06 Aprile 2019

Da Ingmar Bergman a Osamu Dazai, da Bret Easton Ellis ad Antonio Tabucchi, Beppe Fenoglio e James Ellroy, 9 scrittori italiani confessano i loro debiti letterari (stuzzicati da Matteo Fais)

“Nessun autore si sveglia la mattina e scrive”: ecco uno dei pochi insegnamenti significativi che abbia ricevuto a scuola. La considerazione è incontestabile. Ogni testo si rivela, infatti, nella sua essenza, un ipertesto. È costituito di rimandi e può, almeno potenzialmente, fungere da rimando per chi lo leggerà. Con buona pace di coloro che pensano di poter vivere alieni da qualsiasi legame, ognuno di noi e quindi ogni scrittore ha padri, madri, figli – spesso vastissime parentele.

Quando si decide di scrivere un romanzo è praticamente impossibile, al netto della volontà che sempre dovrebbe animarci di essere originali e non epigoni, non prendere a modello chi ci ha preceduti. Vuoi per lo stile, la forma, il contenuto, la struttura, anche quando non lo dichiariamo, c’è ogni volta della farina che non proviene dal nostro sacco nel momento in cui ci mettiamo a impastare una storia. Per questo abbiamo chiesto a nove autori di rivelare il nome di una o più opere che abbiano avuto una spiccata influenza su uno dei loro romanzi. Niente di troppo indiscreto ma, com’è buona tradizione in ogni paese italiano, viene naturale domandare “ma tu di chi sei figlio?”.

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Osamu Dazai e Matteo Fais

Il legame tra il mio Storia Minima e Lo squalificato di Osamu Dazai è, per così dire, postumo e trascendentale – spero che la cosa non suoni troppo new age. In soldoni, non avevo letto il libro in questione prima di scrivere il mio. Eppure, Storia Minima, come ho scoperto successivamente, è un po’ la versione europea, a settant’anni di distanza, di uno dei più bei testi maledetti che si siano mai scritti all’altro capo del mondo. Entrambi i nostri personaggi sono radicalmente estraniati rispetto al contesto sociale che li circonda. Yozo e il mio protagonista senza nome rifiutano la logica alienante del lavoro a ogni costo –  il secondo vi è in parte costretto, visto che non lo trova e rientra per tal motivo nella categoria dei cosiddetti “scoraggiati”. Sia l’uno che l’altro non riescono a intrecciare relazioni stabili, un po’ per assenza di attitudine, un po’ perché la struttura relazionale negli universi intorno a loro sta da tempo andando in pezzi e questi ne hanno una intima e disturbante, più o meno conscia, consapevolezza. Sono, insomma, due caratteri che “non ce la possono fare”, come si suol dire. La condanna di un tempo di decadenza pesa su di loro, unito all’oscura percezione che la vita sia in fondo invivibile e non se ne possa uscire sani e salvi – sia io che l’autore giapponese, con l’esistenzialismo, ci andiamo a nozze. Incapacità nello stare al mondo, tormento e al contempo una strana macabra ironia segnano i nostri testi così lontani eppure inspiegabilmente vicini. Lui è stato tradotto in italiano, io spero un giorno di vedermi trasposto in ideogrammi. Per il resto, l’autore si è suicidato il giorno del suo trentanovesimo compleanno. Scusate, dunque, se, con qualche anno in meno, non mi spingo oltre con le possibili analogie.

Matteo Fais è nato a Cagliari, nel 1981. Ha scritto su diverse riviste. Al momento, è collaboratore fisso di “Pangea.news” e “VVox Veneto”. Il suo esordio letterario è avvenuto con L’Eccezionalità della regola e altre storie bastarde, Robin Edizioni. Per lo stesso editore ha pubblicato di recente Storia Minima.

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Tommaso Di Ciaula, Beppe Lopez e Francesco Dezio

Volendo individuare una genealogia letteraria ai romanzi che ho scritto – titoli che hanno contribuito a formare la mia poetica, se così si può dire –, uno sarebbe sicuramente Tuta Blu di Tommaso Di Ciaula (Feltrinelli 1978). Un romanzo che, in modo diaristico (oggi parleremmo di memoir), narra ire, ricordi e sogni, di un metalmezzadro (colui che si divideva tra il lavoro nei campi e la fabbrica). Ciò che mi colpì, all’epoca, fu la freschezza del linguaggio – schietto, immediato e modellato sull’oralità – che senza mediazioni intellettualistiche raccontò la realtà in cui vivevano gli operai del sud Italia post boom economico. Lo faceva mettendo insieme frammenti di esperienza, cronache, considerazioni sulla politica di quegli anni, incazzature e soprattutto slanci lirici e visionari di un mondo rurale che stava sparendo o perdendo di identità in favore di un’industrializzazione che, fin da allora, si stava svolgendo in modo raffazzonato, incerto e all’insegna del familismo amorale. Degno di nota è il fatto che a pubblicarlo fu un editore come Feltrinelli, all’epoca in prima linea nel dare voce (anche) agli irregolari e non professionisti della scrittura (il popolo) che, fuori delle categorie borghesi, avevano una verità forte da sparare in faccia al mondo (per dirla alla Demetrio Stratos). Le parole di Tommaso trovarono spazio in una collana, “I franchi narratori”, voluta da Nanni Balestrini – davvero altri tempi. Il libro, uscito poi dal catalogo Feltrinelli, è stato ripubblicato da un piccolo editore veneto, Zambon. Al momento, che io sappia, è tornato nuovamente fuori catalogo. L’altro fratello letterario è, invece, Beppe Lopez, l’autore di Capatosta (Mondadori, 2000). Il libro è concepito come una cronaca familiare: intorno agli anni Trenta, in un quartiere popolare di Bari, nasce Ianguasand’, soprannominata Capatosta, figlia non voluta di Donna Sabbedd’, la rancorosa madre che a lei attribuirà la responsabilità di ogni sorta di sventura, tra cui la morte del marito. Ciò che rende questo romanzo un classico della narrativa italiana contemporanea è il pastiche stilistico – un italiano arditamente imbastardito col dialetto barese – che non ha nulla da invidiare a quello di Gadda, Pasolini, Verga o Raffaele Nigro nei Fuochi nel Basento. È un Sud inaudito quello narrato da Lopez, né contadino, né borghese, né operaio, né cittadino, né magico, né metropolitano (dalla postfazione alla riedizione per Besa, perché anche questo capolavoro è scomparso per un po’: è un destino peggiore di quello degli Atridi, il nostro).

Francesco Dezio è nato ad Altamura nel 1970 e ha esordito nel 1998 con un racconto nell’antologia Sporco al sole. Racconti del sud estremo (Besa). Nel 2004 ha pubblicato con Feltrinelli il romanzo Nicola Rubino è entrato in fabbrica, opera che inaugura una nuova stagione della cosiddetta letteratura industriale e ora riproposta da TerraRossa Edizioni. Del 2014 è la sua prima raccolta di racconti, Qualcuno è uscito vivo dagli anni Ottanta (Stilo), diversi dei quali già apparsi su quotidiani e riviste. Nel 2008 è stato ospite di cinque puntate della trasmissione Fahrenheit, su Rai Radio 3. Ha collaborato con “l’Unità”, “la Repubblica-Bari”, “Corriere del Mezzogiorno”. Il suo ultimo romanzo è La gente per bene (TerraRossa Edizioni, 2018).

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James Ellroy e Adriano Angelini Sut

Se devo indicare un libro, un romanzo, che abbia influenzato in maniera determinante il mio gusto letterario, non ho dubbi: American Tabloid di James Ellroy. Si tratta del primo di una trilogia di romanzi che l’autore di Los Angeles ha dedicato agli Stati Uniti, la Underworld USA Trilogy (il secondo è Sei Pezzi da Mille, il terzo Il Sangue è Randagio). È la ricostruzione ossessiva e a tratti visionaria della storia americana, dal 1960 all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Nella storia si muovono personaggi reali le cui gesta romanzate rimettono in scena gli avvenimenti di quegli anni. Da J. Edgar Hoover, il temuto capo dell’FBI dell’epoca, ai leader del Ku Klux Klan. Dai boss della mafia italiana e messicana (Carlos Marcello, Sam Giancana), ai politici doc del tempo, soprattutto la famiglia Kennedy, a cominciare dal vecchio Joe Kennedy (col suo controverso rapporto con la mafia italiana di Chicago, nella roccaforte elettorale del Massachusetts). È, in particolare, lo stile che, per quanto mi riguarda, ha rappresentato un punto di svolta nella mia formazione mentale e letteraria. Uno stile che oserei definire ipnotico. Lì dove la ripetitività ossessiva di nomi, situazioni, frasi tronche, abbozzi di pensieri, flussi di coscienza, una punteggiatura minuziosamente rivoluzionaria (i periodi irrelati la fanno da padrone, con grande dispiacere dei professori di liceo), ti costringono a leggere trattenendo il respiro e spesso facendoti rischiare la trance. Sublime trance. American Tabloid è stato anche la miccia che ha permesso alla mia scintilla creativa di dar vita al mio romanzo biografico del 2015, Jackie (Gaffi Editore), col quale ho ripercorso la storia di Jacqueline Kennedy, moglie di John Fitzgerald Kennedy e, secondo me, prima e unica vera First Lady della storia statunitense (imitata, malissimo, da tutte le sue eredi). Jackie si racconta dal letto di morte, in una falsa autobiografia scritta in prima persona e che, come American Tabloid, cerca di ripercorrere quegli anni da un punto di vista diverso: quello di una donna, esperta d’arte e simbolo della moda, del gusto e del look, amata e acclamata come una diva del cinema in tutto il mondo.

 Adriano Angelini Sut, romano, traduttore e scrittore. Ha pubblicato nel 2009 101 cose da fare a Roma di notte (Newton Compton). Nel 2015 esce Jackie (Gaffi Editore), un romanzo biografico su Jacqueline Kennedy. Nel 2017 Mary Shelley e la Maledizione del lago (Giulio Perrone), la biografia romanzata su Mary Shelley. Nel 2018 è presentato allo Strega con il romanzo L’ultimo singolo di Lucio Battisti (Gaffi Editore). Ha collaborato con “Il Foglio” e “Radioradicale.it”. Collabora con www.atlanticoquotidiano.it. Fra le sue traduzioni, Ogni Cosa è Maschera di Janice Galloway (Gaffi); Sex Trafficking di Siddarth Kara (Castelvecchi); Il programma di  James Dashner (Fanucci).

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Beppe Fenoglio e Davide Rosso

Tutto ebbe inizio con Un giorno di fuoco di Beppe Fenoglio, la mia caduta da cavallo. Da quel momento in poi c’è stato un prima e un dopo, uno spartiacque tra la fitta nebbia in cui mi trovavo e la possibilità di intravedere qualcosa. Con quel libro mi si svelò un mondo e un modo di fare letteratura nuovo e più autentico, capace di narrare piccole storie in uno spazio geografico ristretto trascendendole al massimo grado. Capii, una volta per tutte, che avrei potuto raccontare quei pochi chilometri quadrati che percorrevo in tondo senza bisogno di allontanarmi troppo. Insomma, ero seduto sopra un tesoro e non lo sapevo. Fenoglio mi ha semplicemente aperto gli occhi. Della sua scrittura, due sono le peculiarità che prediligo e che ho fatto mie: il modo di trattare il paesaggio – in questo caso le Langhe – al pari degli altri personaggi della storia, una presenza viva e costante, capace di dare una svolta al racconto, partecipe e determinante; e la piccolezza delle storie narrate, il garbuglio dei sentimenti, il rancore, la grettezza, ma anche lo slancio eroico, epico, la forza d’animo, la lealtà, la purezza morale descritte con vivo realismo, con lucidità e spietatezza. Eventi che Fenoglio consegna al lettore con un’intensità bruciante, con una lingua netta e precisa, senza giri di parole, trasformando vicende all’apparenza insignificanti in qualcosa dal grande peso specifico. Per non parlare dell’attualità di certe sue storie. Basti pensare al racconto eponimo con quell’incipit fulminante: “Alla fine di giugno Pietro Gallesio diede la parola alla doppietta…”, il cui protagonista, stanco e vessato dalle tasse, potrebbe essere benissimo uno dei tanti imprenditori disperati alle prese con Equitalia. Ma non solo l’opera in sé, anche lo scrittore, l’uomo in carne e ossa, con la sua vicenda biografica, è stato un modello per me, e lo è tuttora. Ho sempre guardato con ammirazione il suo nobile provincialismo, la dedizione e il rigore con cui affrontava i suoi scritti, e la fede che nutriva nei confronti della letteratura.

Davide Rosso è nato a Cuneo il 25/10/1973. Nel 2017 ha pubblicato il romanzo La perseveranza, con la casa editrice Italic-Pequod di Ancona.

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Piera Paolo Pasolini e Giuseppe Casa

Chissà perché Teorema mi ricorda Massimo Recalcati mentre discetta sulla paralisi etica, sociale e culturale della famiglia moderna –  o meglio, la parodia che ne fa un comico in tv –  che con “Lacaaan” spiega: “All’uomo piace godere, all’animale no”. Attenzione: “tutto è simbolo”, ci avvisa il vate che c’è in Pasolini (torna in questo romanzo la scavatrice zampilla lacrime). Ma “i fatti”, che a me interessano e che per la prima volta mi mettono in sintonia con il poeta di Casarsa, per quel che riguarda il mio Metamorph, sono questi: un giovane Dio seduttivo e libertino non ben identificato è ospite nella bella casa di una famiglia borghese. C’è una descrizione scarna dei personaggi; capo famiglia indaffarato, moglie annoiata, figlio mezzo frocio, figlia minorenne viziata (ma tutti sicuri del posto che spetta loro in società), e infine la donna di servizio, mezza ninfomane e mezza mistica. L’ospite, come nei migliori capitoli di un film lynchiano, uno alla volta, si scopa l’intera famiglia, compreso la serva, e, quando sparisce, lascia tutti nel caos e nello sconforto. Dio è arrivato, tutti sono stati bene, ma non c’è stata Salvezza. Nessuna Redenzione. Alla fine il capo famiglia dona la sua fabbrica alla classe operaia e, estraneo a tutto, si allontana nudo in mezzo alla folla. Dove porta tutto questo? Non ci sono risposte a questa domanda, ma solo un urlo disperato nel deserto.

Giuseppe Casa è nato a Licata, nel 1963. Ha scritto Veronica dal vivo, Transeuropa Edizioni, 1998; In questo cuore buio, Transeuropa Edizioni, 1999; La notte è cambiata, Rizzoli, 2002; Superfish a Manhatthan, Edizioni Interculturali, 2003; Diario di Orvieto, Tondelliana, Transeuropa Edizioni, 2004; Men on men. Antologia di racconti gay. Vol. 3, Arnoldo Mondadori Editore 2004; Pit Bull. Cani che combattono, Stampa Alternativa, 2008; La Donna Del Lago, Lite Editions, 2012; Blues, Koi Press, 2012; Metamorph, Foschi, 2013; Io non sono mai stato qui, Clown Bianco, 2017.

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John Barth e Cristò

Ho scritto L’orizzonte degli eventi, un romanzo breve pubblicato nel 2011 da Il grillo editore, pensando a John Barth. L’opera galleggiante, La fine della strada e i suoi racconti pubblicati in Italia mi avevano stregato. La sua riflessione sulla presenza dello scrittore nella scrittura mi ha regalato l’idea per un personaggio che mi ha dato grandi soddisfazioni: Giovanni Bartolomeo (il protagonista del mio libro), uno scrittore anziano affetto dal morbo di Alzheimer che sta leggendo il libro che l’ha reso famoso. Purtroppo, però, non ricorda di averlo scritto lui e lo critica ferocemente ripetendo: «questo libro è una porcheria».

Cristò (1976), barese, ha pubblicato Come pescare, cucinare e suonare la trota (Florestano), L’orizzonte degli eventi (Il grillo), That’s (im)possibile (Caratterimobili e Intermezzi), La carne (Intermezzi), Restiamo così quando ve ne andate (TerraRossa).

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Bret Easton Ellis e Andrea Campucci

“Il pensiero moderno ha realizzato un notevole progresso col ridurre l’esistente alla serie di apparizioni che lo manifestano…”: così esordisce J.P. Sartre nella sua introduzione a L’essere e il nulla, gettando alle ortiche tutto quel fardello ontologicamente detestabile fatto di dualismi fra “interiore” ed “esteriore”, “fenomeno” e “noumeno”, “sostanza” e “accidente” e via discorrendo. Ora, la ricerca filosofica si è da sempre spaccata le corna nel tentativo di dare una veste a questo tipo di indagine e uno dei meriti dell’esistenzialismo è proprio quello di aver saputo prendere atto di quell’omogeneità che intercorre fra “essenza” ed “esistenza”. Ma facciamola corta. Quando Patrick Bateman, sciagurato protagonista di American psycho di Bret Easton Ellis, afferma, tra uno sgozzamento e qualche allegra amputazione, “quello che conta è la superficie, solo la superficie”, egli sembra far suo, su un piano esistenziale, quello che secoli e secoli di indagine filosofica hanno prodotto a livello epistemologico. Insomma, che sia una cena al Dorsia, un paio di scarpe Ferragamo, o la lingua di Bethany tagliuzzata con le forbici o il sangue che sprizza copioso dal corpo di Tiffany, ecco, fra le due categorie di “fenomeni” non c’è alcuna differenza. Le apparenze, le cravatte di seta Ermenegildo Zegna, le scarpe Paul Stuart, divengono della stessa materia dello sperma e del sangue, sono ontologicamente omogenee. Ed è qui che compare il comico, la risata dissacrante che esplode nel momento della giustapposizione, pirandellianamente intesa come dissonanza (si legga il saggio sull’umorismo), giustapposizione di cui i postmoderni hanno fatto una cifra stilistica. C’è tutto questo in un romanzo del calibro di American psycho, una lezione (naturalmente non l’unica in tutto quell’impiastro di autori che si sono svegliati con Don DeLillo, o Arbasino in Italia) che, appunto partendo dagli esiti scandalosamente nullificanti dell’esistenzialismo, ha saputo riconfigurare l’idea di narrazione come se quest’ultima non avesse nessuno scopo, nessuna impellenza sociale, raggiungendo così quell’ideale di perfetta inutilità che in fin dei conti è sempre stato il suo inespresso traguardo, e a cui anch’io, con il mio Porn food, ho cercato di avvicinarmi.

Andrea Campucci nasce a Firenze, nel 1983. Qui si laurea in filosofia e inizia a collaborare con vari editori. Nel 2009, tramite il sito ilmiolibro.it, esce il suo primo romanzo, Naive. È poi la volta di un saggio filosofico, Nietzsche, la fine della ragion pura, 2011, per l’editore Mimesis. Nel 2012 pubblica, per Arduino Sacco, la raccolta di racconti Cupio dissolvi, per poi arrivare, nel 2013, al romanzo La scampagnata, sempre per l’editore Arduino Sacco. Nel 2016 approda alla Leone edizioni con il romanzo Plastic shop. Per lo stesso editore, nel 2018, pubblica infine il romanzo Porn food.

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Ingmar Bergman e Davide Brullo

Per scrivere cerco il cortocircuito del dolore, il nodo delle vipere, e metto il dito lì, senza alternativa che una reazione a morsi. Ingmar Bergman, il grande regista, era un traditore, un vampiro: nei film le sue amanti si azzannavano per dimostrare adesione di suddito. In Persona, ad esempio, sadicamente, Bergman mette in sfida, sotto l’occhio da voyeur della telecamera, Liv Ullmann, che da poco gli ha dato una figlia, e l’amante, Bibi Andersson. Siamo nel 1966, e in quell’anno Bergman è ufficialmente sposato con la quarta moglie, Käbi, una pianista, che segue Else, Ellen e Gun. Nello stesso tempo, prosegue la relazione con Ingrid, che ha conosciuto nel 1957, che sposerà nel 1971, e da cui, nel 1959, ha una figlia. La figlia, Maria, fu cresciuta da Ingrid nella casa del marito – anche lei era sposata, come Ingmar – a cui aveva dato tre figli: solo più avanti, ben più tardi, da ragazza, scoprirà che il suo vero padre era Bergman. Questo groviglio di “relazioni incomprensibili”, come scrive Bergman, trova tragica sintesi nel 1994: a Ingrid viene diagnosticato un cancro allo stomaco. L’episodio sconvolge il regista, che comincia a scrivere un diario. Contestualmente, la moglie, che morirà nel maggio del 1995, e la figlia, Maria, scrivono il loro diario. Nel 2004 Bergman pubblica questi materiali con il titolo Tre diari. Gesto a testimonianza di un amore estremo o estrema voluttà di un uomo ‘pubblico’, di un artista che spettacolarizza il proprio dolore? Proprio questo – contraddizione, vitalismo, morte, dolore che ammutolisce i mortali e raddoppia la lingua dell’artista – è il prediletto per scrivere un libro. Il libro, Ingmar Bergman: la vita sessuale di Franz Kafka prenda atto di questo diario anomalo e dell’anomalia del desiderio di Bergman: fare un film sull’opera di Kafka – ne scrive in Lanterna magica. Così, ho immaginato il soggetto e il diario scritto intorno a questo film ipotetico, ipnotizzante, gestendo il romanzo come un saggio, curato dalla figlia Maria. Ognuno ha i propri autori magistrali, che sono capitati senza opzione né scelta – io direi: Rudyard Kipling e la Bibbia, il libro dei Re, poi Dylan Thomas e Rainer Maria Rilke, Cormac McCarthy e Hermann Broch e Herman Melville – ma lì il dolore è dettato con suprema tenerezza (“Cerchiamo di vivere nel presente e non nel domani”; “Conterò i giorni fino a quando la serenità non scenderà su di noi (in un modo o nell’altro). Conterò i giorni, dovessi contare fino alla fine dei tempi” – e con tenaglia, nell’aspro e nel limpido.

Ingmar Bergman: la vita sessuale di Franz Kafka (2015) fa parte del “Ciclo del Tradimento”, cominciato da Davide Brullo con la pubblicazione di Rinuncio (2014), proseguito con Pseudo-Paolo. La lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro e Un alfabeto nella neve (entrambi 2018). Dal romanzo l’autore ha tratto un testo teatrale, Ingmar, per Daniela Giovanetti e Silvio Castiglioni, che ha debuttato a Rimini nel 2018.

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Antonio Tabucchi e Paolo Di Paolo

È curioso, ma posso ricordare il pomeriggio di marzo del 2001, quando mi presi una pausa dai compiti, per cominciare a leggere il nuovo libro di Antonio Tabucchi, appena uscito per Feltrinelli. Copertina bellissima, fotografia misteriosa di un abbraccio. Titolo molto tabucchiano: Si sta facendo sempre più tardi. Quando lessi il più breve dei racconti, Lettera da scrivere, ebbi forse per la prima volta questo pensiero: mi piacerebbe saper scrivere così. E sulle pagine del giornale scolastico, per gioco, provai a imitare quel racconto nei modi, nel tono, nella formulazione epistolare. Su quella linea di confine fra la scuola superiore e il mondo incognito del dopo, la lettura di quel Tabucchi (di cui avevo già amato molto Sostiene Pereira) mi spinse a immaginarmi più concretamente scrittore. E devo perciò riconoscere che un anno dopo, concentrandomi sull’impresa di una mia prima raccoltina di racconti, Nuovi cieli, nuovissime carte, Empiria, la fascinazione per quello stile – lirico, direi, liquido, avvolgente, musicale, molto “letterario” – ebbe un peso più che consistente. Imitavo, sì. Dico apertamente che imitavo. E quando Dacia Maraini, senza saperlo, nella generosa prefazione scrisse che le mie pagine ricordavano quelle di Tabucchi, sobbalzai. Tana. Aveva visto bene.

Paolo Di Paolo è nato a Roma, il 7/6/1983. Nel 2003 entra in finale al Premio Italo Calvino per l’inedito, con i racconti Nuovi cieli, nuove carte. Ha pubblicato libri-intervista con scrittori italiani come Antonio Debenedetti, Raffaele La Capria e Dacia Maraini. È autore di Ogni viaggio è un romanzo. Libri, partenze, arrivi (2007), Raccontami la notte in cui sono nato (2008). Ha lavorato anche per la televisione e per il teatro: Il respiro leggero dell’Abruzzo (2001), scritto per Franca Valeri; L’innocenza dei postini, messo in scena al Napoli Teatro Festival Italia 2010. Nel 2011 pubblica Dove eravate tutti (Feltrinelli, vincitore del premio Mondello, Superpremio Vittorini e finalista al premio Zocca Giovani), nel 2012 nella collana di ebook “Zoom” Feltrinelli La miracolosa stranezza di essere vivi. Nel 2013 con Mandami tanta vita (Feltrinelli), è finalista al Premio Strega 2013. Nel 2016 pubblica con Einaudi Tempo senza scelte e con Feltrinelli Una storia quasi solo d’amore.

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