27 Novembre 2019

Salvatore Niffoi è il migliore, in Sardegna e nel resto d’Italia: elogio serrato e spericolato di “Su Maistru” e del suo ultimo romanzo

Tra mezzo secolo tutti saranno bravi a confermarlo, noi lo diciamo adesso

 La storia, in particolare quella della letteratura, è troppo lenta nello scegliersi i suoi protagonisti, nello stabilire chi deve salire sul podio e chi fare la ballerina di seconda fila. Quasi mai di un grande è stato detto che era tale prima che fosse troppo tardi. Noi lo diciamo adesso, scommettendo sul fatto che il tempo confermerà la nostra previsione. Un giorno – non si sa quanto lontano –, quando si faranno i conti con ciò che la letteratura italiana ha prodotto dal secondo Novecento a oggi, lui dovrà avere un posto d’onore. Nella cosiddetta letteratura sarda, poi, è d’obbligo che occupi il trono. Se la prima parte del secolo scorso è della Deledda, il seguito è suo. Lui ha svecchiato la nostra letteratura regionale guidandola verso il nuovo millennio.

Dacché ha cominciato a pubblicare, Salvatore Niffoi non ha sbagliato un colpo. Lo possiamo immaginare seduto alla macchina da scrivere, o al computer, determinato come un cacciatore nella campagna barbaricina che mira al cinghiale e fa tuonare la sua doppietta. Dai primi testi per Il Maestrale di Nuoro, passando per quelli di Adelphi, fino all’ultimo Il cieco di Ortakos uscito per Giunti, il narratore di Orani ha solo confermato la sua bravura. Non avrà il successo della catena di montaggio Camilleri – & Company, ho timore –, ma la sua è vera letteratura.

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Un postmoderno in Sardegna

Non c’è dubbio su un punto: un innovatore sconvolge la scrittura per come, fino a lui, la si è sempre conosciuta e praticata. Salvatore Niffoi, da questo punto di vista, è un maestro – anzi “Su Maistru”, per dirla alla sarda. Similmente al compianto e prematuramente scomparso Sergio Atzeni, che con Bellas Mariposas mise a soqquadro gli stilemi della narrativa sarda trasponendo su carta una lingua ibrida, un misto di sardo e italiano, che caratterizza la parlata di Sant’Elia, la Scampia cagliaritana, così Niffoi innesta l’italiano entro la struttura scomoda e macchinosa della limba (lingua) sarda. In tal senso, anch’egli crea (o ricrea in ambito letterario) un codice che va oltre il dialetto e l’italiano ufficiale – generando una soluzione mirabilmente poetica e musicale, arricchendo quindi la lingua nazionale, scoprendone nuove potenzialità a mezzo di un’inedita grammatica.

Peccato che la parola sia abusata e spesso usata a sproposito, ma nel suo caso ci sono tutti gli estremi per dire che Niffoi è lo scrittore più postmoderno della letteratura sarda. Cosa vuol dire questo concretamente? Se il postmoderno è la fine di tutte le grandi narrazioni che lascia spazio a quelle più limitate, o per meglio dire di realtà ridotte ma comunque coesistenti in un orizzonte più vasto, è proprio il caso di dire che è lui la nuova voce della Sardegna, del locale che incontra il nazionale e il globale, della tradizione che entra in contatto con la mutazione radicale e inarginabile. Naturalmente il suo non è vuoto sperimentalismo – lo sappiamo, quasi sempre gli sperimentalisti sono illeggibili. Piuttosto, egli cerca una nuova via, la sola utile a dare voce a una Sardegna che altrimenti rimarrebbe confinata a un folclore letterario per turisti della letteratura, simile a quello che porta a scrivere fuori dai ristoranti “sapori tipici”, quando di tipico non hanno proprio niente.

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Il nuovo libro, Il cieco di Ortakos, è la conferma della sua genialità

Salvatore Niffoi sul piano letterario è tanto. Definirlo in due parole sarebbe impossibile. Certo, è poeta della prosa – la fa suonare come dei versi. Ma, soprattutto, è quello che simpaticamente si suol definire un grandissimo fill’ e bagassa – l’ironia, certo, non gli manca*. “Bellu meu, tue cunfundes s’affettu chin su lettu e su culu chin su rispettu!” (“Bello mio, tu confondi l’affetto con il letto e il culo con il rispetto!”): così fa dire il Maestro a Regina Biccai “a qualcuno di quei maschi che se n’era avanzato un tantino avanti facendo proposte che andavano oltre la decenza”. In generale, Il cieco di Ortakos è la storia di Damianu Isperanzosu, un uomo nato non vedente, o come dice lui “cieco sono nato, cazzo santo, cieco tutto, quasi che la maestra di parto mi avesse strappato gli occhi color oltremare per mettermi due biglie di pece scura al loro posto”. “Se tutto il buio che ho masticato inghiottendo rabbia e dolore potesse diventare una nuvola, al posto dell’acqua chiara verrebbe giù per mesi solo pioggia scura, oleosa, fumante come il catrame caldo”, ecco una delle prime cose che l’io narrante dice di sé. In verità, come consuetudine nei testi di Niffoi, il racconto è una storia di riscatto e redenzione, dove la disperazione si sublima in ironia (“A mia madre, che le chiedeva come mai avessi già gli occhi aperti e non avessi pianto al momento della nascita, dona Petronilla rispose: «Per come girano i tempi, cara mia, è meglio che li abbia così e che le lacrime se le conservi per quando sarà grande e inizierà a friggere nel suo olio»”).

Niffoi è a tratti sublime, mai contorto o non lineare, fedele nel raccontare una Sardegna di odi e dissapori, vendetta e fango, amori da covare nel segreto del cuore, da esprimere con uno sguardo fuggevole e che a volte trovano sfogo nel sangue. Una cosa è certa: prendete tutti i vari premi di questo e di quell’altro, le cinquine e le ventine, gli autori italiani attuali più gettonati, i Camilleri e Carofiglio… Niffoi è anni luce oltre, un vero fuori concorso.

 Matteo Fais

* Attenzione: l’espressione “fill’ e bagassa”, in Sardegna, nel novanta per cento dei casi, viene usata per indicare un uomo sveglio, intellettualmente vivace, dotato di ironia, con la battuta sempre pronta. In alcun modo, quindi, questa vuole costituire un’offesa all’autore, o all’onore di sua madre.

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