27 Maggio 2019

La morte di Sergio Claudio Perroni è uno schianto che sottolinea la mia odiosa inadeguatezza. Una memoria e un tributo

La notizia me la dà, a Siracusa, Fulvia Toscano. Lo conoscevi?, mi dice. Si è sparato a Taormina. Questa mattina. Per strada. In centro. Aveva 63 anni. Quello stesso giorno devo intrattenere il pubblico con una conferenza sul viaggio, sull’inquietudine inevitabile e inebriante degli scrittori. Non che i ‘segni’ riguardino me, nessuno è l’ombelico del tempo. Ma ogni ‘segno’ riguarda, di lato, ai fianchi la nostra vita, la incide. Il suicidio di Sergio Claudio Perroni, così eclatante, ammetto, mi ha sconvolto. Lo conoscevo, le dico, senza dire altro, lì per lì.

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Poi la vita di tramortisce perché corre come una muta di cani: la morte di Vittorio Zucconi, le elezioni europee… il fatto atroce pare già secolarizzato, cauterizzato, munto dal tempo, esaurito. Ma ogni suicidio, inevitabilmente, porta a quello di mio padre, ed è come se il padre morisse di continuo.

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Lo conoscevo. Era inevitabile conoscere Sergio Claudio Perroni. Un duca dell’editoria, dal carattere non semplice. Un traduttore di pregio: tra gli altri, ha reso la lingua di David Foster Wallace (La scopa del sistema), di Albert Camus (Lo straniero), di Michel Houellebecq (Estensione del dominio della lotta), di John Steinbeck (Furore). Un editor di spietata abilità (dicono), un romanziere riconosciuto. Lo conoscevo. La mia conoscenza di Sergio Claudio Perroni riguarda una vicenda di giustizia letteraria, che all’epoca mi fece male.

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Nel 2014 pubblicai, con l’editore Guaraldi, Rinuncio. Nel libro, simulavo che Benedetto XVI si fosse ritirato in un romitorio, a scrivere un diario, in cui dà senso alla sua scelta, abbagliante. Arrivato al Campiello, con inatteso tributo dell’allora presidente di giuria, Monica Guerritore, il libro è poi diventato uno spettacolo teatrale con la presenza di Paolo Graziosi. L’anno dopo, nel 2015, con Bompiani, Sergio Claudio Perroni pubblica Renuntio vobis, in cui, leggo le prime righe della didascalia editoriale, “Un papa, sopraffatto dalla realtà, ha lasciato il soglio pontificio e si è ritirato a meditare in un remoto monastero benedettino. Un misterioso frate va a fargli visita e lo interroga sui motivi della sua scelta”. Fu un amico, telefonandomi, a dirmi, guarda, Davide, uno ha scritto un libro come il tuo… Rimasi inondato da tracotanza, al culmine della vanità. In realtà, i libri, al di là della cornice, simile, e del medesimo punto di partenza – la clamorosa rinuncia del papa a giacere sul suo trono – sviluppano una scrittura diversa e hanno una diversa gestione narrativa. In ogni caso, scrissi le mie impressioni in pubblico, su un paio di testate. Perroni non replicò, non la prese bene, mi fece scrivere da uno studio di avvocati di prestigio, chiedendomi congruo risarcimento causa diffamazione. La richiesta era molto alta. Insieme ai direttori dei giornali su cui avevo scritto, concordammo una rettifica, per risolvere la questione. Ciò non mi impedì, pochi giorni dopo, di esprimere le mie opinioni (non favorevoli) verso quel romanzo. La storia finì lì né mai ho parlato con Perroni, anche se l’episodio è restato a lungo conficcato come una spina tra il palato e la voce.

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La vicenda mi fece passare giorni turbati: la leggevo come l’ennesimo gesto di superbia del potere editoriale nei riguardi di un poveraccio. Ma cosa ne sapevo io di ‘potere editoriale’ e di povertà. Soprattutto: da che parte, concretamente, si situava la parola ‘superbia’? La morte di Perroni, che riguarda la sua intimità, la sua sensibilità, così, è un monito che mi lacera. Il narcisismo è imperdonabile. E io sono stato, in quell’occasione, un torbido narcisista, uno che crede di battere Golia con la cerbottana, ma non sa, a dire il vero, dov’è Golia e come si maneggi la cerbottana. In quel contesto, non sono stato un ingenuo, ma semplicemente un idiota. Avrei dovuto invitare Perroni al dialogo, chiedendogli, eventualmente, di discutere insieme i nostri libri. Se due persone ai poli opposti della letteratura si fanno affascinare dallo stesso, perturbante, momento – la rinuncia di Benedetto XVI – una somiglianza miliare li accomuna.

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La morte di Sergio Claudio Perroni si impone in me, indipendente dalla sua scelta privata, come qualcosa che non posso ignorare. Mi ricorda la mia meschinità, e quanto sono lontano dall’autentico. Così forse la morte non è vana, finché aiuta i vivi – uno sconosciuto, per altro – a tendere al salto, al giusto, allo statuto di grazia. Quel giorno, nel pomeriggio, parlai, appunto, del viaggio: idealmente, quelle parole erano rivolte a Perroni, a quell’incontro che avrei potuto sancire con un sorriso, con una stretta di mano, e che ho vanificato. (d.b.)

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