02 Agosto 2019

“Pare un rapace, è incredibilmente bello, un dio spietato”: Samuel Beckett 30 anni dopo

Nel saggio, raccolto in Fuga da Bisanzio e dedicato all’opera di W. H. Auden, Iosif Brodskij ammette qualcosa di tanto ovvio che finiamo con crederlo ‘magico’. L’opera di un artista ha come incipit il suo viso, il viso è la raffigurazione anatomica precisa dell’opera. Se le parole sono autentiche, lavorano nelle ossa, negli occhi, modificano la dentatura, danno orografia alla gola: non a posteriori ma a priori osservando una faccia possiamo designare uno stile. A proposito di Beckett, Brodskij trovava che fosse “terrificante” la corrispondenza tra opera e volto.

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Per questo, allo stesso modo, sul “The Observer”, mostrando Another side of Samuel Beckett, Robert McCrum parte dalle fotografie. Sono quelle scattate da Jane Brown al Royal Court Theatre di Londra, “ho solo un minuto”, le disse lo scrittore, cinto, come al solito, in un solido pudore, “eccolo, il ritratto eterno dell’artista imperscrutabile, che mira i tormenti dell’esistere, eccolo ciò che per quelli della mia generazione voleva dire ‘beckettiano’: l’artista solitario, in parte veggente, un po’ eremita, ascetico, angolare, recluso”.

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Per dire di Beckett non si può dire che del suo viso, che ne rappresenta l’opera. Questa è la presenza. Più dell’aura – aureola romantica che dice tutto e nulla – è la presenza a distinguere il genio dall’artigiano: la presenza, il carisma del corpo, che non si può celare, neanche volendo.

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L’‘altro lato’ di cui scrive il giornalista sarebbe quello privato, divertito, caustico di Beckett. Per tutti Beckett, l’ultimo dei classici, per gli amici, rarissimi, coltivati nel nascondimento, era ‘Sam’. Lo sketch raccontato da Tom Stoppard è esemplare. “Adoravo Beckett, per me era una specie di presenza spirituale, non avrei mai pensato di poterlo incontrare. Ero a una festa, per caso, qualcuno mi disse, ‘Vorresti conoscere Sam?’, ‘Sam?’, feci io, ‘Samuel Beckett’, mi fu risposto. ‘Sam’ era in cucina, me lo presentarono. Non ero preparato ad affrontarlo, non avrei saputo cosa dire, semplicemente, indietreggiai…”. Non è sbagliato l’atteggiamento di Stoppard: di fronte al genio, si indietreggia.

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Lo sketch raccontato di Harold Pinter – primi anni Sessanta, Parigi, notte, Beckett in Citroën porta l’amico a bere, “alle quattro di notte finimmo per mangiare zuppa di cipolle a Les Halles, lo stomaco, tra tabacco, alcol e zuppa, mi si rivoltò, Beckett era scomparso: tornò dopo quasi un’ora, ‘Ho attraversato tutta Parigi, ma l’ho trovato’, mi disse, porgendomi un barattolo con del bicarbonato di sodio” – non svela ‘l’altro’ Beckett, ma le tracce di un uomo del miracolo.

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Jane Brown parla di Beckett come di “un’aquila azteca”; Elias Canetti dice che Hermann Broch “era un uccello, grande e bellissimo ma con le ali mozze”. La presenza può essere simile, ma non equivalente.

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Quest’anno gli anniversari che riguardano Beckett sono due, importanti: i 30 anni dalla morte e i 50 anni dal Nobel per la letteratura. Tuttavia, Beckett impone timore. In Irlanda, terra natia – di genitori protestanti, studia al Trinity College, si esprime come eccellente lanciatore di cricket – lo guardano con sospetto. Lo si celebra con incerto nitore, rispetto a Joyce, a Yeats, a Heaney. D’altronde, lui non negò mai, dietro la bruma nostalgica, una certa felicità nell’andare altrove, in qualsiasi luogo al di là della matrigna isola verde.

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Si fatica a mettere fiori ed armare le trombe intorno a Beckett (per fortuna!). Egli è l’artista della spoliazione, che scrive per sparire, per spargersi. Beckett non scrive il proprio monumento, disintegra i mausolei, il suo sussurro è vibrante, avvelenato, ci conduce sul baratro del silenzio, è come uno che sopra i ruderi della città semini il sale cantando una canzone di ristoro in una lingua ignota, barbarica e affascinante, infantile e bianca.

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Siân Phillips, poi moglie di Peter O’Toole e attrice di pregio – la vediamo, tra l’altro, in Dune, Valmont e L’età dell’innocenza – conosce Beckett nel 1965, per provare Eh Joe, il dramma per la televisione. “Avevo una pettinatura meravigliosa, un cappellino, probabilmente sfoggiavo pure un Dior per placare la mia tensione”, ricorda. “Era così elegante, con un maglione di squisita raffinatezza, e quegli occhi meravigliosamente blu: c’è una fotografia di quel momento. Io sembro un coniglio spaventato. Lui pare un rapace, bellissimo, incredibilmente bello, un dio spietato. Sapevo di essere alla presenza di un grande uomo”. La presenza, il rapace, il dio spietato.

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La divinità, appunto, è dolce e spietata. “Lavorare con lui fu la cosa migliore che mi sia mai capitata – e la più estenuante”, ricorda ancora la Phillips. “Non ho mai più incontrato qualcosa di simile. Era cortese. Ma fermo. Voleva a fare a modo suo, ‘l’unico modo possibile’, diceva. Era il mio metronomo: batteva il tempo dei suoi testi, come fossero uno spartito musicale. Un giorno, litigò con O’Toole che voleva fare un film dal Godot. Disse che Godot non sarebbe mai diventato un film, che l’unico attore con cui avrebbe potuto fare un film era Buster Keaton. Era sereno, ma aggressivo”.

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“Alla fine della mia opera non c’è null’altro che polvere”, dice Beckett a Israel Shenker. Poi affronta L’Innominabile che chiama “completa disintegrazione”. Per rinascere, occorre essere polvere; d’altronde, il carisma dei mistici è sgangherare il linguaggio per toccare l’ombelico di Dio, l’Innominabile. Questo aspetto – originarsi dalla disintegrazione – non può essere trascurato, del linguaggio si è il pasto – per questo Beckett, che ha il nome del profeta che ha unto Davide re screditando Saul, si è fatto icona del vuoto, un taglio, una feritoia; Heaney usa il verbo per scavare, Beckett per scavarsi. Da un lato abbiamo una spremitura azzurra, dall’altro l’ulcera, il latteo, poi il niente che precede il tutto. (d.b.)

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Pubblichiamo l’articolo-intervista di Israel Shenker, “Moody Man of Letters; A Portrait of Samuel Beckett, Author Of the Puzzling ‘Waiting For Godot’, pubblicato il 6 maggio 1956 sul “New York Times”

Beckett non dà di buon grado spiegazioni. Egli afferma di non essere mai stato intervistato e rimanda coloro che s’interessano alle sue idee alle opere ch’egli ha pubblicato. Il suo indirizzo a Parigi è segreto ben custodito, e una dozzina di persone a malapena conoscono dove è la sua casa di campagna…

L’uomo è magro, imponente, l’aspetto di un ardente apostolo. Ma egli non si preoccupa del suo aspetto e se i suoi vestiti sembrano gualciti… parla come i suoi personaggi, con esitazione, ma non senza brio; ha timore di affidarsi alle parole, cosciente che la conversazione non è che un’altra forma di agitazione…

Dopo avermi dato alcuni dettagli biografici, mi disse: “Alla Liberazione ho potuto conservare il mio appartamento, ci sono tornato, mi sono rimesso a scrivere – in francese – ne avevo voglia; era diverso da scrivere in inglese, era una esperienza più eccitante. Scrissi la mia opera rapidamente, dal 1946 al 1950. In seguito, non ho avuto più nulla da scrivere che mi sembrasse valido. La mia opera francese mi ha portato al punto in cui sentivo che ripetevo sempre la stessa cosa. Per alcuni scrivere diventa via via più facile; per me, l’estensione delle possibilità si riduce sempre di più… guardate come la forma di Kafka sia classica; avanza come un rullo compressore, con serenità. Sembra minacciato, di continuo, ma lo spavento è nella forma. Nella mia opera lo spavento è dietro la forma, non nella forma.

Alla fine della mia opera non c’è altro che polvere: il nominabile. Nel mio ultimo libro, L’Innominabile, c’è la completa disintegrazione. Non Io, non Avere, non Essere, non nominativo, non accusativo, non verbo. Non c’è modo di continuare. La cosa più recente che ho scritto, Testi per nulla, è stato un tentativo per uscire da questa disintegrazione, ma è stato uno scacco. La differenza con Joyce è che Joyce era un magnifico manipolatore di materia, forse il più grande. Bisognava rendere alle parole il massimo; non c’è una sillaba di troppo.

Joyce tende verso l’onniscienza e l’onnipotenza in quanto artista. Io lavoro con l’impotenza, con ignoranza. Non credo che l’impotenza sia mai stata coltivata in passato. Sembra che ci sia una specie di assioma estetico che dice che l’espressione è un compimento, deve essere un compimento. Per me, ciò che io mi sforzo di esplorare, è tutta questa zona dell’essere che è stata sempre trascurata dagli artisti come qualcosa d’inutilizzabile o, per definizione, d’incompatibile con l’arte. Io penso che oggi ogni persona che presti la più lieve attenzione alla sua personale esperienza si renda conto che è l’esperienza di qualcuno che non sa, di qualcuno che non può. L’altro tipo d’artista, l’Apollineo, mi è assolutamente estraneo”.

Quando chiesero a Beckett se il suo sistema fosse l’assenza di sistema, rispose: “Io non m’interesso ad alcun sistema, non voglio vedere alcuna traccia di sistema in nessun luogo”. S’interessava di politica? Ha mai trattato problemi quali il modo con cui i suoi personaggi si guadagnano il pane? “I miei personaggi non hanno niente”, disse, lasciando morire l’argomento. Perché ha scelto di scrivere un testo teatrale dopo i romanzi? “Non ho scelto – è accaduto”.

Come una bestia incalzata, Beckett misura la stanza. Gli faceva male che L’Innominabile lo avesse impigliato in una situazione irrisolvibile. “Come può fare se non ha niente da dire? Come gli altri, provare, continuare?”. Beckett mi ha risposto. “C’è chi, come Nicolas de Staël, si è buttato dalla finestra, dopo anni di lutto”.

*In copertina: Samuel Beckett secondo Richard Avedon

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