Schiva, ritrosa, di autoritario pudore: muore Hebe Uhart, maestra della letteratura argentina. Il dolore ci fulmina: “Era una amica di ‘Pangea’, ci siamo sentiti in giugno e un mio studente si è laureato sulla sua opera una settimana fa…”
Ieri, 11 ottobre. Mando un messaggio di auguri oltre l’Atlantico, a Buenos Aires. Maria Soledad Pereira, lettrice formidabile, scrittrice raffinata, donna speciale, fa gli anni. Devo a lei quel che so della letteratura argentina contemporanea. Mi risponde telegrafica, quando qui in Italia è già il 12 ottobre. “Questo pomeriggio è morta Hebe Uhart. Che tristezza!”.
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Il 2 dicembre Hebe Uhart avrebbe compiuto 82 anni, e insieme a Liliana Heker e a Sylvia Iparraguirre era considerata la più grande scrittrice argentina vivente. I quotidiani argentini, come è giusto, sprecano la mitragliera degli aggettivi: “la grande maestra della letteratura argentina”; “la splendida narratrice”; “il mondo della letteratura è in lutto”. La sua fama è stata gratificata, nel 2016, da uno dei premi letterari più importanti – e finanziariamente cospicui – del Latinoamerica, il ‘Manuel Rojas’. Tuttavia, alla Uhart della fama importava niente, della considerazione altrui ancor meno.
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Con ascendenze italiane – per parte di madre – e tradotta in Italia, grazie alla lungimiranza dell’editore Calabuig (Traslochi è del 2015, l’anno dopo esce Turismo urbano), Hebe Uhart ha un carattere notoriamente schivo, robusto, senza sconti, esito di una vita intrisa nel dolore, con venature di follia. Grazie all’aiuto necessario di Maria ‘Sole’ Pereira, riuscii a contattare la Uhart nel novembre dell’anno scorso. Le sue risposte alle mie domande erano telegrafiche. Difficile estorcere di più da Hebe. Mi diede una dritta narrativa che devo ancora assolvere (“legga Felisberto Hernández, il grande narratore uruguaiano, è il mio maestro”), mi disse alcune cose che fungono da manuale morale per lo scrittore integerrimo. Le riscrivo. “Mi tengo ancorata alla realtà – per questo ‘ispirazione’ è una parola che suona strana – preferisco parlare dell’opera dell’osservare”; “La solitudine permette una attenzione di maggiore qualità”; “Il mio rapporto con il potere è che non voglio avere rapporti con il potere”. Ignorava la letteratura italiana di oggi, amava Pasolini, Pratolini, Montale. Il dialogo con la Uhart, infine, è precipitato in una intervista su Pangea. Fu felice? Non lo so.
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Genio del racconto breve – genere specificamente argentino – a un certo punto Hebe Uhart si è stufata della letteratura, dei letterati – che ha sempre tenuto a debita distanza. Si è data alle cronache di viaggio, registrate in libri importanti come Viajera crónica (2011), De la Patagonia a México (2015), De aquí para allá (2017). L’ultimo libro, uscito quest’anno, parla di animali, i suoi animali preferiti, e s’intitola Animales. Infine, le chiesi un testo da tradurre in Italia. Si convinse. Mi inviò Ecuador, una porzione del lungo reportage De aquí para allá. Andava a stanare gli indigeni e gli indigenti, la Uhart. Voleva capire come vivono i malmenati, e come la tecnologia investe e muta i costumi tradizionali. Non attendete testi risonanti di pathos e di corazon politico, alla Eduardo Galeano, però. “Io non ‘denuncio’, mostro”, mi ha detto la scrittrice quando l’ho interrogata su quel testo. “Non ho consigli né ricette. So che la gente è indifferente a ciò che non conosce. Uno viaggia, si connette al mondo a suo modo, come può. Io faccio conoscere ciò che non si vede”. L’ultima volta ci siamo sentiti questa estate. Uno studente dell’istituto universitario dove insegno, la Fondazione Unicampus San Pellegrino di Misano Adriatico, si chiama Marco Casanova, voleva laurearsi sull’opera della Uhart. Gli ho passato Ecuador. Gli ho chiesto di contattare l’autrice, di dettagliare, insieme a lei, la sua biografia, verso cui è reticente. In qualche modo, la vincemmo. “Se capita a Buenos Aires, ho vari libri sugli indigeni latinoamericani, che posso regalarle. Il mio telefono è ***, mi può trovare sempre dalle 21 alle 22,30”. Il suo ultimo messaggio.
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Lo studente, poi, Casanova, ha risolto la sua laurea triennale su Hebe Uhart. Ha tradotto una parte di Ecuador, ha compiuto una buona analisi dell’autrice. Penso sia il primo lavoro universitario sulla scrittrice argentina. Era il primo ottobre. Qualche giorno dopo, ho inviato il lavoro del mio studente a Hebe. Non ho ricevuto risposta. (d.b.)
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La biografia
Hebe Uhart nasce a Moreno, nella provincia di Buenos Aires, il 2 dicembre 1936. È di ascendenza basca (Uhart è una delle forme del cognome basco Ugarte), con origini italiane da parte di madre. Figlia di una maestra e di un impiegato bancario, non si dimostra una lettrice precoce, né ha la vocazione della scrittrice: scrive solo se non ha nulla di meglio da fare. Preferisce giocare o andare a fare visita alla zia, affetta da schizofrenia paranoide, sindrome che la portò alla pazzia; “viveva in una casa bellissima” ricorda la Uhart in un’intervista rilasciata a Cátedra abierta nel 2011, “che devastò gettando secchiate d’acqua contro le pareti”. Quella della zia è una vita tormentata, ma nonostante ciò si rivela fonte d’ispirazione per la piccola Hebe; le visite alla “tía loca”, così la chiama, diventano quindi un’occasione per fuggire di casa, per sottrarsi dalle grinfie di una madre eccessivamente severa e autoritaria che ha occhi solo per il figlio maschio, il quale morirà tragicamente in un incidente d’auto a soli 27 anni. Con il subentrare della fase adolescenziale, Hebe diventa più timida e riservata; smette di andare alle feste di compleanno e prende la triste abitudine di inviare telegrammi di auguri agli amici, per poi scappare nella propria stanza a piangere; inizia a vestirsi di nero e a lavarsi con il sapone da bucato, una pratica ascetica da lei stessa inventata dopo aver sentito dire che “lo Spirito Santo vomita i tiepidi”. A 17 anni si iscrive alla facoltà di Filosofia e contemporaneamente trova lavoro come maestra elementare per pagarsi le spese universitarie. La prima volta che si presenta davanti a un gruppo di alunni, indossa lo stesso grembiule che indossava a scuola fino all’anno prima: gonna plissettata e fiocco dietro la schiena; tanto che un’alunna di nove anni, quando la vede, le dice: “Tu non sei una maestra, sei un’alunna come noi”. La mattina fa l’insegnante, la sera si ritrova con i compagni della facoltà di Lettere e Filosofia, un circolo di pseudointellettuali che tra una bottiglia di whisky e l’altra parlano di Nietzsche e rivoluzione. Inizia per Hebe un susseguirsi di relazioni disastrose, la prima delle quali con un uomo sposato. È un’avventura di breve durata: si conclude infatti con la fuga di Hebe, che si vede come un ostacolo per la vita dell’amante, e così, per dimenticarlo, si trasferisce a Rosario. Un anno dopo torna a Buenos Aires, e qui ha inizio un periodo di eccessi e dissolutezza, frutto delle morti premature del padre e del fratello maggiore. Si lega sentimentalmente a un uomo con problemi d’alcolismo e comincia ad avere uno stile di vita sregolato: trascorre le notti fuori casa e dorme spesso da amici, per poi tornare dopo svariati giorni dalla madre, tanto che quest’ultima decide di darle parte dei suoi risparmi affinché si compri un appartamento e viva una vita più stabile e sedentaria. Tuttavia, la sua è una compagnia di intellettuali emarginati dediti all’alcol, e ciò non la aiuta. È in questo periodo che Hebe inizia a bere: si presenta ubriaca agli incontri con le case editrici, procurandosi una pessima reputazione. Il settore dell’editoria comincia a respingerla, anche se, curiosamente, non disdegna gli scrittori maschi alcolisti. Dopo questa parentesi buia della propria vita, Hebe trova impiego come vicedirettrice in una scuola elementare di Moreno. Insegnerà poi filosofia, presso le università di Buenos Aires e Lomas de Zamora. Per vent’anni ha diretto uno dei laboratori di scrittura più prestigiosi di Buenos Aires.
La produzione letteraria
Hebe Uhart si interessa alla lettura durante il primo anno della facoltà di Filosofia, periodo in cui inizia anche a scrivere; ma non lo fa sul serio. Non avrebbe mai pensato, come lei stessa afferma in un’intervista rilasciata a La Nación nel 2011, che sarebbe diventata una scrittrice. Nei primi anni di università si rivela importante la figura di un amico e compagno di facoltà, il quale, data l’assenza al tempo di laboratori di scrittura, assume il ruolo di guida e critico letterario, spronandola nel 1962 a pubblicare la sua prima raccolta di racconti, intitolata “Dios, San Pedro y las almas”. Da allora pubblicherà a ritmo sostenuto, sempre con case editrici piccole e indipendenti, la maggior parte delle quali ormai non esistono più. È proprio per questo che è sempre stata ritenuta un’autrice quasi segreta, e per lunghi anni seguita da pochi estimatori, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “escritora oculta”. Hebe infatti non frequenta circoli letterari, né manda i suoi racconti a case editrici di rilievo, fatta eccezione per due raccolte, vale a dire “Del cielo a casa” e “Turistas”, entrambe edite da Adriana Hidalgo rispettivamente nel 2003 e nel 2008. È in questo periodo che l’autrice comincia a guadagnarsi una discreta fama, che raggiunge l’apice in seguito alla pubblicazione di “Relatos reunidos” nel 2010. Tuttavia Hebe non è alla ricerca del successo smisurato; a detta sua le farebbe male. Né tantomeno vuole essere quella che, stando a Rodolfo Fogwill, è la migliore narratrice argentina: è un peso che la Uhart non vuole portare sulle spalle, perché la collocherebbe in una posizione isolata, e lei da sola non vuole stare. Elvio Gandolfo ha scritto che il modo di guardare le cose di Hebe Uhart produce un modo di dire, uno stile, che consiste nel parlare di ciò che più c’è di normale come se fosse un qualcosa di raro, con uno sguardo attento e sensibile che le permette di giungere a osservazioni di una semplicità estrema.
Quando le chiedono che cosa significhi per lei essere considerata la migliore scrittrice argentina, lei risponde così: “Nulla”, e lo fa senza falsa modestia, perché tale verdetto non le interessa. In un intervista del 2015 rilasciata a Lorena Lacaille, afferma di non avere mai pensato di dover scrivere un bel racconto; dice inoltre che, a differenza della stragrande maggioranza degli scrittori argentini, lei non scrive pensando agli amici, né ai riconoscimenti. Quando viene chiesto ad Hebe che cosa sia per lei la letteratura, la paragona ad un matrimonio di mezzo secolo che semplicemente fa parte della propria vita: a volte le dà piaceri, altre volte problemi.
Un cambio di genere: “Quiero que me salgan plumas nuevas”
Successivamente alla pubblicazione di “Relatos reunidos”, pubblicato nel 2010 da Alfaguara, Hebe Uhart decide di abbandonare un habitat naturale fatto di racconti e romanzi per portare il suo sguardo in un altro ambito, la cronaca di viaggio. Tale scelta potrebbe apparire agli occhi di molti un azzardo, considerata l’età di Hebe (70 anni passati) e una fama ormai consolidata grazie ai propri racconti. Tuttavia, tale cambio di rotta è necessario: per la prima volta, Hebe è stanca di scrivere fiction. Così, in una fase della vita nella quale i più si rifugiano nelle certezze e nella sedentarietà, lei fugge dalla propria zona di comfort, con la ferma convinzione che c’è ancora tanto da vedere e capire. La narrativa di viaggio non rappresenta un territorio del tutto inesplorato per la Uhart, che è sempre stata una grande viaggiatrice: aveva 19 anni quando andò a Ushuaia a bordo di una nave mercantile, e 20 quando visitò il Perù; dai 21 in poi ha frequentato il Brasile; mentre era professoressa universitaria, scriveva cronache di viaggio per il supplemento culturale di “El País”, quotidiano di Montevideo. Quelle stesse cronache andranno a comporre la sua prima raccolta di cronache di viaggio, pubblicata da Adriana Hidalgo nel 2011, intitolata “Viajera crónica”. Il 2012 è un anno di viaggi per Hebe, che spazia dall’Argentina al Paraguay, vivendo esperienze che inserirà poi nella raccolta intitolata “Visto y oído”, edita sempre da Adriana Hidalgo nel 2013. Nel 2014 la scrittrice visita San Carlos de Bariloche, città della Patagonia nord-occidentale, diverse città della provincia di Buenos Aires, Corrientes (provincia nel nord-est dell’Argentina), Tucumán (provincia nel nord-ovest dell’Argentina) e Asunción, fino ad arrivare a Guadalajara, in Messico. Sono questi i viaggi che verranno poi inclusi nella sua terza raccolta di cronache di viaggio, “De la Patagonia a México”, pubblicata nel 2015. È proprio il 2015 l’anno in cui Hebe Uhart intraprende i viaggi che la porteranno a scrivere la raccolta “De aquí para allá”, la terza ed ultima, pubblicata ancora una volta da Adriana Hidalgo nel 2017.