02 Dicembre 2019

Ma quanto è divertente Sanguineti! A 50 anni da “Poesia italiana del Novecento”, l’antologia che ha fatto del Parnaso un bordello

A rileggerla, oggi, è uno spasso. La prima edizione costava 3mila lire, fu pubblicata cinquant’anni fa, nel 1969, da Einaudi, con una banda esplicativa, “Settant’anni di poesia italiana in una scelta ampia e originale”. Direi che il secondo aggettivo, originale, calza perfetto.

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Poi ci fu l’antologia ‘omologante’ – quella del parlar quieto e disteso – di Pier Vincenzo Mengaldo, dieci anni dopo, per Mondadori, vasta rassegna che ha fatto felici tutti – è ancora quella autenticamente dominate, i Poeti italiani del Novecento. Per dare un colpo al politicamente corretto, poi, gli struzzi di Einaudi commissionarono a Cesare Segre e a Carlo Ossola una Antologia della poesia italiana oceanica, dalle origini ad oggi. Il Novecento è d’andamento dromedario, la desertificazione del desiderio.

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Devo dire che ora, 50 anni dopo, l’antologia di Edoardo Sanguineti, intelligenza intrisa di linguaggio e ideologia, Poesia italiana del Novecento, è bellissima. Il fango ideologico, voglio dire, ora suona fieramente polemico e, insomma, siamo di fronte a uno che pensa, che battaglia, che non ‘compila’ una antologia – di critici-compilatori sono piene le aule universitarie – ma fa del gergo antologico un atto critico.

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(Che nel 1969 si sentisse la necessità di una antologia della poesia del Novecento significa non solo che il secolo fu breve, ma che in quel secolo ne son passati almeno dieci, che il desiderio di conservare – certi, evidentemente, che si andava verso l’oblio: ci si forza a ricordare ciò che non ha forza sufficiente per sopravvivere – coincideva con quello di distruggere)

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Quali sono gli assunti critici di Sanguineti? Beh, egli riduce il nostro Parnaso in puttanaio. Pascoli è poeta per malinconici piagnoni (o meglio, “il Pascoli autentico è il lirico visionario e ipnotico di Novembre e del Gelsomino notturno, di Digitale purpurea e di Mia madre”), D’Annunzio, trombettiere del Bello, un trombone a tratti patetico (“Nella sua vasta produzione appare oggi più resistente quel tanto che, non già innocente mai, confessa almeno con più aperto candore, il sogno di un supermondo, in modi di chiara evasione e illusione”; va detto, a onor di Edoardo, che il malsopportato Vate è il più antologizzato di tutti, con un centinaio pagine).

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Sanguineti minimizza perfino la ‘trimurti’ che si recita al liceo: Ungaretti-Saba-Montale. Del primo vanno salvati gli esordi, sperimentali, barlumi di versi nel nulla (“Oggi rimane ovviamente decisivo il momento inaugurale della carriera poetica di Ungaretti”), del terzo si sottolinea “la linea poetica del ‘borghese onesto’, secondo una sorta di conservatorismo illuminato e scettico”, che avvia al canonico “Amaro Stile”, che eccita poco Sanguineti. Di Saba si smerciano “le parole levigate dalla tradizione poetica, che ancora spontaneamente fioriscono sulla bocca delle ‘persone colte’ letterariamente formate”.

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Il genio di Sanguineti – poeta, di suo, tanto intenzionale quanto poco riuscito, d’una audacia tutta retorica, infine – sta nell’aver costruito un controcanto al canone. La “linea Sanguineti” fa perno sull’esaltazione di Gian Piero Lucini, “il primo poeta provocatore (poeta petroliero, avrebbe forse egli detto volentieri, per sé) del Parnaso del nostro secolo” (cento pagine anche per lui nell’antologia, dedicate al suo “costante appello a una linea di cultura, nazionale e europea, diametralmente antitetica alla linea ufficiale delle nostre lettere”; ma chi se lo fila oggi?), passando per Corrado Govoni (“il suo liberty allo stato selvaggio”) e Guido Gozzano, valicando il Futurismo, celebrato come avanguardia autentica, necessaria, perduta tra i miasmi dei fasci (a Sanguineti l’onore di aver intruppato alla grande F.T. Marinetti, Enrico Cavacchioli, Luciano Folgore, Ardengo Soffici, Paolo Buzzi, Umberto Boccioni ma pure Farfa e Fillia). Il cuore infuocato della “linea Sanguineti” è Dino Campana, “finalmente, uno dei pochi davvero grandi del nostro Novecento… suo autentico protagonista”. In effetti, “Campana è, ancora oggi, il solo esempio radicale, nella poesia novecentesca, di un’arte tutta alienata dinanzi alle istituzioni letterarie… La caduta dell’opera nel quadro della politica letteraria non ha così permesso di rendere adeguata giustizia a questa esperienza: cioè di accoglierla come una reale alternativa storica, e come un’indicazione tutta disponibile, ancora”.

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Col senno di oggi – a ideologie seppellite nel cimitero degli elefanti – il lavoro di Sanguineti è esaltante. Non solo nella proposta intima – una poesia audace e scontrosa, scontenta, altra e d’altrove, mentre ancora vince il quadretto di placidi poeti che prendono il tè, la contemplazione beota del tombino del proprio io, la lirica tombale, autoreferenziale, d’un vitalismo narcisista – ma nell’intelligenza. È una antologia divertente e provocatoria, politicamente sbilanciata, che gioca alto, che reagisce e incide. È un lavoro critico che ti fa incazzare, che pretende la lotta, è un atto di guerra che ti fa espatriare dalle solite solfe. Puoi non essere assolutamente d’accoro, ecco. E questo è già un sollievo. (d.b.)

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