26 Marzo 2020

Caro Antonio Scurati, non venirci a insegnare il “sentimento tragico dell’esistenza” con il tuo tono sprezzante, grottesca parodia dell’intellettuale radical chic. Contro la retorica millenarista da “fine del mondo”

Forse di fronte alla malattia la letteratura dovrebbe, se non tacere, almeno non cercare per forza la metafora. “Non c’è niente di più primitivo che attribuire a una malattia un significato, poiché tale significato è inevitabilmente moralistico” scrive Susan Sontag, nel suo ottimo pamphlet Malattia come metafora. E se andiamo a cercare, la letteratura del passato faceva della tisi una forma di consunzione d’amore e dell’epilessia un male sacro o demoniaco. Più di recente poi, molti hanno trovato nell’HIV la punizione per i peggiori malcostumi, e di fronte al cancro ci sentiamo sempre più obbligati a una forza di volontà da guerrieri. Perché quindi dovrebbe far eccezione il Coronavirus?

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Già Mariangela Gualtieri, nella perdibile poesia Nove marzo duemilaventi, ha voluto vedere nel Covid-19 una vendetta della natura nei confronti dell’uomo, e ora Antonio Scurati, nell’ancor più perdibile articolo La dolce vita che dovrà scomparire uscito sul Corriere della seta, ci spiega come tale virus avrebbe la nobile missione di rendere gli odierni cinquantenni (o giù di lì) finalmente adulti.

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D’altra parte già da mesi numerosi intellettuali più o meno improvvisati vogliono spiegarci cos’è il “vero virus”: il vero virus è l’ignoranza, il razzismo, la paura, il riscaldamento globale, il capitalismo. Tutti problemi rilevanti, per carità, ma da trattare in separata sede. Il “vero virus”, invece, purtroppo è proprio un virus, come ne esistono da sempre, fin dall’influenza spagnola e ancora più indietro. Un minuscolo essere vivente che in fondo non chiede altro che sopravvivere, si potrebbe dire, ma non è il momento di intenerirsi, o di lanciarsi di nuovo in paragoni arditi. Contro un “vero virus” servono cure e vaccini, molto più che raffinate metafore, e la scrittura non può che cedere il passo alla scienza.

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Ma per Antonio Scurati, a quanto pare, il “vero virus” è il benessere, la spensieratezza. I troppi spritz, le scarpe sneakers e i cellulari ultima generazione. Se la prende in particolare, forse per maggiore vicinanza, con la generazione dei cinquantenni milanesi, ma ciò che dice è applicabile a ogni fascia d’età e città italiana, se non europea. Guarda dall’altro della finestra del suo studio tutti quelli che fino a ieri hanno vissuto tranquilli nella “pace e prosperità”, che le tragedie le hanno viste solo “in diretta televisiva”, senza aver “mai conosciuto il morso della guerra, mai sfiorati dal sentimento tragico dell’esistenza”, e che ora sono bambini spauriti, “inesperti della vita”, sottintendendo che un po’ se lo meritano, e che gli farà pure bene, ora, stare in coda per la spesa, con le loro mascherine di fortuna, e “vivere la fine del loro mondo”. Nell’ultima frase poi, in un atto di umiltà molto posticcio, si unisce loro nella fila per il pane.

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Non è solo il tono paternalistico e sprezzante, tanto da far sembrare quest’articolo una parodia fin troppo spinta dell’intellettuale radical chic. E nemmeno la scarsa aderenza alla realtà, poiché è evidente che solo una piccola e privilegiata parte dei milanesi e degli italiani in generale vive tra aperitivi, party in piscina, outlet e centri benessere. Buona parte invece, la fila per il pane l’ha sempre fatta, anche senza mascherina, e specie a cinquant’anni ha già visto morire amici e parenti tra malattie e incidenti stradali, per cui il sentimento tragico dell’esistenza ce l’ha già ben chiaro.

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Ma ancor più insidioso, oltre che retorico, è l’attribuire una mancata crescita morale al non aver conosciuto la fame o la guerra. Certo, un nonno un po’ pesante che racconta ripetutamente di quando è stato al fronte l’abbiamo avuto quasi tutti, ma almeno era un nonno vero. E soprattutto, siamo certi che, cresciuti in un mondo violento e ad alta familiarità con la morte, ora ci chiuderemmo in casa a tutela di ogni singola vita, specie quelle degli anziani, e non avremmo invece una visione più fatalista e darwiniana? E se non ci fossero stati questi lunghi anni di pace e stabilità, avremmo sviluppato il progresso scientifico necessario ad affrontare questa epidemia?

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Ma più di tutto, a Scurati e a tanti altri che si stanno rotolando nella retorica millenarista della “fine del mondo come lo conosciamo”, voglio dire che no, non cambieremo affatto. Non resteremo segnati per sempre, anzi, tra tre, sei, forse nove mesi, quando il Covid-19 sarà diventato una malattia come le altre e rientrerà negli accettabili rischi del vivere, torneremo esattamente come prima. Non saremo un’umanità migliore e nemmeno peggiore. Certo, contiamo che la Cina inizi a rispettare un po’ di norme igieniche e che in tutta Europa migliori l’organizzazione degli ospedali, in vista della prossima epidemia, perché c’è sempre un’altra epidemia in agguato. Ci prepareremo, anche se comunque non basterà, perché le cose non avvengono mai due volte nello stesso modo.

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Però non riscopriremo i veri valori grazie alla clausura. Non ci ameremo di più in famiglia, anzi, è più probabile il contrario. La maggior parte di noi non leggerà nemmeno la “Recherche”, o Guerra e pace, come si era ripromesso, e non avremo nemmeno le case più pulite e gli armadi più ordinati. Almeno, non a lungo. I primi tempi, quando torneremo a uscire, apprezzeremo di più il tepore del sole e il vento sulla pelle, ma solo per poco: torneremo presto a dare queste cose per scontate. Perché lo sono.

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D’altra parte, altrettanto rapidamente passeranno le ansie, il timore della vicinanza altrui, e quell’orrenda voglia di dittatura che per un attimo ci ha attraversati. Per fortuna sappiamo dimenticare, o non potremmo sopravvivere. In fondo, dopo l’11 settembre abbiamo ripreso a volare. Per un po’ ci è sembrato strano toglierci le scarpe in aeroporto e non poter portare il deodorante in borsa, ma ci siamo abituati presto. E dopo l’HIV, abbiamo ripreso a far l’amore senza preservativo, che qualche volta è rischioso, ma per lo più è bello e basta. Riprenderemo a lavorare, che crisi economiche ne abbiamo già viste tante: siamo veri maestri della precarietà, noi generazioni di bambini non cresciuti. Poi torneremo a toccarci gli occhi e la faccia, e forse qualcuno si metterà pure le dita nel naso. Non indosseremo più le mascherine e qualche volta dimenticheremo a casa persino la sciarpa, e se ci verrà il mal di gola, forse un po’ ce lo saremo cercato, ma sarà solo un mal di gola.

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E un giorno, temo, ai nipoti racconteremo che noi sì conosciamo la vita, perché abbiamo combattuto l’epidemia di Covid-19, e siamo stati tutti coraggiosi, onesti e ligi alle regole, un po’ come i nostri nonni, che erano tutti partigiani e nessun fascista. Però almeno, quel giorno, saremo anche noi nonni veri, non scrittori pretenziosi e moralisti, e i nipotini ci perdoneranno.

Viviana Viviani

Gruppo MAGOG