucchi, dicevamo, fa il poeta. Non lo è, lo fa. Per capirci: non è Raboni, che sventaglia poesia a ogni fiato. E non è nemmeno Balestrini, che pur sforzandosi non riesce mai a dissimulare la poesia di cui è intriso. Cucchi è il contrario: si danna a strimpellare versi e concetti ma gli vengon fuori stecche e stonature. Gli vengon fuori incipit che sembrano parodie (“Sulla carta si sbizzarrisce il mio cuore, | perciò mi inoltro con Alberto | nel mondo antico di Villapizzone”), e balordaggini la cui sola speranza di significare sta in un’ipotesi di refuso (“Le mani sfiorano oggetti | vissuti in sola immagine, | senza freccia in profondo”), e metafore forzate fino a sgangherarle (“Mi infilo nel portafogli del mio letto | come una carta d’identità scaduta”). Se imbrocca un’immagine o un accordo appena convincenti, ne svela subito l’accidentalità annegandoli in un’insensatezza che sarebbe tragica se non facesse ridere per come si crede gravida di pensiero (“Ho sempre pensato che la fine | è più importante dell’inizio | ma se la fine si versa nell’inizio | vengo fuori rifatto”). Talvolta, per fare sino in fondo il poeta, si sforza perfino di sborsare qualche obolo di impegno civile; ma deve precisarlo con apposito titolo, altrimenti nessuno sospetterebbe di impegno astrusità come “Le sole strutture morali | a cui ci affidiamo sono il mercato | e il meccanismo verde” (il poema è tutto qua, inutile cercare altrove il significato di “meccanismo verde”).

Cucchi però non si arrende all’evidenza e continua a fare il poeta, come Nando Meniconi faceva Tarzan. Con la differenza che l’eroe di Sordi lesinava le sue esibizioni da pontile, forse perché oscuramente consapevole di essere ridicolo; Cucchi no: quando gli chiedono di fare il poeta, non si tira mai indietro. Anche perché gli consente un’attività collaterale che sembra gratificarlo molto: revocare patenti di poesia a destra e a manca.

Ultimamente, in un articolo pubblicato sull’Unità, ha ritirato in blocco la patente a fior di cantautori, rei di mettere in musica i propri versi. Accusa già di per sé ridicola, per giunta provenendo da chi non arriva neppure a mettere musica nei propri versi; ma che fa addirittura sbellicare quando Cucchi, con gran sussiego, aggiunge che “poesia e canzone sono due forme di espressione ben diverse, come in fondo ognuno sa”. Quello che ognuno sa, a dire il vero, è l’esatto contrario (già etimologicamente: dice niente la vaga somiglianza fra “lirica” e “lira”?). Ma Cucchi ha fretta di sfoderare quella che per lui è l’inconfutabile prova di indegnità poetica: l’assai democratica equazione “popolare = scadente” in cui da sempre gli artisti senz’arte cercano consolazione al successo altrui. “Se si vuole arrivare ai grandi numeri, è chiaro che va ridotto il grado di complessità del messaggio”, sentenzia il Nostro, cui preme attribuire la miseria dei propri numeri a un messaggio troppo complesso per il popolo bue, che, restio a bocconi di vertiginosa densità concettuale e formale quali “Amo, del resto, questa mia fronte spaziosa | che giorno per giorno immagino e coltivo” e “Avevo una giacchetta fresco lana quasi gialla con disegni galles”, preferisce ruminare le notorie vacuità di Paolo Conte o De André. O del sommo Prévert, cui sabato scorso, dallo scranno di Tuttolibri, questo instancabile prefetto ha ritirato la patente di grande poeta dandogli dell’“incantatore sapiente ma a buon mercato”, “poeta che vuole arrivare subito al suo pubblico, cercando uscite a effetto a scapito della profondità”.

Scempiaggini assolute, che però, esalate dal nulla poetico in cui versa Cucchi, sfiorano l’eroismo. Forse è maturo per il grande passo: a Mauri’, mó facce Tarzan.

Sergio Claudio Perroni

*In copertina: Sergio Claudio Perroni nel ritratto fotografico di Natalino Russo

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