16 Ottobre 2018

“Sarò trasformato in una parola”: riscopriamo Nichita Stanescu, il poeta che mangiava le libellule, usava la spada e il verbo, in battaglie senza tempo, e fu candidato al Nobel

Fu come un clangore, questa poesia piena di elmi e di sauri, di visioni medioevali e di astrali, stralunate astrazioni, di sangue e di verbo. Nichita Stanescu – morto troppo giovane, a 50 anni, nel 1983 – è tra i grandi poeti in lingua rumena di sempre, lo dice anche la Treccani: “la sua opera ha segnato un momento di svolta nel panorama letterario degli anni Sessanta, imponendo uno stile e un linguaggio che si allontanano in modo deciso dai canoni estetici della poesia impegnata in voga nell’immediato dopoguerra”. La sua opera è raccolta, in Italia, in un volume ormai irreperibile, La guerra delle parole, a cura di Fulvio Del Fabbro, edito nel 1999 da Le Lettere, nella bella collana poetica ‘Il Nuovo Melograno’. Esordio nel 1960, con Il senso dell’amore, riconoscimenti in tutta Europa, compresa una nomination al Nobel per la letteratura nel 1979, Stanescu “due mesi prima della sua morte, davanti a una platea di studenti, dirà: ‘Se mai morirò, sono sicuro che non sarò cibo per i vermi, poiché io sarò trasformato in parola’” (Del Fabbro). Le sue poesie, dai titoli impareggiabili (Raid nell’interno delle pietre; Alcune generalità sulla velocità; La lotta di Giacobbe con l’angelo ovvero dell’idea di ‘tu’; Il freddo, ovvero la seconda confessione del cattivo sognatore), si stagliano, spesso, come iscrizioni d’oro nel senza tempo.

***

Una cavalcata all’alba

Il silenzio urta contro i tronchi, vi si interseca,
si fa lontananza, si fa sabbia.
Ho rivolto verso il sole il mio unico volto,
le mie spalle strappano foglie nella corsa.
Tagliando il campo, su due zampe
il mio cavallo si erge sull’argilla, schiumante.
Ave, mi volto verso di te. Ave!
Il sole irrompe nel mondo gridando.

Il sole balza dalle cose, gridando
ne muove i contorni sordi e solenni.
La mia anima lo accoglie, ave!
Il mio cavallo si erge su due zampe.
La mia criniera bionda arde nel vento.

*

Il mangiatore di libellule

Mangio le libellule perché sono verdi
e hanno gli occhi neri,
perché hanno due paia di ali
trasparenti
perché volano senza fare rumore
perché non so chi le abbia fatte e come mai
le abbia fatte
perché sono belle e soavi,
perché non so come mai siano belle e soavi;
perché non parlano e perché
non sono convinto che non parlino.
Mangio le libellule perché non mi piace
il loro sapore
perché sono velenose e
perché non mi fanno bene.

Mangio le libellule perché non le capisco,
le mangio perché sono loro contemporaneo
le mangio perché ho provato a mangiare
prima persino le mie mani
ed erano infinitamente più disgustose,
le mangio perché ho provato
a mangiarmi la lingua
la mia lingua di carne
e spaventato ho visto
che essa aveva abbandonato le sue parole
verdastre, dagli occhi neri,
lontano da me, nella fame.

*

Nodo 6

Mi ricordo, ero caduto da cavallo,
e stavo nell’erba, sanguinante,
come un corpo ovale
percorso dalle formiche.
Il mio dolore era un principato
un paese putrido, muto,
quello che era stato il mio occhio era un palazzo,
il mio cuore, un sole nero.
Mi ricordo, ero caduto da cavallo
quando tu hai detto di me
che mi farai rinascere di nuovo regale,
e fra dolori divini –
e mi darai di nuovo la stessa stella
e lo stesso cavallo, di nuovo,
di nuovo mi farai montare in sella,
facendomi parola, eco.

*

Segno 12

 
Lei era divenuta pian piano parola,
fili di anima nel vento,
delfino negli artigli delle mie ciglia,
pietra che disegna anelli nell’acqua,
stella dentro il mio ginocchio,
cielo dentro la mia spalla,
io dentro il mio io.

Nichita Stanescu

(trad it. Flavio Del Fabbro e Alessia Tondini)

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