20 Maggio 2020

Gli scrittori ardono. Da Virgilio a Gogol’, da Kafka a Proust, le grandi opere eternate nel fuoco

Il fuoco si eleva divorando se stesso: dardeggia nell’oscurità, come una bocca, una sentenza, ma il suo fine è lo sfinimento, la morte. Il fuoco incenerisce – ma la cenere è feconda. Il fuoco consuma, consumandosi – e cuoce. Cuce la notte a un’alba grave, tramortita, bruna. In una variante del mito, Prometeo dona all’uomo, oltre al fuoco, l’alfabeto. C’è una sintonia tra il fuoco e l’alfabeto: si dice, in effetti, “impresso a lettere di fuoco” per dire di una parola, di un marchio indelebili. Eppure, le parole, come il fuoco, passano – una parola, elevata a promessa, ha il valore di un incendio, brucia tutta la nostra vita.

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Il prototipo è Virgilio: il poeta dell’Eneide, poema della consapevolezza artistica suprema, pretende che il libro sia bruciato. Il poema è incompleto, è vero, ma non contano le tensioni formali – è come se il poeta avesse intuito l’inconsistenza della poesia, la sua riluttanza a installarsi nella Storia, prona alla collisione e alla collusione. Nel punto più alto, la poesia chiede di ritrarsi nella fiamma – di essere autenticata dal fuoco. Il poeta deve sempre attraversare il fuoco della distruzione, scrive perché sia incenerito, perché la scrittura è pericolosa, dice il creato al contrario, è in contraddizione con la natura delle cose. Parlare con il sintagma delle foglie, con il singolo ritmo delle bestie è lo stato edenico – la scrittura sconvolge i margini del vero, smangia i regni – leggere come diletto è autentico delitto.

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“Sapevo della leggenda che pretende che Virgilio avesse avuto l’intenzione di bruciare l’Eneide, e mi era quindi lecito supporre – accettando la leggenda – che ad una decisione tanto disperata uno spirito come quello di Virgilio non dovesse esser stato spinto da motivi irrilevanti, ma dovesse anzi avervi influito l’intero contenuto metafisico e storico della sua epoca”, dichiara Hermann Broch, che fa di quell’incendio incessante, mai accaduto, il cardine del suo capolavoro, La morte di Virgilio.

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Se non incendia la propria opera, il poeta brucia se stesso: Friedrich Hölderlin nel rogo della follia, Rimbaud nella fuga, nella sparizione, Emily Dickinson nella reclusione, Leopardi nella contraddizione. C’è sempre una bruciatura nelle opere dei grandi artisti: con una certa intensità, il fuoco aggiusta una ferita, altrimenti ustiona, di certo altera i volti, li piaga.

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Franz Kafka chiede a Max Brod di bruciare i suoi libri – ma la richiesta, sappiamo, ottiene l’effetto ignifugo, contrario: se non c’è la cenere ci sia almeno la scottatura di un tradimento. Anche Arthur Rimbaud scrive all’amico Paul Demeny di bruciare le poesie manoscritte che gli ha regalato. D’altronde, consegnare i propri taccuini a un altro – sotto infatuazione e dunque errore – è come affidarli a mani che ardono. La metafora del libro bruciato, brucato dalle fiamme – consegnato dunque all’irripetibile, a ciò che non si può dimenticare – è all’origine del romanzo di Elias Canetti, Auto da fé. In un romanzo pubblicato da poco, The Paris Hours, Alex George s’inoltra nel torbido imperativo di Marcel Proust, che intima la governante, Céleste Albaret, di incendiare i suoi quaderni (ne scrive anche in Why Do Some Writers Burn Their Work?).

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Più di tutti, fu Nikolaj Gogol’ a giocare con il fuoco. Per Gogol’ pare che la scrittura abbia senso soltanto se dedita al fuoco. È come se lo scrittore sfidasse la fiamma: ciò che resta della mia scrittura dopo l’incendio è giustificato, redento, puro. Tra alfabeto e fuoco la lotta – o l’alleanza – continua: con la punta dei bastoni annerita dalla fiamma gli uomini scrivono i primi segni; secondo una leggenda cinese è il guscio di una tartaruga, scalfito dal fuoco, a pronunciare gli ideogrammi originari; il linguaggio, durante la Pentecoste, appare in forma di lingue di fuoco. Il 21 maggio del 1842 è pubblico Le anime morte – da lì comincia per lo scrittore il martirio della compiutezza, il tentativo di scrivere l’altro lato del libro, la sua gloria; la foia di trovare parole aderenti al fuoco.

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“Non è stato facile bruciare il mio lavoro di cinque anni, che tanta tensione dolorosa mi aveva richiesto, e ogni riga del quale avevo ottenuto al prezzo di un interiore sconvolgimento, e in cui molto vi era di quel che costituiva il meglio dei miei intenti e che mi occupava l’anima”, scrive nel 1846, nei Passi scelti dalla corrispondenza con gli amici, libro misterioso, sinistro, obliquo, che racconta la propensione di Gogol’ al sacrificio supremo, la crisi spirituale, il precipizio nella depressione, il desiderio di Dio. per quel libro, intriso di inquietudini morali, Gogol’ fu preso per pazzo; Lev Tolstoj, al contrario, galvanizzato dalla figura dello scrittore-profeta lo definì “un Pascal russo”; Dostoevskij, a suo modo, lo elesse a santo martire della madre Russia. “Fui creato da Dio, ed Egli non mi ha nascosto il mio fine. E non sono nato per far epoca nel mondo letterario. Il mio compito è più semplice e immediato: il mio compito è lo stesso a cui deve pensare innanzitutto ciascun uomo, e non io soltanto. Il mio compito è l’anima e la durevole opera della vita”. In questa visione, “dipingere bellissimi caratteri che palesino l’alta nobiltà della nostra razza non servirebbe a nulla”, pubblicare un libro semplicemente riuscito è “vano orgoglio e millanteria”. Dal rogo dei libri al rogo autoinflitto; non solo il fuoco dentro, intorno.

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Leggendo quel libro estremo di Gogol’ a Vladimir Nabokov s’incendiò la bile. “A parte il particolare carattere del suo caso, l’illusione generale nella quale cadde Gogol’ era ovviamente disastrosa. Uno scrittore è perduto quando comincia a farsi domande come ‘cos’è l’arte?’ e ‘qual è il compito di un artista?’”, scrive VN nelle memorabili Lezioni di letteratura russa. Eppure, la letteratura in generale e quella russa in particolare – a partire dai due titani: Tolstoj e Dostoevskij – nasce proprio intorno alla domanda sul suo senso. Perché non cucirsi le labbra con un cubo di brace? Perché non optare per il silenzio? Perché la scrittura, scaturigine del fraintendimento? Nabokov avrebbe voluto bruciare L’originale di Laura per non lasciare in eredità – come aborti nell’armadio – testi incompiuti, formalmente inaccettabili. Aveva ragione. Il fato – nella figura di moglie e figlio – lo ha fregato. Si scrive bruciando ciò che si è lasciato alle spalle.

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I manoscritti non bruciano: così s’intitolava uno studio – edito da Garzanti nel 1994, ora “non disponibile” – di Vitalij Sentalinskij che raccontava, caso per caso, da Mandel’stam a Bulgakov, da Babel’ a Florenskij, la sistematica azione del regime sovietico nell’alienare ed eliminare i poeti, gli scrittori, i pensatori sgraditi. Nella notte tra l’11 e il 12 febbraio del 1852, invece, dieci anni dopo la pubblicazione del suo capolavoro, Le anime morte, Gogol’ brucia ancora una volta i propri manoscritti. “Dopo la distruzione delle sue creazioni, il pensiero della morte come qualcosa di prossimo, necessario, ineluttabile gli si infisse profondamente nell’anima e non lo lasciava nemmeno per un istante” (A. T. Tarasenkov, Gli ultimi giorni della vita di Gogol’). Gogol’ morì nel sonno – dove i sogni bruciano la vita nell’incendio bianco – dieci giorno dopo aver bruciato la propria opera. Bruciando i propri scritti si era incenerito. Era riuscito a dimostrare l’esatta consustanzialità di opera e vita, corpo e corpus, carne e scritto. (d.b.)

*In copertina: Georges De La Tour, “L’educazione della Vergine”, 1647 circa

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