11 Gennaio 2021

“Accadimento ignoto”. Viaggio nell’opera di Giancarlo Sangregorio

Giancarlo Sangregorio costruisce la sua casa-atelier – dal 2011 sede della Fondazione che prende il suo nome e da lui voluta – nei tardi anni Cinquanta, secondo i dettami di Alvar Aalto. Di fatto, la casa sembra una tenda, una creazione sospesa. Una iurta in pietra, cemento, legno. L’indizio di un viaggio. La casa di Sangregorio ratifica una esigenza di isolamento, rettificata dai viaggi intrapresi dall’artista, continui. Conoscersi ed estirparsi sono la stessa cosa per un’artista. Un secolo fa il poeta Robinson Jeffers costruì la propria casa a Carmel, in California: la casa si chiama Tor House, è fatta di pietre. Anche la casa è l’avvisaglia di una poetica. Il poeta tramuta in versi le proprie mani.

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“Se il tempo è solo un’altra dimensione, allora tutto ciò che muore/ resta vivo; non annientato, solo tolto di vista”, scrive Robinson Jeffers nel suo canto più alto, Campofame. La casa di Sangregorio non è un museo, un recinto di memorie: con la sua statura alfabetica, è una parola nuova, un fischio di vetro e pietra e promessa verso la luce.

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Non si ‘piega’ la materia – ci si lascia piagare perché sia libera. La scultura esige la potenza del volo, fosse un transito – tramite i megaliti – verso il regno dei morti, degli spettri, delle promesse sbandate. Francesca Marcellini mi racconta di una visita di Cristina Campo e di Elémire Zolla presso la casa dello scultore. Sangregorio non tiene traccia dei suoi incontri: racconta che Zolla si staglia, silenzioso, la Campo, invece, è incuriosita dalle opere. Vi vede, forse, i tratti dell’asceta, dell’artista dedito a ciò che è primo, che s’imprime. Sangregorio come una sorta di pittore di icone, che dilania il retorico, l’artistico, in favore del liturgico, del rito.

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La poesia, pur incoerente e indifesa, è nella poetica di Sangregorio, nel suo progetto. “Anche la poesia può affidare alla seducente spazialità della scultura le lettere dell’alfabeto per ottenere arcane consonanze”, scrive. Come lo scultore, il poeta affronta la forma con metodo selvaggio, con carezza e vigore – di fronte alla pagina, marmorea, egli non ha alcun legame grammaticale, ha l’onere del ritmo. Il poeta spappola il vocabolario generando una armonia più grande, deforma il meccanismo della lingua per indicare lo splendore annidato nell’amazzonia dell’alfabeto. L’audacia – che spesso procura il fraintendimento, il virus dell’incomprensione – è la stessa, con la stessa violenza e la stessa pietà si sradica la forma dal niente. Anche la scultura ha la nitidezza di una lettera. Dall’arcano si ricava l’arco di una profezia, il giogo del destino in cui soggiornare – o dilaniare.

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Sangregorio scrive su cartoncini ritagliati, materia di scarto. Scrive sui rifiuti, in modo improvviso, colto da una urgenza, dal miglio di una mistica. Ogni messaggio ha l’esclusività di ciò che è fragile e sfrangiato, sfrontato nell’insussistenza. Certamente, sono messaggi senza destinatario, questi, dunque di allucinata intensità: la grafia dello scultore, mobile, come un’ascesi d’acqua, potrebbe designare un destino. In uno di questi cartoncini:

vivere ai piedi

di grandi alberi

percossi da un vento che

ci fenderà come

scure nel legno

Sembra, al crocevia di una agnizione, di assistere all’apparizione del codice. In qualche modo la scultura deforma lo spazio: terra, cielo, silenzio planetario, tutto converge su questa forma eletta, che prima non c’era. La scultura va venerata. Così, la parola, nei lacerti di Sangregorio, un tributo al turbamento, garantisce l’estasi, s’impegna nel definire un’etica. L’albero va venerato e soltanto privi di vanità sapremo cogliere il nostro nome, nella ramificazione del vento.

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Di Sangregorio è leggenda il carattere severo, il rigore scambiato per scontrosità. Lo scultore non ha maschera, scolpisce proprio per estrarre l’ultima stilla di menzogna dalla forma – risponde, se è grande, alla richiesta della materia. Nelle fotografie, Sangregorio sembra un airone: è magro, una fragilità presunta che dice, piuttosto, di una forza arcaica. Gli occhi sono inflessibili: si tratta di ascoltare, con cura, la parola della pietra e del legno, il desiderio dei cieli. Poi, di agire, con gesti senza remissione. Sui fogli di block notes, Sangregorio non scrive, ‘agisce’, appunto; non scrive, intaglia.

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Scavare un foglio, come un legno o la pietra, per scoprire il primo dell’uomo, l’ansa del feto. Sul ciglio del millennio, Sangregorio: “Come tutte le rivoluzioni anche e soprattutto quella tecnologica è destinata a divorare i suoi artefici”; “L’estetica moderna invita la massa ai nuovi miti con i riti connessi – vedi grandi spostamenti provocati dall’arte ‘turistica’”. Spesso Sangregorio si rilegge, torna in sé, su di sé, cancella. In un testo sparso definisce la regola per scrutare la sua opera: “è richiesto un atto di fede”. O meglio, una “migrazione nello sconosciuto”. La parola, per l’artista, qui, è evangelica: sintetizza il rito incluso nell’atto, estrapola la norma dall’inerme. L’arte ha per principio l’esodo, l’esondare – lo sconosciuto richiede un rischio, si esprime nel fuoco. In ogni caso, occorre partire, verso un buio.

Giancarlo Sangregorio, nei primi anni Settanta, è in Africa, tra i Dogon. Il suo viaggio è testimoniato da innumerevoli fotografie

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La scrittura non ‘giustifica’ l’opera: spesso Sangregorio riflette sul proprio lavoro, attraverso gli scritti, ad anni di distanza, decenni dopo. L’opera, ora, non lo guarda con ostentata malinconia: è ancora una minaccia, qualcosa che mantiene la sua funzione sacra – cioè, mette nel pericolo. Se la scultura – figura del feticcio, del dio, incantesimo del creatore, mortale, che occupa lo spazio con qualcosa che gli sopravviva – è autentica, cioè sacra, pone sempre in pericolo. “Mi piacciono i Dogon, i veri animisti politeisti razionali ancora individuabili, ognuno parte della propria idea cosmogonica rurale e cosmica, flessibili nella geometria variabile”. Setacciare la materia – oppure: il foglio – per distillare il mito. “Il mito è storia vera perché è storia sacra: non solo per il suo contenuto, ma anche per le concrete forze sacrali ch’esso mette in opera… La loro verità non è di ordine logico; nemmeno è di ordine storico: è, soprattutto, di ordine religioso e più specialmente magico”, scrive Raffaele Pettazzoni, nel suo pionieristico repertorio di Miti e leggende da tutto il mondo (1948-1963). In diversi miti, la parola avvia la creazione, la parola magica dà vita alla pietra inerme: c’è un rapporto tra verbo e scultura, tra ciò che è scritto e ciò che è scolpito. Una analogia ancora più marziale la designa Marcel Griaule, grande studioso della cultura Dogon, in Dieu d’eau. Entretiens avec Ogotemmêli. Gli astri sono opera di artigianato (“Il sole è, in un certo senso, un vaso portato all’incandescenza una volta per tutte e circondato da una spirale a otto avvolgimenti di rame rosso. La luna ha la stessa forma, ma il suo rame è bianco”), la parola è acqua piena di fibre (“la parola, senza sfumature, era adatta ai grandi lavori degli inizi… essa aveva un ruolo di organizzazione: era, dunque, una buona cosa; e, tuttavia, essa aprì il varco al disordine”). Durante la creazione, la parola diventa tessuto, tesse: “Il genio declamava e le sue parole colmavano tutti gli interstizi… esse erano intessute nei fili… erano il tessuto stesso e il tessuto era il verbo”. Parlare in modo appropriato significa leggere la tessitura del cosmo; scrivere vuol dire possedere. In ogni caso, la parola è opera d’arte, atto che fa accadere.

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Che Sangregorio abbia lasciato i suoi scritti al paradosso dell’estinzione, sul gorgo del caso, senza organizzarli, rischiando, è proprio di un’indole portata al rischio, appropriata alla sfida, di chi crede che il destino sia un tessuto, che il caos non si distingua dalla provvidenza, che qualcuno, infine, provvederà.

Alla Fondazione Sangregorio

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Sangregorio non è un neoprimitivo: i viaggi incessanti, in ogni angolo del pianeta, la fascinazione per l’Africa dei griot come per il Nord degli sciamani, la certezza – di Orfeo e di Eraclito, degli sciamani iperborei come dei cantori del Sahel e degli aborigeni australiani – che prima di essere arte, l’arte era rifinitura della grammatica dell’al di là, non lo distolgono da un nodo centrale. Tutto converge e conforta la ricerca specifica di Sangregorio, uomo occidentale del Novecento, cresciuto sotto la maestria di Marino Marini, che nello studio di Sesto Calende, incendiato di luce, non ricreava altri mondi, ma dava forma al suo mondo. Il lavoro intorno alla pietra levitante è la giunzione delle molteplici anime di Sangregorio, lo sciamano e l’alchimista. La pietra riporta alla perentorietà del mito primo, crudo; la levità alla rottura dello schema, ai castelli in aria, ai mondi improbabili ipotizzati da Leonardo, cartografati dagli antichi cercatori di Atlantide, idealizzati da Jonathan Swift, da Marcel Schwob, da Jorge Luis Borges. Sangregorio è il genio dell’impossibile: scolpire significa liberare la forma dalla pesantezza, sprigionare l’anima della forma, farla librare. La levità, in effetti, sinonimo di lieve e di lieto, di leggero e di fugace, pare il passepartout per disorientare una certa concezione dell’arte, accademica, seriosa, pesante, esangue. In fondo, l’arte è una pietra che vola, sgretola la forza gravitazionale delle nostre convinzioni.

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In ogni caso, occorre levitare, senza evitare la materia – percorso di ascesi, resurrezione. Che il vetro abbia valore di vento lo si deve all’audacia dell’artista.

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Il biglietto del 13 dicembre 2005 pare la trascrizione di una profezia. “Esamino il mio operato per riassumerne il senso e la consistenza: incontro dichiaratamente provvisorio di parti fin d’ora attratte da un oblio attraversate anche da imprevedibili bagliori e per 100-200 anni ed oltre attraverso metamorfosi e irreversibili sfaceli. Spazio a tre-quattro-cinque dimensioni, tempo senza passato e senza futuro, tempo uno spazio uno. Accadimento ignoto”. Sangregorio procede, come al solito, quando teorizza, percorrendo una grammatica assertiva, apodittica, frutto di intuizione scultorea. Sembriamo a un punto di non ritorno, smembrato: l’artista lotta contro i limiti della dimensione spaziale e temporale, agisce facendo accadere l’ignoto. L’oblio è attraente – l’artista dà vita all’opera ma è animato da un paradossale istinto di morte: crea ammazzandosi, dona l’imperituro sacrificando se stesso, il proprio nome: è il lavoro finale a restare, il nome del creatore può sparire, decapitato. L’artista, in fondo, vuole essere sollevato dal compito di fare arte, vorrebbe essere sgravato dall’impaccio del compito. L’episodio magico, alchemico, catapulta nella metamorfosi e nella distruzione: tutto può cambiare forma, ciò che è fatto deve disfarsi per rinascere. Cosa resta di ciò che ho creato? E dove sono, io? Sangregorio non permette pietà, non si permette la via di fuga. Tra oblio e bagliore si scoscende verso l’ignoto. Questo testo ha il sapore della veglia, un sogno cola.

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Nonostante le poesie di Sangregorio vivano in una ispirata, sciamanica occasionalità, la sua biblioteca, recentemente censita da Emanuele Beluffi, racconta di un vivace lettore di versi, di un cercatore dell’insolito. Se molti volumi sono dedicati all’arte dei primordi – gli straordinari tomi di André Malraux su “Le musée imaginaire”, ad esempio –, una parte cospicua è destinata alla poesia contemporanea, con testi non banali (a titolo di mero esempio: Fedi nuziali di Ferruccio Benzoni e L’ombra della salute di Alberto Pellegatta). Ai libri d’arte e di artisti, si alternano letture spesso sorprendenti, come Meditazioni sullo scorpione di Sergio Solmi, le poesie di Jean Genet e di Georg Trakl, Conoscenza dubbio rivelazione di Pierre Jean Jouve, i libri di Bartolo Cattafi e di Roberto Sanesi, che a Sangregorio dedicò qualche poesia, i diari di viaggio di Paul Morand e di André Gide, Dio d’acqua di Marcel Griaule. Libri, appunto, che costituiscono in qualche modo la cartografia di una mente, la radiografia di un’anima. In un repertorio sommario segnalo le Poesie di Aleksandr Blok e Aritmie di Attilio Bertolucci, le poesie di Vittorio Sereni e quelle di Alda Merini, Confuso sogno di Sandro Penna e Spade come labbra di Vicente Aleixandre, Il labirinto di Giorgio Caproni e L’opera in versi e in prosa di Camillo Sbarbaro, le poesie di Ungaretti, di Cardarelli, di Montale, le traduzioni ad opera di Mario Luzi (La cordigliera delle Ande e altri versi tradotti), tutte le opere di Leopardi, Moravagine di Blaise Cendrars, L’Aleph di Borges, il Diario in pubblico di Elio Vittorini, Il mondo estremo di Cristoph Ransmayr. La libreria di Sangregorio segnala una tensione che va al di là del diletto e dell’informazione letteraria, la costanza di chi s’incarica di una poetica, di una via nel verbo.

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In una delle ipotesi liriche per frammenti, la poesia Cuculo termina con questo verso: “l’incontrastabile ti porterà”. Va letta, questa fiammata linguistica, motto da incidere sullo stipite di una casa, sul bordo del talamo nuziale, come una disciplina. L’artista deve abbandonarsi all’incontrastabile, a ciò contro cui è inutile opporre resistenza, uno degli epiteti del dio.

*Questo testo riproduce in piccola parte lo studio di Davide Brullo intorno al volume “Migrazione nello sconosciuto. Scritti di Giancarlo Sangregorio”, Skira, 2020

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