17 Agosto 2019

“Non basta criticare Salvini e fare i finti umanitari per essere scrittori. Con me cascate male, io vi riderò in faccia, a voi e alle vostre bandiere, alle vostre canzoni patetiche, rivoluzionari del davanzale, indignati da social, militanti di teglie di pasta al forno”: Veronica Tomassini in uno sfogo senza reticenze con Matteo Fais

Sulla maggior parte degli scrittori nutro un dubbio, un dubbio che esula per una volta dalle doti stilistiche e concerne la loro sincerità. Sono tutti così buoni, così umanitari! Non ce n’è uno che sia egoista, che se ne sbatta. Mi pare strano, oltre che statisticamente improbabile. La spiegazione, lo sappiamo tutti anche se con reticenza omettiamo di precisarlo, è che per stare nel giro giusto, con tutto ciò che ne consegue – festival, saloni, interviste in radio –, bisogna portare avanti una certa visione, dire ciò che è corretto dire. Un tempo l’artista organico doveva parlare bene del comunismo, se voleva lavorare. Poi il Partito si è convertito al mercato e all’Europa e tutti, come se niente fosse, hanno accettato il cambio di partitura, continuando a suonare per il medesimo direttore d’orchestra. Naturalmente, nessuno in pubblico lo ammetterebbe – difficile che un delinquente confessi candidamente il proprio crimine. Sta a chi osserva di capire, ma alcuni sanno mirabilmente far finta di non vedere.

Veronica Tomassini è in tal senso un unicum. Umana, ma mai buonista. Sostenitrice dei porti aperti, ma allergica alla dissidenza come professione. La differenza tra lei e chi sproloquia a favore dell’immigrazione è che la scrittrice gli immigrati li ha accolti e aiutati in tempi non sospetti, quando ancora non era di moda nella buona società che legge “La Repubblica” e abita nei quartieri alti. Contrariamente a chi si è limitato a dire che tutti quanti dovremmo prenderci in casa un diseredato, lei l’ha fatto – e questo, mi si perdoni, fa la differenza. Infatti, quando vede le stesse persone che le chiusero la porta in faccia, nel momento in cui chiedeva aiuto per quella povera gente, stracciarsi le vesti al grido di “No frontiere” e “Carola libera”, una rabbia incontenibile la pervade. A muso duro, l’ha scritto anche su Facebook. Era impossibile, a quel punto, resistere al desiderio di raccogliere il suo veleno e gettarvelo in faccia.

Cara Veronica, so che tu sei contro la visione salviniana della politica e contro la logica dei porti chiusi, eppure, come hai affermato recentemente in un tuo post su Facebook, c’è qualcosa di peloso e farisaico in tutto l’umanitarismo oggi così diffuso presso una certa classe intellettuale. Spiegaci bene perché. 

C’è una grande ipocrisia in questo battersi il petto, qualcosa à la page. Funziona, ti rende migliore. Lo fanno tutti. Oggi indossi la maglietta rossa, domani mangi un arancino nel porto di Catania, partigiano nella causa della Sea Watch – mai tanto spirito ridicolo concentrato in un unico luogo –, dopodomani ancora sali sulle barricate del tuo balcone, con i gerani da annaffiare, e inneggi: “Carola libera!”. Come definirli? I sovversivi del davanzale. Nella mia città, a ogni piè sospinto rispuntano i vegliardi della sinistra. Combattenti catacombali – scusate l’accostamento. Cioè, berciare contro Salvini, nel recente ‘non’ comizio (non ha parlato, non lo hanno fatto parlare), è un po’ scagionare il tarlo dell’inanità. Se lui è il peggiore, per una questione di contrapposizioni universali, noi siamo migliori: nero-bianco, bello-brutto, buono-cattivo. Il mondo va a sinistra, disse la vedova Mitterand, in visita in questa mia città di provincia, mediocre, primordiale, che si riscopre d’un tratto eversiva. Allora c’era un primo epocale movimento di uomini e non se ne accorgeva nessuno. Voglio dire, non c’erano oltranzisti degli slogan à la page. Uomini dell’Est si spostavano attraversando sentieri clandestini, venivano a crepare da noi, occidentali annoiati, irretiti, distratti. Non se ne accorgeva nessuno, o altrimenti sobbalzavano taluni igienisti puristi del quieto vivere. Cos’è? L’umanità ha fatto un salto della specie? Quelli che allora erano con la pinza al naso son sicura che stavano a protestare al comizio di Salvini, riscoprendosi nelle canzoni di Guccini, imparate per l’occasione, riconoscendosi una voce da reazionari all’uopo, come un neonato sorpreso del proprio vagito. Sono indignata. Provo vergogna, o imbarazzo, un pudore che mi dice: “Stai zitta, nasconditi, non vedere, non prendertela”. No, no, questo mondo sta virando a destra, una destra non ancora collocabile esattamente. Non chiamiamola destra, chiamiamola l’antagonista confusa (ma incazzata) di una sinistra da attico ai Parioli. La sinistra accecata dalla partigianeria più sfrontata – hanno un repulisti degno di nota – scrittori tal de tali pronti a salpare per mari lontani, hanno indotto un’opinione segreta, strisciante, non quella che fischia ai comizi di Salvini – quello è solo un tromp l’oeil. La vera opinione tace, digrigna i denti. Vedrete, Salvini lo voterà persino il più terrone tra i terroni, quello sul quale i leghisti hanno indirizzato le loro fatwe più riuscite.

Sappiamo bene che oggi per gli scrittori è sport nazionale e necessario lasciapassare morale per la casta dei superiori dire peste e corna di una certa parte politica, in particolare di Salvini. Eppure, a me pare che questa sia più una posizione standard da salotto buono, con evidenti ricadute positive per la propria carriera. Insomma, non vi è niente di sconveniente, disdicevole o scandaloso nel dire no al Ministro dell’Interno. Casomai, è quello che ci si aspetta da chi scrive. Al contempo, credo che tutta questa gente confonda lo sbandierare, o anche l’avere realmente dei buoni sentimenti, con l’essere una grande penna. Ma chi ha detto che uno scrittore deve essere buono, o pensare al bene dell’umanità. Tu come la vedi?

Credo che un intellettuale debba avere il coraggio di essere persino infimo, un corvo, una scheggia impazzita, il gobbo che suggerisce lo sconveniente, quello che non si deve dire. Lo scrittore, l’intellettuale, non è detto che debba essere il consegnatario della giusta opinione, del pensiero irreprensibile. Al contrario. Che dica e basta. Senza la leziosità manieristica che si spaccia – dicevo – per sovvertimento. Ma questo è un altro discorso ancora. Quanta credibilità c’è in un crocchio di intellettuali che prendono parte al tumulto pro Ong con un video sul genere pubblicità progresso? Nella vita, quanta coerenza governa un impegno di questo tipo? Cosa fanno? Hanno salvato qualcuno? Tolte le feste, le conventicole, l’esagitata presa di posizione in un dottissimo pezzo d’opinione sul giornalone di riferimento, poi, cosa resta? Cosa fanno? Con me cascano male. La mia vita sconfessa il pusillanime vizio di essere dalla parte giusta. E questo è un altro discorso ancora.

Resta il fatto che, comunque, uno scrittore può anche assumere delle posizioni rispetto alla gravità di una certa contingenza, quale quella che stiamo vivendo, senza chiudersi nella torre d’avorio della cosiddetta “eternità” – direi che sarebbe addirittura auspicabile. Tu, per esempio, se non ho male inteso, hai aiutato delle persone in difficoltà. Magari raccontacelo in breve… Non senza precisare, però, se ti sia mai capitato di conoscere uno scrittore che abbia fatto altrettanto.

È stato un caso (io lo chiamerei destino). La mia vita mi ha infilato in una retrovia spaventosa. La mia piccola storia sentimentale è precipitata – senza volerlo, senza saperlo – negli spostamenti apocalittici di una grande Storia. Fine anni ’90. Mi sono innamorata di un uomo, ero una ragazza. Un uomo dell’Est, beveva, viveva per strada, era un clandestino. Era un immigrato. Cercai di salvarlo da una morte più o meno probabile. Per salvare lui me ne sono cascati addosso altri, simbolicamente tutti, come l’effetto domino che scoperchiava un tombino. Mi accorsi che ero dentro una guerra, c’erano morti, eroi, feriti, c’era un fronte: ratti dilatati contro integerrimi caporali dell’opinione civile e borghese. Anni vissuti in questo parossismo. Pellegrinaggi nelle mense delle chiese, ambulatori di enti morali. Sensazione da pidocchio respinto. Mendicanti di un’esistenza, noi come gli altri. Non abbiamo trovato casa – anzi usiamo la parolina magica, “accoglienza”. Non c’erano bandiere alzate per loro, ne ho scritto fino alla nausea. In fondo, i miei romanzi non parlano che di questo. Non li ha salvati nessuno. Non c’erano partigiani dei miei stivali. Questa gente – fischiatori addetti nei comizi di Salvini (un vero ruolo etico, attenzione) –, pronipoti dei girotondini, smidollati con la chitarra che cinguettano canzoni sessantottine un altro po’, mi fanno quasi pena, per l’impudica esultanza. No, perché poi c’è la vita, la mia è andata in pezzi insieme con molte altre. Ci sono dei morti, che dovrebbero pesare sugli esecutori di slogan alla moda, partigiani all’occasione, dovrebbero sentirsi schiacciati dalla criminale omissione. Ho bussato a tutte le porte, sono diventata un’eretica, un’anticlericale, con la mia fede, non riconoscevo la chiesa di Dio negli uomini che ho incontrato, ai quali supplicavo una possibilità, una sola: “vi prego”. Quante volte l’ho fatto, chiedere, pregare, supplicare? Ah certo, la politica, il Welfare State. L’ho preteso, nel mio ruolo (sono anche una giornalista), interrogavo ora l’uno ora l’altro. Un polacco in chemio moriva sulla panca dove dormiva, dove viveva. Mirek, Ewa, altri nomi, li ricordo, esalavano, a Natale, in una grotta – per morire di freddo ci vogliono appena tre minuti (lo scriveva Orhan Pamuk) –, mentre accanto si disponeva il presepe vivente organizzato dalla parrocchia. Da una parte si moriva, ma gli astanti guardavano interessati poco più in là. Organizzavano la rappresentazione della nascita del Figlio di Dio, mentre a pochi metri moriva davvero Il Figlio dell’Uomo. Non sono parabole evangeliche esse stesse? Indizi di eternità? Un implicito rimprovero? E così via. Ho imparato a riconoscere la diabolica discrepanza tra i professatori delle parole da omelie e l’applicazione caritatevole. L’impellenza di salvare l’altro e gli affezionati dei discorsi lunghissimi che alla fine equivalgono a una negazione. Allora oggi dico: non vi credo. Non avete salvato nessuno. Ci sono dei morti. Io sono la testimone. Io li racconterò, io vi riderò in faccia, a voi e alle vostre bandiere, alle vostre canzoni patetiche, rivoluzionari del davanzale. Con me cascate male, indignati da social, divoratori di arancini, militanti di teglie di pasta al forno.

Tu come vedi il rapporto tra scrittura e politica. Insomma, si può evitare di essere politici, quando si prende una penna in mano? E, soprattutto, quando si corre il rischio di piegare la propria penna alla volontà del Potere?

L’intellettuale è un uomo libero, non un servitore del potere. Uno scrittore non ha padroni, o non lo è.

Matteo Fais

Gruppo MAGOG