05 Ottobre 2018

“Seduto in questa stanza, sulla costa olandese, a non far altro che guardare la pioggia dai vetri”: dialogo con Marino Magliani

Il centro della storia è a pagina 142, “Prima che te lo dicano gli altri”, dice lei, ammiccando a un nome capace di disinnescare il segreto. Il capitolo è il 29, e si chiude con quella frase senza scampo, come è quella Liguria, aureolata di ulivi, ripida, rude, con il sole che cala a colpi di lama e la vastità di ciò che è oscuro: “Neanche stringendogli la mano prima di andarsene gli aveva detto nulla, come se neanche le pietre e l’aria e la morte dovessero risentire quelle cose”. Prima che te lo dicano gli altri (Chiarelettere 2018, pp.330, euro 17,50) è un romanzo di silenzi cruenti, scritto nell’argento della solitudine; è un romanzo della terra – la Liguria profonda e senza profitto turistico; l’Argentina livida – e della vita – il protagonista, Leo Vialetti, conosce la pratica, quasi alchemica, dell’innesto – soprattutto è il romanzo della ricerca del padre, dove la rabbia si stinge nella nostalgia. La figura arcana che si sdraia sul romanzo è quella di Raul Porti, argentino, uomo di enigmi e di maestria, che nel 1974 scompare, in quell’era di trappole, sotterfugi e tormenti che inaugura il regime militare di Videla. Così, Marino Magliani, scrittore di individui solitari e sonori, di spazi cristallizzati nell’austerità (“Il tempo aveva saldato assieme bene e male, e le piante affamate, scolorite dalla costrizione al buio, s’erano attorcigliate alle reti dei letti e ad altri oggetti gettati dalle finestre dei profanatori, non per emergere, ma per aggrapparsi a qualcosa, come se avessero intuito che prima o poi da morte una mano le avrebbe profanate”), di scelte rapinose, definite in una scrittura felicemente arcaica, continua la sua letteratura lenta, bruna, che da L’estate dopo Marengo (2003) e Quattro giorni per non morire (2006) e Quella notte a Dolcedo (2008) e così via, continua a sorprendere. A me Magliani ha sempre ricordato la malia severa e dolce di Francesco Biamonti, il grande scrittore ligure scoperto da Italo Calvino, e oggi mi rimanda a Maqroll il Gabbiere, il dolente eroe istoriato da Álvaro Mutis. (d.b.)

magliani libroEspatriare – fisicamente, emotivamente – è un verbo che si attaglia a molti tuoi romanzi. Come se fosse questa la condizione dello scrittore – è in questo tempo, ma ne racconta un altro – e l’atto costitutivo per risolvere e cercare le sue radici. Dimmi, è così?

Più che da una patria, mi sento di uscire – di averlo fatto e di continuare a farlo – da un territorio. Ex solum, andarmene ciclicamente da un pezzo di Liguria, che poi alla fine è la condizione ideale per scriverne, sì, o scrivere, sedermi in questa stanza, sulla costa olandese, e non dovere o voler far altro che guardare la pioggia dai vetri.

La ‘tua’ Liguria, ancora, che a me ricorda sempre certe dolcezze di Biamonti, e l’Argentina, Buenos Aires, i desaparecidos, il 2024. Da dove nasce questo romanzo e da quali fonti – narrative, sentimentali?

La mia è di più una Liguria buia, anche selvaggia, profonda nel senso di nascosta e che si nasconde al mare, di quella di Biamonti. Ne perde naturalmente in esplosioni di luci, in profumi, e forse ne racconta di più il fango. L’Argentina, di là della pozzanghera, come usano chiamare l’oceano nella parte australe, è il contraltare ligure, infinitamente piano e solitario. La parte concava, o convessa. Passano cinquant’anni (1974-2024) tra i due tempi del romanzo, e in effetti il protagonista, Leo Vialetti, ci mette parecchio prima di decidersi a compiere il viaggio alla ricerca del suo eroe desaparecido. Il motivo è che mi serviva mostrare il futuro della Liguria, una lunga e definitiva decandenza, e una conferma: le parole profetiche che l’eroe, Raul Porti, ha lasciato a Leo cinquant’anni prima ora sono realtà, e a Leo non tocca far altro che passare quella pozzanghera.

Provo a leggere in diagonale il tuo lavoro, nel complesso. La storia Raul Porti, di cui dal 1974 il protagonista non sa più nulla, ricorda quella di Haroldo Conti, di cui hai tradotto il capolavoro, “Sudeste”. È corretto rintracciare una specie di ossessione narrativa, che valica i confini di questo specifico romanzo?

Certo, per quanto mi riguarda, mi faccio ossessionare dalle scomparse, ma anche da ciò che traduco, e siccome ultimamente ho tradotto storie di scomparse e di traumi, come per Haroldo Conti, e l’esilio di José Díaz Fernández, antifranchista morto a Tolosa nel 1942, quest’aria l’ha respirata anche la mia prosa. O forse ho solo tradotto storie del genere perché le cercavo, dal momento in cui mi ero deciso a scriverle?

Cercando la verità del maestro morto, fino al desiderio di abitarne la casa, il protagonista, Leo, cerca se stesso, senza sconti. Perché si scrive, allora? Per far vendetta di ciò che si era, per scalfire ciò che si sarà?

Si scrive – è presunzione? – per non lasciare a quanti abitano il nostro mondo il diritto di popolarlo solo con altro, insomma si scrive perché non sia sempre più, se non lo è già, casa d’altri. E forse mi sembra che questo valga anche per Leo, cerca disperatamente di far in modo che Villa Porti, la vecchia e fatiscente villa abbandonata nel 1974 dall’eroe, così come succederebbe se all’asta andasse ad altri, non venga profanata. Quanto alla vendetta, sì, ci ho pensato un po’ prima di scrivere questa cosa, la vendetta ci tocca, non per far vendetta di ciò che si era, o per scalfire il futuro, ma la vita stessa come forma di vendetta gentile, di continuazione, dettata dall’impossibilità di decifrare – anche queste idee – che è poi la condizione di un Leo Vialetti che pensa e non riesce a dirsi nulla, anzi, non pensa, a pensare, dice a un certo punto, ci pensano gli occhi.

L’arte dell’innesto, in cui è abile Leo, mi pare che indichi anche l’innesto di più lingue, di più culture. C’è qualcosa di metaforico, di ‘politico’ in questa scelta?

Boris Pahor diceva che la fine della sua lingua, sostituita dall’obbligo della lingua italiana, quando è andato a scuola, è stata come un’amputazione. Anche l’innesto è un’amputazione, in qualche modo, anche se diventa un regalo, un simbolo, nuova carne. Di politico no, ma di simbolico molto. Leo, bambino senza padre, impara l’innesto nel 1974, e per il resto della sua vita proverà ad affinarsi nella tecnica di innesto delle piante, che in dialetto ligure, risponde al verbo inserire.

Che libro ti ha formato, in fondo? Ti interessa la letteratura italiana di oggi?

Mi hanno coltivato gli amori, un tempo il realismo di Cesare Pavese (sono figlio di contadini e La luna e i falò è quanto si aspettava uno come me, uno per cui il Piemonte non è un’estensione, ma il vero marsupio della Liguria), il lirismo arido di Francesco Biamonti, la malinconia di ogni Pereira tabucchiano, fino alla solitudine di Haroldo Conti che ben conosci. Traduco cosa amo e continua a formarmi ciò che traduco. Quanto alla letteratura italiana, certo che mi interessa, la leggo, soprattutto quella sommersa, e a volte faccio di tutto per tirarla su dai fondali, come ho fatto per la letteratura di Elio Lanteri.

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