10 Novembre 2020

“In questo remotissimo angolo del mondo…”. “Il giorno del giudizio”, un capolavoro scritto nella pietra, che andrebbe letto stando in piedi

Il giorno del giudizio è un romanzo di pietra. Sembra che l’autore lo abbia scritto a colpi di scalpello. Scorrendo le pagine è facile sentirli risuonare lenti, cadenzati, inesorabili mentre uno dopo l’altro smussano le incrostazioni del tempo e sagomano i vari personaggi e le loro vicende. Un libro duro e impenetrabile come un nuraghe di quella Sardegna in cui è ambientato. Ho usato termini che possono apparire respingenti per descriverlo, ma la mia è solo una forma di rispetto per un capolavoro che andrebbe letto stando in piedi. Il suo autore, Salvatore Satta (1902-1975), era un giurista di fama che ha dedicato gli ultimi anni della sua vita a questo romanzo, ma che non lo ha visto pubblicare dal momento che è uscito postumo nel 1977. Credo proprio sia stato giusto così perché stiamo parlando di un testamento spirituale.

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Siamo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento a Nuoro, che al tempo era un piccolo centro di 5000 abitanti tagliato fuori dal mondo. Una sorta di isola in un’isola. L’autore, ormai anziano, torna dove è nato e cresciuto e va al cimitero. Lì trova le tombe di tanti suoi concittadini morti da decenni e comincia a raccontarne le vite ormai dimenticate. Il giorno del giudizio è un romanzo di morti.

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«In questo remotissimo angolo del mondo, da tutti ignorato fuori che da me, sento che la pace dei morti non esiste, che i morti sono sciolti da tutti i problemi, meno che da uno solo, quello di essere stati vivi».

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Nel corso del libro le storie dei vari personaggi inevitabilmente finiscono per incrociarsi, ma nello stesso tempo restano chiuse dentro ognuno di loro. Anche quei morti sono isole. Niente altro che tante piccole isole inghiottite per sempre dallo scorrere delle acque dell’esistenza. Il giorno del giudizio è un romanzo di isole.

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Al centro del racconto Don Sebastiano, notaio, immutabile e inaccessibile a tutti e soprattutto a Donna Vincenza, la moglie-vittima, e ai loro sette figli. E poi ci sono i quartieri ricchi dei notabili e quelli poveri dei contadini, il caffè Tettamanzi, la farmacia, le chiese, i preti, gli avvocati, i maestri di scuola, i contadini, i pastori. Ognuno con la sua vita incasellata una volta per sempre. Qualcuno l’ha passata ad accumulare potere e ricchezza, qualcun altro a coltivare l’odio e la vendetta. In fin dei conti non fa molta differenza. Sono tutte solitudini che si sfiorano, si intrecciano ma che per un arcano destino sono condannate a rimanere barricate nei propri confini invalicabili. Il giorno del giudizio è un romanzo di solitudini.

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«Come in un negativo che si sviluppa, volti remoti ricompaiono in questi che mi circondano: gente sparita dalla terra e dalla memoria, gente dissolta nel nulla, e che invece si ripete senza saperlo nelle generazioni, in una eternità della specie, di cui non si comprende se sia il trionfo della vita o della morte».

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Nel romanzo tutto appare immobile, come cristallizzato per sempre; un mondo pietrificato, quasi come i resti di Pompei ed Ercolano dopo l’eruzione del Vesuvio. Gli uomini procedono come automi senza un vero scopo o una meta; non agiscono la vita, la subiscono. E anche i sentimenti, le classi sociali, i rapporti, le istituzionie si tramandano intatti e identici da generazioni. Un senso di fine avvolge i personaggi che sembrano già morti anche quando sono nel pieno della loro vita. Le ore, i giorni, gli anni scorrono senza lasciare traccia. Il giorno del giudizio è un romanzo sul tempo.

Quando l’autore-narratore torna dal continente tutto è ormai sepolto dalla polvere che copre le tombe nel cimitero. Le vite di quegli uomini e quelle donne sono scivolate nell’oblio, trascinate via dall’inesorabile trascorrere delle generazioni, disperse nel nulla dell’eternità. Un mondo concluso una volta per tutte, rispetto al quale non c’è più niente da dire. Il giorno del giudizio è un romanzo di silenzi.

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«Forse la vera e la sola storia è il giorno del giudizio, che non per nulla si chiama universale».

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I morti nel cimitero di Nuoro sono come marionette abbandonate. Forse hanno bisogno di qualcuno che li liberi dal senso di inutilità che hanno avuto le loro vite, trascorse all’insegna di un destino ineluttabile, dalla solitudine che li ha accompagnati dall’inizio alla fine, ma in realtà procedendo nella lettura del romanzo ci accorgiamo che è l’autore, ormai a un passo dalla sua morte, quello che ha bisogno di andarli a cercare, di raccontarli, di restituire loro voce per tentare di sfuggire alla condanna del proprio oblio e di venire a patti con l’insondabile  mistero dell’esistenza:

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«Forse non erano Don Sebastiano, Donna Vincenza, Gonaria, Pedduzza, Giggia, Baliodda, Dirripezza, tutti gli altri che mi hanno scongiurato di liberarli dalla loro vita; sono io che li ho evocati per liberarmi dalla mia senza misurare il rischio al quale mi esponevo, di rendermi eterno».

Silvano Calzini

*In copertina: Gilbert Stuart, “Autoritratto”, 1778

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